«Il genocidio in corso è quello armeno». Non se ne vuole saper nulla perché scomodo (Korazym 11.02.25)

Ieri 10 febbraio 2025, nel XXI Giorno della memoria per le vittime dei massacri dimenticati delle Foibe (1943-47) [QUI]La Verità ha pubblicato [QUI] un’intervista a cura di Carlo Cambi alla scrittrice Antonia Arslan, che ha raccontato il genocidio degli Armeni perpetrato dai Giovani Turchi dell’Impero ottomano, l’odierno Turchia (1915-17) nel suo libro La masseria delle allodole, tradotto in 25 lingue: «Lo sterminio degli Armeni di inizio Novecento ricorda per molti aspetti la Shoah. E oggi quel popolo è ancora vittima. L’Occidente non ne parla, perché trascura le proprie radici e cede ai ricatti di Erdoğan e degli Azeri».

 

Il Giorno della memoria in ricordo del genocidio armeno si celebra ogni anno il 24 aprile per commemorare le vittime dei massacri nell’Impero Ottomano che causarono un milione e mezzo di morti. Il Giorno della memoria in ricordo del Shoah si celebra ogni anno il 27 gennaio per commemorare le vittime dello sterminio e delle persecuzioni, a seguito delle misure di persecuzione razziale e politica, di pulizia etnica e di genocidio, messe in atto dal regime nazista del Terzo Reich e dai loro alleati, tra il 1933 e il 1945, che causarono secondo le stime dello United States Holocaust Memorial Museum circa 15-17 milioni di morte, tra cui almeno cinque milioni di Ebrei.

Riportiamo il testo dell’intervista ad Atonia Arslan, seguita dalla sua nota introduttiva al libro I peccati dei padri. Negazionismo turco e genocidio di Siobhan Nash-Marshall, che racconta per la prima volta le origini europee del massacro degli Armeni.

 

«Il Giorno della memoria? Forse non ne parlerò così bene; mi si permetta di raccontare una storia». Antonia Arslan sta nella cucina della casa di famiglia a Padova, lì dove la zia Enrica preparava la pakhlava: pasta fillo, ripiena di noci, mandorle e miele, cotta al forno. «È un profumo della mia infanzia, i Turchi si sono presi anche quella: la chiamano baklava, ma non sanno che il nome vuol dire pane di Quaresima, che è un dolce Cristiano. La zia la faceva quando non era afflitta dalle sue fitte di tristezza: era lei la bambina a cui i Turchi lanciarono la testa mozzata del padre, Sempad, il fratello di mio nonno, mentre era in braccio della madre. La mia Masseria delle Allodole (il romanzo uscito nel 2004 è stato tradotto in oltre 25 lingue, è arrivato a 45 edizioni: un libro culto adottato anche come testo didattico in moltissime scuole, ndr) è partita anche da lì, da quel cammeo terribile che nonno Jerwant, arrivato a Padova per studiare medicina, mi consegnò a Sospirolo, insieme al dramma della nostra deportazione. Ero bambina e si sentivano in lontananza gli echi della guerra».

Lei, italianissima, è nata a Padova dove ha insegnato Letteratura contemporanea e moderna nell’università. Antonia però ha sangue armeno e quel sangue scorre come un fiume di ricordi, impetuoso nel coraggio di chiedere verità, nel pretendere che non si sopisca la memoria del primo genocidio dell’era contemporanea. Fanno, giusto nella prossima primavera, 110 anni esatti da quando i «Giovani Turchi» cominciarono a deportare e sterminare tutti gli Armeni, oltre un milione e mezzo di persone cancellate.

E quel racconto che appanna il Giorno della memoria?
«C’erano in una cittadina dell’Anatolia due commercianti, uno Turco e uno Armeno. Vicini di bottega e di casa che si rispettavano. Una mattina l’Armeno va dal Turco e gli confida: “Mi dicono che stanno per arrestarci tutti, io non ho il coraggio di chiedere al caimacam (sarebbe stato il sindaco), ti puoi informare?”. Passano diverse ore quando il Turco bussa alla porta dell’Armeno e gli dice: “Mangia tranquillo, poi ti racconto”. “No, dimmi”, fa l’altro. “Ebbene sappi che ti farò un grande favore: domattina sarò io ad ammazzare te, tua moglie, i tuoi due figli maschi e la piccoletta, così non patirete la deportazione”. Nella notte l’Armeno fece fuggire i due figli più grandi. Uno riuscì ad arrivare in California e questa storia l’ha raccontata ad una mia carissima amica, ricercatrice antropologa. Degli altri, nulla si è più saputo. Sono centinaia di migliaia gli orfani di quella stagione. E nel Giorno della smemoria di loro non si vuol sapere nulla».

Eppure il genocidio degli Armeni è, si può dire tragicamente, il prototipo della Shoa…
«Il termine genocidio è stato creato da Raphael Lemkin, un avvocato Ebreo polacco, che lo usò nel ’44 proprio a proposito dell’annientamento degli Armeni. Non è un caso che a fianco dei Giovani Turchi a dirigere lo sterminio ci fossero dei generali Tedeschi. Non è un caso che iniziò con la deportazione degli Armeni di Costantinopoli, che ci sono state le marce della morte, che gli Armeni siano stati ammassati nel deserto del Deir-elzor e lì finiti. Anche per questo primo genocidio c’è stata una Norimberga. Vennero processati i responsabili politici dei massacri. L’organizzazione clandestina armena Nemesis dette la caccia ai criminali Turchi e Talat Pasha, il capo degli stragisti, venne ucciso a Berlino. Ma la responsabilità maggiore resta in capo a Mustafà Kemal. È lui che fa cancellare il trattato di Sèvres che riconosceva l’autonomia dell’Anatolia, è lui che dal 1915 al 1923 lavora alla costruzione del nazionalismo turco e scatena la guerra contro la Repubblica di Armenia. Il venerato Ataturk prospera sul sangue degli armeni. Le questioni di oggi, Siria, Libano, Palestina, si generano dall’ignavia delle forze che allora avevano vinto la Prima Guerra Mondiale. Inghilterra, Francia e Italia si sono fatte ricattare dalla Turchia».

La storia si ripete anche oggi?
«Purtroppo sì. In Turchia se si parla del genocidio armeno si finisce in galera. Tayyp Recep Erdoğan prospera sull’ignavia dell’Occidente: sfrutta il suo stare nella NATO, ricatta l’Europa con i migranti e intanto tesse la tela della umma, del panislamismo. Lo fa sfruttando la crisi israelo-palestinese per annettersi ciò che resta dell’Anatolia e del Kurdistan. E lo stesso vale per l’Azerbaijan che ormai ha chiuso la questione del Karabak facendolo sparire dalla carta geografica. E tutto questo perché l’Occidente non si cura delle proprie radici e si sottopone al ricatto: militare di Erdoğan, energetico degli Azeri. E poi però ci si lava la coscienza con la retorica della Giornata della memoria».

Perché gli Armeni rivendicano di possedere le radici dell’Occidente?
«Il regno armeno è stato il primo ad abbracciare il Cristianesimo: siamo nel 301. L’armeno è una lingua indoeuropea, forse la più antica. Infine, anche se oggi è in territorio turco noi vediamo il monte Ararat, noi siamo stati i primi vinificatori, noi abbiamo costruito la nostra identità attorno ai principi di tolleranza e di fratellanza. Quando ho tradotto i versi di Daniel Varujan – il suo Canto del pane è l’inno dell’anima armena – ho sentito la mia radice anatolica. E ho compreso che il genocidio degli Armeni oggi deve essere dimenticato perché è scomodo».

In che senso?
«Può porre il tema del rapporto con l’islam. Gli Armeni sono Cristiani. Può porre il tema del panarabismo, il tema dell’incapacità dell’Occidente e dell’Europa in particolare di rivendicare il proprio ruolo e di fare i conti con la storia».

E la saldatura con gli Ebrei?
«Per quel che mi riguarda è una spinta del tutto personale, ma ci sono delle similitudini. Sono popoli condannati alla damnatio memoriae, sono popoli che hanno contribuito a rafforzare i Paesi che poi li hanno sterminati. In Turchia i maggiori architetti, i maggiori intellettuali dell’Ottocento erano Armeni, il Ministro del Tesoro era Armeno. Hanno pagato la loro “diversità” religiosa. Certo, oggi se a un Armeno parli d’Israele non è affatto contento, perché Tel Aviv ha aiutato l’Azerbaijan nella conquista del Karabak. Ma lo ha fatto in funzione anti Iran. L’Iran è la forza che andrebbe sterilizzata in quell’area, come sarebbe utile riparlare degli Armeni per avere un quadro reale di cosa sono il Libano, la Siria la Palestina».

Che ne pensa dei pro Pal? Sta tornando l’antisemitismo?
«Li temo e confermo che la Giornata della memoria così come viene celebrata è in larga misura un esercizio di retorica per di più inficiata da gravi amnesie che non so dire se sono dolose o colpose, ma so che ci sono. È l’ennesima dimostrazione dell’ignavia dell’Occidente. Possibile che non si abbia memoria di cosa sono stati gli anni Settanta-Ottanta in Italia? Io c’ero all’Università di Padova dove si allevavano i terroristi. Io lo so come certe parole d’ordine si trasformano in odio. E mi stupisco che vi sia indulgenza e indifferenza. Che è contraddire la Giornata della memoria. Quanto all’antisemitismo, non credo sia mai tramontato».

Servirebbe uscire dalla celebrazione e passare all’educazione?
«Esattamente. Come sono stati possibili i campi di concentramento o i gulag? Sono stati possibili perché qualcuno ha guardato altrove. La strada che da Monaco porta a Dachau è stata costruita dai prigionieri del lager, così come la ferrovia Berlino-Baghdad gronda sangue armeno. Ciò che mi stupisce è che oggi l’Occidente non ha più una diplomazia forte che può imporre la pace, che può togliere argomenti a quelli che attizzano la violenza nelle piazze, a quelli che insultano i morti chiamando tutto genocidio. Il genocidio è la deliberata distruzione di un popolo per cancellarne l’identità. È quello che ha compito la Turchia sugli Armeni, quello di Hitler sugli Ebrei. Per celebrare davvero la Giornata della memoria bisogna testimoniare, educare, dire ai giovani che esiste nell’uomo il massimo del bene e il massimo del male e che è attraverso la letteratura e la cultura che si tiene a bada il male. Non è pensabile che oggi i bambini non sappiano più scrivere in corsivo, che gli adulti fatichino a leggere un testo. Li portano a vedere la mostra di Frida Kahlo a sei anni perché qualche assessore alla Cultura si vuole fare bello e questi bambini nulla sanno della poesia, della vita. Da anni vado nelle scuole con la mia Masseria delle allodole, ma vado a testimoniare, non in piazza a sbandierare. E quanto alla questione armena solo la Francia – dove il negazionismo del genocidio è reato – e la Chiesa in larga misura con San Giovanni Paolo II hanno dato questa testimonianza. Altri Paesi come gli Usa, dove c’è la più alta concentrazione di Armeni, tacciono. Eppure quel genocidio si perpetua ancora».

E l’Italia che posizione ha?
«Venezia è stata la casa degli Armeni, San Lorenzo degli Armeni è un motore di cultura e di identità armena. Dal punto di vista politico i rapporti dell’Europa con Erdoğan sono indubbiamente un limite».

Eppure una Repubblica armena esiste e resiste. Tre motivi per andare in Armenia?
«Solo tre motivi? Va bene. Il primo: gli Armeni anche se provati dalla diaspora, anche quelli che non stanno in Armenia e purtroppo sono la maggioranza, hanno una immediata apertura verso lo straniero. Fanno dell’ospitalità, ancor più degli antichi Greci che avevano la “xenia”, qualcosa di sacro. Un viaggio in Armenia, ecco il secondo motivo, è un’esperienza di bello assoluto: per i paesaggi, ma anche perché si sente che quella è la terra dell’origine. Il terzo motivo è che gli Armeni sono molto sensibili alla poesia, alla musica e hanno danze bellissime; per contrappasso sono tra i migliori informatici del mondo. A dire che nessun genocidio potrà mai spezzare la continuità della vita che è un racconto fantastico che lega il passato col futuro».

I peccati dei padri
Negazionismo turco e genocidio

il libro di Siobhan Nash-Marshall
che racconta per la prima volta
le origini europee del massacro armeno

Nel 1915 il governo dell’Impero Ottomano cominciò a scacciare gli Armeni dalle terre dove i loro antenati avevano vissuto da tempi immemorabili. Gli uomini furono uccisi; donne, vecchi e bambini furono deportati nella parte più inospitale del deserto siriano, del tutto inadatta al vivere umano. Ma la pulizia etnica nell’Armenia occidentale era solo una parte del progetto dei Giovani Turchi per l’intera Anatolia. Lo scopo finale era in realtà di trasformare quelle terre nella «terra avita del popolo turco» (il cosiddetto vatan), un luogo dove la cultura, l’economia e la gente fossero tutti turchi. Questo progetto fu attuato su larga scala in ogni direzione, con impressionante determinazione e violenza. La Turchia odierna sta ancora cercando di costruire il suo vatan, proseguendo così il genocidio iniziato dai Turchi ottomani, e continuando a negare, di fatto, che questo abbia avuto luogo. Coprire un crimine vuol dire prolungarne gli effetti. In I peccati dei padri. Negazionismo turco e genocidio (Guerini e Associati 2018, 274 pagine [QUI]) Nash-Marshall mette in rapporto l’assoluto disprezzo dei fatti e delle genti, del territorio e della storia che è caratteristica comune sia del genocidio nel 1915 che dell’attuale negazionismo turco, con la vacua sprezzante indifferenza alla realtà fattuale che si diffonde sempre di più nel mondo moderno.

Il genocidio degli Armeni
è nato nella testa e nelle idee malsane
dei teorici Tedeschi

 

La nota introduttiva di Antonia Arslan
al libro di Siobhan Nash-Marshall

Ci sono dei punti fermi, delle ben visibili pietre miliari, in questa straordinaria e tenace tessitura di idee che si va lentamente ma inesorabilmente intrecciando a proposito del genocidio armeno, modello e primo tragico esempio di una prassi di distruzione di massa che avrà tanti imitatori nel corso del Novecento. Si tratta di un percorso di conoscenza che prosegue ormai da una trentina d’anni: ed è già incredibile il fatto stesso che ogni indagine critica, ogni acquisizione di dati (siano essi i racconti dei sopravvissuti e di persone a vario titolo presenti nell’Impero ottomano in quegli anni cruciali, o le scoperte di documenti finora più o meno colpevolmente ignorati, o gli archivi finalmente aperti, come quelli tedeschi o vaticani) non contraddice le informazioni già acquisite, ma le completa, le amplia, le convalida.

Gli storici e studiosi più importanti che se ne sono occupati (armeni e no) sono riusciti a costruire un vero grande archivio di informazioni, dopo decenni in cui – a livello di conoscenza generale – dell’esistenza stessa degli armeni come popolo si era quasi perduta la memoria: penso a Vahakn Dadrian, Taner Akçam, Richard Hovannisian, Yair Auron, Robert Jay Lifton, Raymond Kévorkian, Marcello Flores e i tanti altri che hanno descritto con ricchezza di documenti la tragedia armena, ne hanno definito le caratteristiche genocidarie, controllato meticolosamente le perdite umane e le modalità di sterminio, regione per regione dell’Anatolia. Le numerosissime testimonianze dei sopravvissuti, trascritte o registrate a partire dal 1916, sono state poi raccolte e collazionate, e oggi costituiscono un insieme imponente, in cui le flebili voci dei superstiti si potenziano l’una con l’altra in un coro ripetuto e straziante. Ma, come ben scrive Taner Akçam, lo storico turco che si batte da tanti anni contro il negazionismo di stato del suo paese, il libro di Siobhan Nash-Marshall è qualcosa che ancora mancava in un panorama pur così ricco.

È la voce della filosofia, della riflessione che scava ad ampio raggio e trova le oscure e lontane radici di quelle ideologie e di quei comportamenti che a posteriori appaiono aberranti (come si è tante volte osservato a proposito delle persecuzioni antiebraiche e dei campi di sterminio nazisti), ma di cui spesso non riusciamo a comprendere la ragione profonda, il vero perché. Particolarmente interessante è l’analisi di quello che l’autrice chiama “il principio greco”. È infatti dalla pace di Adrianopoli del 1829, che sancisce il diritto del popolo greco ad avere come sua patria indipendente quella parte dell’Impero ottomano dove vivevano gli antichi greci (e tutta l’Europa, in pieno risveglio romantico, si mosse per sostenere questo diritto), che il diritto di nascita sostituisce, nel sentire comune, il “diritto di conquista”.
L’Impero romano – giusto per fare un esempio – considerava suoi i territori che conquistava, al punto da imporre ai popoli soggetti l’uso della lingua latina. Ma questo fu un disastro per l’Impero ottomano. Si giustificavano così le lotte irredentistiche di tutti i popoli sottomessi, ognuno dei quali rivendicava la sua terra, mentre ai Turchi, che governavano lo stato, ma erano venuti dalle steppe d’oriente, una “patria”, un vatan, mancava. Lo cercarono, e lo trovarono, in Anatolia: e tuttavia, per ottenerlo, bisognava allontanare – o meglio, eliminare – gli abitanti autoctoni di quella regione.
È con la sensazione di assistere alla costruzione di una trappola inesorabile che il lettore segue, capitolo dopo capitolo, i tasselli di questo progetto di morte mentre si incastrano lucidamente l’uno nell’altro. Tutto si tiene, e ogni affermazione poggia su riscontri e citazioni precise, tracciando un disegno chiarissimo che va dalla cultura tedesca dell’Ottocento, fra teorie filosofiche e articoli divulgativi sugli Armeni “che sono gli Ebrei del Medio Oriente”, fino ai testi degli ideologi dei Giovani Turchi che di quella cultura si sono nutriti. Ed è a partire da queste basi che Siobhan Nash-Marshall, in questo libro affascinante e coraggioso, affronta con ampia documentazione anche il problema dell’accanito negazionismo di Stato come “parte integrante del processo genocidario” (rav Giuseppe Laras). Ancor oggi infatti, dopo più di cent’anni, ogni diniego dei fatti, ogni capzioso distinguo rinnova nei cuori e nelle menti dei discendenti delle vittime l’orrore di quella tragedia infinita, la rende attuale e presente, allontana perdono e oblio.

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