Il canto di un popolo e il suo silenzio. Il film sul grande Komitas va sottratto all’oblio. La RAI agisca, c’è per questo (Korazym 12.06.25)
[Korazym.org/Blog dell’Editore, 12.06.2025 – Renato Farina] – Quando tutto fa cascare le braccia, mi è apparsa di nuovo davanti agli occhi la “croce di pietra” (Khatchkar), che esiste solo in Armenia, e costella ogni angolo della nostra terra. La nostra croce è diversa dalle altre, come le altre è piantata sul calvario, ma ecco dalla base conficcata del Khatchkar, dai piedi di Cristo, balzano su radici fiorite, che parlano già di risurrezione. La morte di Papa Francesco ha questo stesso profumo per noi. Ha donato sé stesso risorgendo come il Cristo vivo nella nostra fede così scadente.
Noi Armeni ci ricorderemo per sempre quando ci ospitò in San Pietro il 12 aprile del 2015, nella Messa per i “martiri Armeni”. Erano cent’anni dal “Grande Male”, la strage (il martirio) di un milione e mezzo di Cristiani. Egli osò dire che “il primo genocidio del XX secolo ha colpito il popolo armeno, prima nazione Cristiana”. Il governo turco, per bocca di Erdoğan, lo accusò di calunnia. Il governo italiano (allora di sinistra, ma che differenza c’è) tacque. Realpolitik, ci fu detto: ma non credevamo fosse sinonimo di viltà.
Ed ecco Leone XIV. Nella sua prima Udienza generale, il 14 maggio, ha detto: “Dalla Terra Santa all’Ucraina, dal Libano alla Siria, dal Medio Oriente al Tigrai e al Caucaso, quanta violenza!”. Da quanto tempo nessuno citava il Tigrai (in Etiopia). E nessuno aveva uno sguardo al Caucaso: che siamo noi, minacciati perennemente di genocidio da chi negando quello di un secolo fa si prepara a ripeterlo, protraendolo per sempre, ma non riusciranno anche ammazzandoci tutti a finire il lavoro, la nostra croce molokan-armena rifiorirà.
La voce più bella del mondo
Ma accidenti, non dormite fratelli, vigilate vi prego. In questa mia lettera dal Lago di Sevan, tratterò finalmente di un film-capolavoro, e non esiterò a rovinarvi il finale, tanto so che oramai non passerà mai in tivù e nelle sale. Si chiama Soghomoni yergery, in inglese Songs of Salomon, cioè Canti di Salomone (Salomone è il nome di battesimo di Komitas). È del 2019, diretto da Arman Nshanian. Sto annunciando da mesi, senza mai arrivare al sodo, perché la realtà è più imperiosa e stringente di un film. Stavolta però non mi fermo. Cerco di resuscitare questo film sparito, sottratto alla visione del mondo, rintracciabile solo su Vimeo, visione a pagamento. È dedicato a un grande musicista armeno, Komitas Vardabet (Padre Komitas). È molto di più di una rievocazione delle torture e degli assassinii di cui è gonfia la nostra storia. C’è la musica divina di Komitas, una croce fiorita, color del sangue e insieme celeste.
Dovremmo guardarlo tutti. Aiuta a sconfiggere l’odio, induce al perdono e a chiedere perdono. La RAI dovrebbe agire, subito, c’è per questo. Ma io ho il sospetto del perché nessuna rete generalista pubblica o privata, e neppure Netflix, lo sottragga all’oblio.
Komitas era nato lì, a Kütahya, nel 1869, proprio nella città dei massacri hamidici (1894-1896), che precedettero e furono un esperimento di genocidio. Quando si susseguono le stragi in Anatolia, è lontano dalla sua città natale, ha studiato teologia e musica a Berlino, è diventato prete, compositore, musicologo, raccoglierà infine, parole e note, quattromila canzoni armene, turche, greche. La sua ricerca lo fa viandante inquieto. Si apposta dietro gli alberi per fissare sui fogli le note di canzoni che si spandono sul frumento rallegrando i mietitori. La sua preghiera crea inni e canti della divina liturgia armena.

Komitas era lontano in quegli anni, ma la sua voce – la più bella del mondo, secondo tante testimonianze di diplomatici forestieri – si era deposta purissima, come una venatura d’oro niveo, nelle invisibili fessure dei muri dove abitava la propria gente, o l’amica gente turca. Essa di notte riposava, ma ad ogni alba il sole compiva il prodigio di scioglierla in melodie di fanciulli e di vecchi che se ne passavano l’eco.
Il giorno del Medz Yeghern
Il film racconta come l’odio nasca senza ragione nelle stanze del potere, e poi corra veloce insinuandosi rapido quale miccia, e incendia le masse, le quali si convincono che questo sentimento sia nato in loro, e diventano folla bruta, sobillata dai servi del sovrano.
I deboli – gli Armeni! – non capiscono: ci vogliamo tutti bene, una passione tanto tremenda non può esistere, un amico non ti afferra alla gola per consegnarti al boia. Ma l’amore è la sola cosa per la quale si possa vivere ma anche morire, restando umani: un capitano Turco si lascia ammazzare dal superiore per salvare una mamma Armena, amica di Komitas, e il suo piccino. La sua vedova musulmana raccoglie il bambino. Anch’ella amava Komitas. La signora, di ricca famiglia, è nel teatro dove, quel fatale 24 aprile 1915 (il giorno del Grande Male, Medz Yeghern) è atteso il grande evento musicale il cui protagonista è il Padre Komitas davanti agli alti pennacchi della Sublime Porta. Lo spettatore del film, dopo aver visto Salomone bambino a Kütahya, lo rivede lì, a Istanbul: è famoso nel mondo, celebrato come la colonna più bella su cui si regge l’Impero ottomano. Quella sera è la sera della morte: l’ordine di deportazione degli Armeni scatta e diventa esecutivo, il medesimo secondo, nei 600mila chilometri quadrati della Turchia. A Costantinopoli-Istanbul non si fecero rastrellamenti, c’erano gli occhi delle ambasciate, bisognava salvaguardare le apparenze. Furono arrestati ottocento intellettuali Armeni, accusati di essere la quinta colonna del nemico Russo, e fatti sparire. Saranno tutti uccisi, meno uno. Perché? Perché lui? Che disegno c’era, non nella testa dei carnefici, ma più in Alto?
Il teatro è la trappola perfetta per impedire che qualcuno trasferisca il grande Maestro in una ambasciata e da lì all’estero, dove sarebbe stato una spina nel fianco. Komitas dirige il suo coro di trecento voci, intona i suoi inni (cercateli sul Web). Un’armonia dolente invade la grande platea affollatissima. C’è come un presentimento che fa vibrare la sala. Talat Pasha, il capo dei Giovani Turchi, insediato nel suo palco odia che questa armonia sgorghi da una sorgente armena. Armenia non viene da armonia, si limita a dare il suo nome all’albicocca, il cui albero è catalogato da Linneo come Prunus Armeniaca, mentre il frutto in veneto è detto armellina. Armonia perduta.
Una scelta di libertà
Alla fine Komitas è preso, ammanettato. Inutilmente gli spettatori si alzano in piedi, si girano verso il palco del genocida, invocando con un applauso provocatorio la liberazione della musica incarnata in quel prete calvo. Da quel momento, chi aveva composto centinaia di meravigliosi cori armeni, e aveva percorso pianure e montagne da cantore di epopee popolari, non pronuncia più una parola, un suono.
Komitas viene quella sera stessa trasferito dove vengono torturati e assassinati i suoi connazionali, mentre la polizia porta via e distrugge le sue raccolte di canti. L’America, non ancora coinvolta nella guerra, si attiva per salvarlo. Sarà però la figlia del sultano, sua allieva, a salvarlo. Sarà preservato, l’unico degli ottocento intellettuali di Costantinopoli a tornare tra i vivi.
E qui comincia l’enigma degli enigmi. È accolto in Francia. Pensano che finalmente tornerà a comporre, cantare, musicare, insomma dica almeno qualcosa, parbleu. Nulla, per vent’anni resterà muto. Lo misero davanti a un organo. Si alzò e andò via. Gli posero in grembo il tar, uno strumento popolare. Lo scostò, con rispetto, delicatamente. Lo portarono in manicomio. Nessuno ha mai potuto stabilire se fosse malato e pazzo, oppure avesse fatto una scelta di libertà. Offrire qualcosa di più prezioso della vita, la sua musica, la sua voce. Le grida dell’orrore, si sarebbero udite meglio in cielo incastonate come rubini di sangue nella purità del silenzio. Salomone Komitas non si presterà ad essere il menestrello consolatore, a ingannare con la dolcezza la brutalità dell’orrore, non anticiperà l’orchestra di Auschwitz, utile a far sorridere quegli scriccioli di bambini in braccio alle mamme, illuse da un motivetto all’ingresso della camera a gas.
Non era pazzo, Komitas: il suo silenzio è la follia del genio. Lo ripeto anch’io, spero nei santi, spero nel silenzio di Komitas. In quel silenzio c’è un Mistero, un canto divino, che udiremo, oh se lo udiremo.
Il Molokano
Questo articolo è stato pubblicato sul numero di giugno 2025 di Tempi in formato cartaceo.

La maggior parte fu uccisa in esilio. Komitas fu uno dei pochi a tornare e a sopravvivere. Dopo l’intervento di Henry Morgenthau (1856-1946), allora Ambasciatore degli Stati Uniti presso l’Impero Ottomano, a Komitas fu permesso di tornare a Costantinopoli, ma ciò che aveva vissuto durante le sette settimane di esilio sconvolse la sua vita e distrusse la sua scintilla creativa. A causa della depressione o della disperazione, Komitas cessò le sue ricerche e tutte le attività creative.
Komitas iniziò la sua carriera musicale raccogliendo musica popolare sul campo e divenne uno dei pionieri nel comprendere il valore della musica popolare per la ricerca accademica sistematica. Komitas sviluppò un metodo efficiente di lavoro sul campo per raccogliere la musica popolare. Poiché il canto era parte integrante della vita degli abitanti dei villaggi, essi erano riluttanti a esporre questo aspetto personale della loro cultura agli stranieri. Komitas si univa quindi alle attività del villaggio (lavoro, matrimoni e altre cerimonie) o raccoglieva musica in segreto. Raccolse circa quattromila canzoni e melodie popolari armene. Era interessato non solo alla musica armena, ma anche a individuare la musica delle nazioni vicine per uno studio comparativo. Così, accanto alla musica armena, apparvero nelle sue collezioni anche canzoni popolari curde, assire, arabe, turche, georgiane e di altri Paesi.
Foto di copertina: la locandina del film drammatico biografico del 2019 Songs of Solomon diretto da Arman Nshanian, che descrive la vita e la musica di Komitas Vardabet, compositore, etnomusicologo e sacerdote armeno, vissuto durante gli anni del genocidio armeno.
Il film racconta di un’amicizia d’infanzia spezzata da un orribile impero deciso a distruggere tutto ciò che incontra sul suo cammino. Una donna coraggiosa, in un periodo di terribili pregiudizi, rischia la sua vita e quella della sua famiglia per salvare la sua migliore amica, braccata per le sue convinzioni religiose. Questo ritratto epico si svolge a Costantinopoli all’inizio del secolo, trasportandoci in un viaggio emozionante e musicale. Un film di amore, speranza, coraggio, inganno e dolore. E musica, un film altrettanto sulla musica… Musica che avrebbe legato un intero popolo al cielo e alla terra, ai fiumi e alle stelle. La musica di Padre Komitas, noto anche come Padre Salomone.