I ribelli del Mussa Dagh (Gariwo 21.05.25)
I famosi quaranta giorni sul monte Mussa Dagh (letteralmente la montagna di Mosè) sono il reale avvenimento storico da cui Fulvia Degl’Innocenti si lascia ispirare per raccontare la storia di come cinquemila armeni riuscirono a salvarsi miracolosamente: non fu merito dell’eroismo di un singolo, ma il risultato dell’unione e della forza di un popolo che ha saputo resistere alla minaccia turca. Ogni membro della comunità a suo modo, con le proprie doti e capacità, è stato determinante per evitare che sette villaggi armeni cadessero vittima delle atrocità, già toccate agli abitanti di diverse regioni sotto il controllo dell’impero ottomano: testimonianze e racconti parlano di violenze, esecuzioni pubbliche, deportazioni e marce della morte.
Alle loro spalle, il grande e imponente Mussa Dagh, massiccio montuoso di cui conoscono ogni pendio e parete rocciosa, e che avrebbe offerto loro la possibilità di accamparsi e sfruttarne la conformazione per pianificare una difesa strategica. I ribelli del Mussa Dagh è un racconto di coraggio e attaccamento alla vita, un esempio di resistenza di un popolo che, con orgoglio, ha voluto esistere come comunità, lingua e nazione.
1915, villaggio rurale di Yoghon Olouk, nell’Anatolia occidentale: qui abita il giovane Narek, insieme alla famiglia composta da altri quattro, tra fratelli e sorelle. Non avendo la possibilità di mandare a scuola tutti i figli, la famiglia decide che Narek, il maggiore, sarebbe stato il “prescelto”, colui che si sarebbe costruito un futuro diverso da quello destinato ad una famiglia di contadini, come la loro.
Si trasferisce ad Antiochia e comincia la sua brillante carriera scolastica, ma dopo solo pochi mesi inizia a cambiare qualcosa. I compagni di classe diventano più schivi e diffidenti, mettendo in atto piccoli episodi di scherno e prevaricazione. Narek è confuso, non capisce cosa sta succedendo e si confronta con il cugino maggiore Avedis; non si capacita della crescente ostilità che serpeggia nella popolazione turca contro la comunità armena. «Gli armeni sono sotto il mirino dei Giovani Turchi, il movimento politico che è al potere. Ci accusano di essere dei traditori perchè sul fronte russo ci sarebbero, secondo loro, truppe armene a fianco del nemico. Io però penso che sia solo una scusa. Un riaprirsi di vecchie ostilità» spiega Avedis «l’impero ottomano aveva già preso di mira noi armeni nel 1895. I massacri andarono avanti per due anni, partendo dall’Anatolia per poi diffondersi nel resto del Paese. Villaggi bruciati, decine di migliaia di morti, tra cui anche donne e bambini. I musulmani non hanno mai tollerato la presenza nel loro territorio di un popolo cristiano». La necessità di credere che i tempi fossero cambiati e che l’avvento di telegrafi, stampa e rappresentanti di potenze straniere in Turchia potessero evitare che si verificassero nuovi massacri, non sono sufficienti a prevedere e impedire quello che poi (a fatica e a distanza di molti anni) verrà riconosciuto come l’inizio di un effettivo genocidio.
In un clima di crescente ostilità, Narek viene espulso dalla scuola ed è costretto a tornare al villaggio; sono giornate lente e monotone per il giovane, abituato alla vita di città, tra studi e pomeriggi trascorsi a dipingere, sognando un giorno la carriera artistica. Ma anche a Yoghon Olouk non tardano ad arrivare i racconti dell’orrore turco: uomini strappati dalle loro case, donne e bambini costretti a marciare senza cibo né acqua, con il solo scopo di portarli alla morte per stenti.
I capifamiglia di tutti i villaggi dell’area si radunano e la decisione è pressoché unanime: l’unica soluzione possibile è l’immediata evacuazione verso le pendici del Mussa Dagh.
E’ il primo agosto quando partono in vista delle montagne, dove si insediano realizzando un vero e proprio villaggio nascosto: ogni famiglia costruisce una piccola baracca di legno e rudimentali murature; viene strutturata una cucina comune, dove le donne preparano da mangiare per tutti; si organizzano turni di guardia e di combattenti armati, pronti a fronteggiare eventuali attacchi nemici.
Restano asserragliati tra le montagne per circa quaranta giorni, difendendosi dalle incursioni turche e dalla penuria di acqua e cibo. Contano dei feriti, a volte anche dei morti; ma ognuno dà il proprio prezioso contributo. Narek e i suoi amici fremono per poter far parte del gruppo di combattenti: un “giocare alla guerra” che da passatempo scherzato sulle sponde del fiume, diventa una vera e propria resistenza, in cui si rischia davvero la vita. Anche i più piccoli partecipano, con una nuova versione del “telefono senza fili”, dove a viaggiare sono i messaggi trasmessi dai combattenti al fronte, attraverso la fitta boscaglia, fino al villaggio.
La luce della speranza arriva dal mare, con l’avvistamento di una nave alleata francese: nel giro di pochi giorni, viene attuata la fuga degli armeni nascosti che, sotto il frastuono dei colpi di cannone contro l’ultimo disperato attacco dei turchi, porta il giovane Narek a salpare verso l’Egitto, salutando una terra, la sua terra, che non avrebbe rivisto mai più.