Il genocidio armeno: 110 anni di memoria, negazione, giustizia e indifferenza (Torino Cronaca 24.04.25)

Prima del 24 aprile 1915, nell’ex Impero Ottomano si trovavano 2,925 cittadine e villaggi abitati dai vicini armeni. Dopo il 24 aprile il numero si è ridotto tragicamente sotto l’ombra dell’indifferenza mondiale. A distanza di 110 anni, il genocidio degli armeni è ancora una ferita aperta e un dibattito sugli atti premeditati di un paese che continua a negare i fatti, nonostante le prove e le testimonianze di sopravvissuti che nemmeno l’Intelligenza Artificiale può contraffare.

La cosa più scioccante? Nel 2025, in Italia, l’insegnamento del genocidio armeno nelle scuole non è uniformemente integrato nei programmi scolastici nazionali e al mondo solo Germania, Francia e Stati Uniti hanno iniziato da meno di dieci anni a integrare l’argomento nell’educazione, sia scolastica che universitaria. Ma cos’è stato il genocidio armeno? Perché a 110 anni le diaspore armene mondiali continuano a parlarne? E soprattutto, perché la Turchia continua a negarlo? Partiamo dalla prima domanda.

Foto di Armin T. Wegner

Cos’è stato il Genocidio Armeno?

C’è un punto da chiarire: come lo è stato per l’Olocausto, il genocidio degli armeni non aveva coinvolto solo gli abitanti del paese caucasico ma anche curdi, greci e assiri (che si intenderebbe per siriaci o caldei). Com’è nato? Certamente c’è stata una premeditazione: nell’Impero Ottomano, al tempo della Grande Guerra, erano arrivati al potere i Giovani Turchi guidati da Talaat Pasha, l’ideatore numero uno, seguito dal fratello Enver, co-ideatore della politica di pulizia etnica e da Djemal, che supervisionò le deportazioni nel deserto siriano. Durante il primo anno di guerra, i Giovani Turchi avevano intenzione di espandersi e in alcune occasioni sono andati contro l’esercito inglese e russo, e in entrambi i casi sono stati sconfitti in maniere umilianti e per non perdere la fiducia del popolo, dovevano trovare un capro espiatorio a cui dare tutte le colpe, e gli armeni sono stati il bersaglio perfetto.

Non solo armeni, ma anche cristiani, che, secondo Pasha, non sarebbero mai entrati in armonia con i turchi e con le loro politiche. E da qui, parte il piano sistematico e accuratamente orchestrato: già negli anni precedenti alla guerra, il governo aveva effettuato censimenti dettagliati delle popolazioni armene, identificando villaggi, parrocchie, scuole e centri culturali. Allo scoppio della guerra, i soldati armeni arruolati nell’esercito ottomano furono disarmati, isolati e successivamente impiegati in battaglioni di lavoro forzato, dove furono sistematicamente eliminati, mentre i media come i giornali furono controllati e utilizzati per dipingere gli armeni come una “quinta colonna” al servizio della Russia, per giustificare l’imminente repressione.

E poi arriva il 24 aprile 1915, dove 200 persone tra intellettuali, leader religiosi, scrittori, giornalisti e politici armeni furono arrestati a Costantinopoli e deportati nell’interno dell’Anatolia, dove la maggior parte fu giustiziata. E la situazione, da quel giorno, degenera: sotto l’apparente legalità della Legge sulla Deportazione (Tehcir Kanunu), le popolazioni armene furono obbligate a lasciare le loro case con poco preavviso e dovettero marciare per centinaia di chilometri verso il deserto siriano, in condizioni disumane. Le “marce della morte” furono teatro di violenze, stupri, massacri e fame. Le colonne di deportati erano spesso attaccate da milizie locali, bande criminali o dai gendarmi stessi, incaricati in realtà di sterminarli lungo il percorso.

sopravvissuti alle marce venivano concentrati in veri e propri campi di sterminio improvvisati, soprattutto nell’area di Deir ez-Zor, nel deserto siriano, campo che oggi non esiste più ma che molti visitano in ricordo dei fatti accaduti. In questi luoghi, privati di acqua, cibo e ripari, morirono decine di migliaia di armeni. Molti furono uccisi direttamente, altri lasciati morire di stenti. I beni degli armeni – case, terre, botteghe, chiese – furono confiscati dallo Stato o redistribuiti a cittadini turchi o musulmani, spesso con atti formali di esproprio. I bambini sopravvissuti furono spesso islamizzati a forzaaffidati a famiglie musulmane per cancellare la loro identità.

 

 

E per le donne la sorte è stata niente meno che atroce: durante le deportazioni, migliaia di donne e ragazze venivano rapite lungo le carovane, spesso da miliziani o bande paramilitari che collaboravano con il governo ottomano. Venivano vendute, scambiate come schiave, o “prese” come concubine. Alcune furono cedute come “spose di guerra” a famiglie musulmane per islamizzarle e cancellarne l’identità. I bambini che portavano in grembo venivano spesso uccisi o strappati loro alla nascita. Donne incinte venivano brutalmente uccise, persino squarciate nel ventre, come riportano vari testimoni occidentali. C’erano episodi di mutilazioni genitaliimpiccagioni di donne nude nei mercati dei villaggi, marchiature a fuoco sul corpo. Le più anziane spesso venivano lasciate morire di fame o gettate in burroni, mentre le giovani venivano tenute come oggetti sessuali o schiavizzate.

Il tutto sotto gli occhi di fotografi e giornalisti che, vedendo gli atti di crudeltà subiti, hanno scattato delle foto che ancora oggi vengono ritenute false dal governo turco: donne crocifisse perché cristiane, uomini impiccati o decapitati, bambini con sguardi persi e corpi scheletrici. Foto nascoste per tanto tempo per paura di essere censurati, com’è stato per il fotografo tedesco Armin T. Wegner, autore delle foto principali del genocidio.

Lo sterminio andò avanti fino al 1917 ma non finì come per la Shoah, con l’abbandono dei nazisti dei campi di concentramenti e con le liberazioni da parte degli eserciti alleati, ma finì gradualmente per una serie di fattori storici e geopolitici legati alla caduta dell’Impero Ottomano e al mutare degli equilibri internazionali alla fine della Prima guerra mondiale fino alle fughe dei Pasha in Germania. Tra il 1915 e il 1917, un milione e mezzo di armeni è stato sterminato.

Perché si continua a parlarne a 110 anni di distanza?

Per rispondere a questa domanda è doveroso riportare una frase: chi parla ancora oggi del genocidio degli armeni?”. Prima di rivelare colui che disse questa frase, è doveroso riflettere su questa domanda retorica e darne una risposta. Chi parla ancora oggi degli armeni? Di quello che hanno vissuto, della separazione forzata delle loro famiglie, della cancellazione della loro cultura, della loro stessa identità? Chi ne parla se non coloro che ne hanno scritto libriscattato fotocreato film muti (come ha fatto Aurora Mardiganian, celebre attrice e autrice di “Ravished Armenia” da cui è stato tratto il film) e cantato canzoni? I discendenti di coloro che sono sopravvissuti, coloro che sono scappati per la paura, quelli che si ricordano vagamente di quello che è stato.

Aurora Mardiganian

Ne parlano gli stranieri che si appassionano alla storia di un paese che c’è stato fin dal diluvio universale, il primo paese al mondo ad aver accettato il cristianesimo come religione ufficiale. Un paese che ha contribuito alla scienza e alla cultura e che continua a combattere contro i paesi che la vogliono estinta dalla faccia della terra.

Chi parla ancora oggi del genocidio armeno? I nipoti, i pronipoti e i discendenti che ogni giorno sentono il peso di tramandare con le loro voci le testimonianze dei loro avi, e di coloro che non hanno potuto raccontare la loro storia, sotto l’indifferenza del mondo, che distoglie lo sguardo e fa finta di non sentire.

“Chi parla ancora oggi del genocidio degli armeni?”. Se lo era chiesto Adolf Hitler.

 

 

Perché la Turchia continua a negarlo ancora oggi?

Questa è una di quelle domande a cui solo Dio potrà dare una risposta. Non è facile pensare ad una risposta concreta e che dia un senso alla premeditazione omicida che ancora non ha portato pace al popolo armeno globale. Diaspore da tutto il mondo, con protestepetizioni e lettere ai capi di stato, persino politici sollevano da più di un secolo la questione della negazione da parte della Turchia di riconoscere gli atti del 1915.

Il presidente turco Erdogan, fin dall’inizio del suo mandato, aveva rilasciato delle sconcertanti dichiarazioni sulle richieste da parte anche dell‘UE di riconoscere il genocidio, definendolo una “conseguenza tragica della guerra” e mai un “genocidio”. E pensare che la stessa parola ‘genocidio’ è stata cognata nel 1944 da Raphael Lemkingiurista polacco ebreo per designare lo sterminio degli armeni perpetrato dall’impero ottomano. Due più due fa quattro.

Raphael Lemkin

110 anni dopo. Che cosa si può fare oggi?

Il genocidio degli armeni è stata uno degli stermini di massa più riusciti del XX secolo. Un piano orchestrato alla perfezione che ha dato ai turchi la chance di negare ciò che è stato. Cosa si può fare oggi per non continuare su questa linea? Canali Youtube, libri, film, canzoni, le stesse persone, che siano armene totalmente, o per metà o di discendenza, sono piccole sfumature di un quadro più grande e più doloroso che deve essere conosciuto e affrontato.

È quindi un dovere, sia degli armeni che vivono oggi, che i non di ricordare, di ascoltare, di conoscere, di vedere. Non è una semplice lezione di storia, ma è una graffetta su un capitolo dell’esistenza umana che rimane fisso con la coda dell’occhio.

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