Il cibo è una mappa In viaggio dall’Armenia alla Georgia con Caroline Eden (L’Inkiesta 23.05.25)

“Green Mountains” narra l’esplorazione a piedi di un territorio che ha appena cominciato ad aprirsi al turismo e il confronto con l’autrice ci offre l’occasione per riflettere su cosa questo comporta e su quale sia la via più rispettosa per scriverne, per non correre il rischio di un’interpretazione superficiale e distorta della cultura e della popolazione locale

Echmiadzin, Armenia, foto di Aram su Unsplash

A fine anni Ottanta, in un articolo per il New York Times Paul Theroux si domandava quale fosse la funzione della letteratura di viaggio. Questo genere («hardly a form at all», scrive Theroux) che dovrebbe orientare e, invece, tende a perdersi seguendo percorsi più sentimentali che geografici, talvolta così tanto da eludere perfino la realtà e mescolarsi con la narrativa nel caso della Patagonia di Bruce Chatwin. Confrontandosi con i fatti di Piazza Tien An Men, Theroux si convince del ruolo cruciale del diario di viaggio per la sua capacità di rappresentare esperienze sì individuali ma in grado di connettersi profondamente alla molteplicità del luogo. Lo fa attraverso dissonanze e piaceri, difficoltà, contraddizioni e, soprattutto, con quelle cose semplici, un po’ banali e quotidiane, che costituiscono il fatto umano che libri di storia, trattati e guide difficilmente riescono a toccare.

Chiedersi a cosa serva la letteratura di viaggio oggi significa fare i conti con un mondo in cui l’opportunità dell’inedito si rapporta con la replicabilità dell’identico – di questi tempi specialmente gastronomico – come unica forma che dà consistenza e sapore alla meta che si raggiunge. Se le città sono sbranate da file chilometriche ansimanti l’ultima tendenza, la letteratura di viaggio può essere ancora un modo per allenare il moto di scoperta. Un allenamento per accogliere l’imprevedibile e i suoi significati, così come a riflettere sul nostro impatto nei luoghi che frequentiamo, una delle forme di rispetto più sottovalutata nell’ipertrofia turistica in cui ci ritroviamo immersi. Un riallineamento verso ciò che c’è intorno e in cui ci capita di trovarci.

È da una tempesta capitata all’improvviso, con una corsa fra le saette per mettersi in salvo nella Valle dei Guai, conosciuta anche come Valle della Morte, fra Armenia e Azerbaijan, che parte il racconto in “Green Mountains” (Quadrille Publishing), libro che conclude la trilogia dei colori inaugurata da “Black Sea” nel 2018 e proseguita da “Red Sands” del 2020. Nel suo libro Caroline Eden attraversa Armenia e Georgia a piedi, attraversa grandi vallate e alte montagne, esplora Paesi e umanità in macchina insieme ad autisti conosciuti lungo il cammino. Incontra scalatori, comunità chiusissime fra le montagne, si confronta sui cambiamenti in atto a Tbilisi, dove il turismo già comincia a mostrare la disgregazione del tessuto tradizionale.

Ceramiche a Yerevan, foto di Hasmik Ghazaryan Olson su Unsplash

Al centro di questo diario intimo, le coordinate geografiche e naturali si fondono con il racconto gastronomico, a quello politico e culturale. È così che le sale degli scacchi di Yerevan prendono vita e si fondono con le immagini dei film di Paradžanov, o un pellegrinaggio alla ricerca di un monastero diventa un modo per ritrovare in un lavash alla trota tutta la poesia e l’immediatezza della semplicità culinaria.

«Stavo riflettendo sul ruolo della letteratura di viaggio e sono d’accordo nel dire che sia un genere un po’ fuori moda», racconta Eden. «È una branca particolarmente insidiosa dal momento che l’appropriazione culturale è stata un problema, perché, tradizionalmente, ha riguardato in gran parte il ricco uomo bianco occidentale che andava in Africa o in luoghi colonizzati. Oggi le cose sono cambiate, ma bisogna essere estremamente cauti quando si va nel Paese di qualcun altro e se ne fa un resoconto. Dipende tutto da come si racconta la storia, dall’empatia che si prova, dalla delicatezza con cui si procede, dal rispetto, e credo, finché si riesce a dimostrare dedizione e un certo interesse genuino, che questo sia possibile. La letteratura di viaggio potrà apparire un contributo molto marginale rispetto ai libri di geopolitica e di storia, forse più pubblicati e che trattano un aspetto specifico, ma può dare un quadro giornalistico più ampio e umano.

Quando viaggio o quando leggo di un luogo, mi interessa sapere come appariva una strada prima, come è cambiata la sala da tè, o quante persone ci sono per strada e cosa mangiano, e tutto questo può essere ben descritto nei libri di viaggio. Tutte queste regioni sono state colpite dalla guerra in Ucraina, ma sono influenzate anche dall’arrivo del turismo. Ci ritroviamo a un punto di svolta ora, proprio la scorsa settimana sono atterrati nuovi voli dal Regno Unito per Tbilisi che, prima, era complicatissima da raggiungere. Quando le compagnie low cost iniziano a volare, il volume di turismo aumenta e questo cambia davvero le cose. Dico sempre che il turismo è come un genio che esce dalla bottiglia, non ci rientra mai più e deve essere gestito con cura».

Il cibo è una delle lenti che Eden utilizza per rappresentare quello che già indicava Theroux, esperienza di piacere ma, anche, mezzo per aprire nuove esperienze e nuovi incontri, per riportare a casa quei sapori attraverso le ricette che concludono ogni capitolo della trilogia. In “Green Mountains” questa capacità del cibo di delineare storie e aprire nuovi panorami appare sottoforma di un’albicocca, regalata da un camionista burbero e sconosciuto da un benzinaio, ma può assumere con la stessa facilità toni cerimoniali, in un paesino nella regione georgiana dello Svaneti durante una veglia funebre, o una caratteristica di gioia vivida, come un pasto che si guadagna dopo un hiking nella neve: «Il piacere semplice, ma intenso, di mangiare cibo conquistato con fatica, preparato con cura da un cuoco», scrive Eden, «Uno scambio gioioso. Un passo verso il sapore, un viaggio verso il sostentamento. Un momento in cui anche il più rudimentale dei pasti diventa un banchetto appagante e prezioso. Sì, il pasto dopo una camminata, e tutti i fattori fisici ed emotivi che ne conseguono, è qualcosa che rende davvero la vita, anche nei momenti più difficili, degna di essere vissuta».

«Il cibo per me è come il tessuto del viaggio», prosegue Eden, «mangiamo tutti tre volte al giorno. È la nostra prima introduzione a un luogo e mi capita di ricordare sempre il primo pasto che ho fatto in una città che aspettavo con ansia di visitare. Ad esempio, a Yerevan, la capitale dell’Armenia, c’era un ristorante, un posto piuttosto popolare chiamato Lavash, che è il nome del pane che gli armeni sono maestri nel cuocere con il tradizionale forno di terracotta. Non era un posto con una storia straordinaria o qualcosa del genere, ma c’erano due donne che cuocevano il lavash fresco dietro una parete di vetro e ci salutavano sorridendo e io pensavo: “Che bello!”. E poi ricordo quando il lavash è arrivato al tavolo ed era caldo e gonfio, appena sfornato, e il primo sorso di Jermuk, la famosa acqua minerale armena.

Penso che il cibo sia, semplicemente, un ottimo modo per affrontare una storia e che possa preservare un luogo intero. Voglio dire, Paesi come l’Uzbekistan, la Georgia e l’Armenia sono incredibilmente orgogliosi delle loro cucine nazionali, e a ragione, perché sono fantastiche. Nei miei libri il cibo rappresenta il primo e l’ultimo passo, ma non è tutto, ci connette alle persone e ai loro pensieri, mi permette di scoprire cosa ha da dire un botanico, un fornaio, un venditore del mercato… Voglio sedermi e parlare con le persone e scoprire altri aspetti della loro vita, magari usando il cibo per aiutarci a raggiungere quella confidenza necessaria e, così, credo valga anche per i lettori. È un modo per prenderli per mano e condurli in una chaikhana (casa del tè uzbeka, NdT) nel mezzo del deserto in Uzbekistan e, poi, puoi parlargli di altre cose che accadono in quella zona. È un modo molto utile per entrare in contatto con le persone e costruire una fiducia con loro e con il luogo in cui ti ritrovi, in tantissimi modi diversi».

Preparazione del lavash a Yerevan, ph. Alessandro Bezzi, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons

“Green Mountains” è la chiusura di un cerchio certamente geografico, nei territori bagnati dal Mar Nero e quelli custoditi dal Caucaso ma, anche, un modo personale con cui confrontare le proprie tracce con i mutamenti di queste zone, nei termini politici ed economici portati dalla guerra in Ucraina e dalle sue conseguenze. Su questo Eden è molto chiara: molto più di altri luoghi, i Paesi bagnati dal Mar Nero appaiono come un ago della bilancia, se non mondiale almeno dell’Occidente, in cui preservare identità e tradizioni diventa un elemento fondamentale. Il cibo, in questo, risulta una componente indissolubile, un termine di approfondimento estatico e simbolico con cui confrontarsi per comprendere sé stessi e il lato – per non dire costo – umano ciò che si ha intorno.

«Sono tornata in Ucraina nel febbraio del 2024», conclude Eden, «per scrivere un servizio radiofonico sul mercato di Pryvoz, il famoso mercato di Odessa. Tutti parlavano del secondo anniversario dell’invasione su vasta scala, con storie molto intense legate alla guerra, mentre il mio servizio racconta di quando andavo al mercato e parlavo con la gente su come andavano i loro affari durante la guerra. Prima dell’invasione era un luogo estremamente vivace ma ora era molto, molto diverso. Ci sono tornata d’inverno, durante la guerra e, ovviamente, era piuttosto tranquillo. È stato un po’ triste vederlo così. Gli ucraini sono incredibilmente resilienti e le donne con cui ho parlato mi hanno detto che parte del loro problema era che i ristoranti non andavano più molto bene perché molti uomini combattevano in prima linea. Era più o meno come ci si aspettava.

È molto importante raccontare queste storie umane, non solo di politici e delle persone importanti, di chi sta combattendo ma, anche, delle donne che cercano di mandare avanti le famiglie in questo periodo. Del banco che vende i suoi gamberi d’acqua dolce o della carne che Svetlana vende per mandare i suoi figli a scuola. Queste piccole storie umane sono vitali perché ci ricordano il costo umano della guerra e che, questo, non ha a che fare solo con numeri, droni o munizioni. Il cibo è un punto di vista importante con cui farlo, perché è molto riconoscibile. Tutti sanno com’è andare al mercato e non è così difficile immaginare come potrebbe essere in tempo di guerra. La maggior parte dei miei amici ucraini mi parlano di questo, di cercare la gioia di cucinare come un atto di sfida e di viverla, dove si può».

La letteratura di viaggio e il racconto gastronomico possono essere tutto questo: un pretesto di scoperta, e di recupero, per i nomi che una storia globale non può riprodurre. La difesa di un piatto, il recupero di una ricetta. La descrizione di montagne ripidissime, della paura di perdersi e la gioia di ritrovare il percorso. Le imprese degli scalatori del Monte Arat, la vita dimenticata delle sorelle pittrici Mariam e Yeranuhi Aslamazyan, o un pretesto per rileggere le storie dei viaggiatori e delle viaggiatrici che prima di noi ci hanno mostrato che ci può essere altro, oltre l’esotico, oltre la semplice presenza, per concepire nuove forme di scoperta.

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