Quaderno armeno. Hotel Praha, Yerevan (Gariwo 10.06.25)
La sorpresa è dietro l’angolo o la pagina, in questo che dovrebbe essere un tranquillo diario di viaggio di una studentessa italiana amante della musica, melomane del canto e della musica sacra armena. Certamente un interesse raro, ma con un oggetto meraviglioso che si può accostare solo se vivente, interpretato da voci armene in Armenia.
Così, Sara, studentessa italiana ventenne, parte per un pellegrinaggio di una settimana a Yerevan, equipaggiata di cellulare e registratore su cui immortalare Sharakan, Alagyaz, Gha Gha, musica liturgica, musica popolare e profana, ma creatrice di una ispirazione mistica, antica e profonda.
La narrazione corre al tempo presente, anche se nella realtà biografica della narratrice avviene ventidue anni prima e l’Hotel Praha nel quale la ragazza casca nella sua giovanile ingenuità è un albergo di rifugiati sfollati da Hadrut, città del Nagorno-Karabakh, dove nel 2003 esplode di nuovo la persecuzione azera contro la cultura e la vita armena.
Siamo ad una svolta drammatica di un lungo, tragico conflitto rimasto celato all’opinione pubblica internazionale. La protagonista è avvolta, conquistata, catturata dall’accoglienza della famiglia armena che la ospita, ma che le impedisce ogni iniziativa indipendente. Superata questa frustrante condizione, riesce a districarsi nella rete di appuntamenti con le personalità religiose armene esperte della musica e della tradizione locale. Anche il lettore viene avvolto dall’atmosfera magica della città, dei quartieri, delle opere d’arte urbane e suburbane e dalle prospettive su una natura rigogliosa.
Le giornate di Sara sono dedicate alla musica, obiettivo centrale del viaggio, e attorno a questo fulcro narrativo si dipana una dialettica serrata fra il sé in formazione della giovane donna italiana e l’altro armeno ospitante, costretto dall’oppressione all’amputazione della sua identità. Fra i due poli, il sé e l’altro, si svolge un gioco di specchi che conduce al reciproco riconoscimento, alla possibilità del dono fra soggetti liberi dai pregiudizi.
Allora, la fotografia della natura scopre la fonte della bellezza del canto monodico che apre l’animo alla contemplazione estatica dell’assoluto. I volti delle persone amiche trasfigurano al canto liturgico. Le voci filtrano sorprendenti squarci di luce dalle pagine di una scrittura gentile, matura, comprensiva.
Nel cuore della chiesa armena di Echmiadzin si accede ad una cattedrale di suoni: terra d’Armenia, non solo terra delle pietre urlanti ma canto di voci danzanti.
“Cerco quel suono che è intuizione, che sotto la pelle dissoda, scava in una memoria comune, dona una radicamento poetico, una trascendenza immanente, che eleva mentre mette radici.” (p. 121) Chiude il capitolo 14 la citazione di François Colosimo: “Il canto è la forma della tua preghiera. E’ la tua libertà”.