Quello che ci ha insegnato lo sterminio degli Armeni: il genocidio non è sempre opera di spietate dittature (L’Unità 24.04.25)
Un libro di Robiati Bendaud racconta l’orrore del massacro realizzato dai turchi, con l’appoggio dei tedeschi e il silenzio dell’Europa. Può succedere di nuovo
Cultura – di Piero Sansonetti

Il primo genocidio del novecento, quello che probabilmente fece da modello anche per Hitler, non fu opera di un dittatore spietato ma di un gruppo di giovani idealisti liberali mazziniani, che avevano combattuto contro la dittatura. Li chiamavano i “Giovani Turchi” ed erano stati a lungo perseguitati dal potere ottomano negli anni a cavallo tra l’ottocento e il novecento. Poi si erano armati e avevano marciato su Istanbul. Erano andati al potere nel 1908 ed erano diventati classe dirigente, quella che poi espresse una figura come Mustafà Kemal Ataturk, padre della moderna repubblica turca.
Questo per dire che non occorre una spietata dittatura per compiere un genocidio. Succede spesso che i genocidi siano messi in moto da poteri democratici. Del resto nel secolo precedente, cioè nell’ottocento, quella che stava diventando la più potente democrazia del mondo, gli Stati Uniti, eseguì scrupolosamente il genocidio dei nativi americani senza suscitare nessuno sdegno nell’intellettualità occidentale. Il genocidio del quale stiamo parlando è stato uno dei più meticolosi e spietati della storia. Lo sterminio degli armeni. Iniziato nella notte tra il 24 e il 25 aprile del 1915, esattamente 110 anni fa. Erano passate appena due settimane da Pasqua e dalla fine della battaglia dei Carpazi tra russi e austriaci. La prima guerra mondiale era in pieno svolgimento. Il governo turco, alleato con i tedeschi e gli austriaci contro i russi, odiava gli armeni, sia per vecchie rivalità etniche e culturali (l’Armenia è una culla cattolica ed era un popolo fortemente europeo) sia per ragioni militari perché gli armeni erano amici dei russi. In quella notte, a Istanbul vengono arrestati centinaia di intellettuali, giornalisti, professionisti e politici armeni. In sostanza tutto il gruppo dirigente armeno. Poche settimane dopo, il 29 maggio, il parlamento approva la legge Tehcir e autorizza le deportazioni. Che iniziano subito e sono gigantesche e massacranti.
L’Armenia è un piccolo territorio, senza sbocco al mare, chiuso tra l’Azeirbajan, la Turchia, la Georgia e l’Iran. Il genocidio è condotto in parte dall’esercito turco che attacca le città e i villaggi armeni e non fa prigionieri. In parte con le marce della morte, dalle quali non si salva quasi nessuno. Si muore per sfinimento, per fame, per sete. I turchi non si accaniscono contro i soldati o i maschi in età di guerra. Cioè non puntano semplicemente a impedire che i giovani armeni si uniscono ai russi. Vogliono lo sterminio. Vogliono cancellare l’Armenia e seppellirla sotto montagne di sale. Uccidono le donne, uccidono migliaia e migliaia di bambini.
Gli storici non sono uniti nella valutazione delle cifre. Chi dice un milione di morti, chi addirittura tre milioni. Così come non sono univoci nel calcolo della popolazione armena del tempo. Le valutazioni oscillano tra il milione e mezzo e i tre milioni e mezzo. I calcoli più attendibili e più accreditati dicono che gli armeni, nel 1915 fossero poco più di due milioni e che ne fossero rimasti vivi non più di settecentomila. Le vittime della strage furono circa un milione e mezzo. Le autorità turche ancora non riconoscono il genocidio, e dicono che i morti furono solo 800 mila. Gli armeni chiamano questo genocidio il Mec Egern, che nella loro lingua vuol dire Grande Male.
È uscito in questi giorni un libro scritto da Vittorio Robiati Bendaud, giovane storico e filosofo italiano, 41 anni, presidente dell’ “Amicizia ebraico-cristiana di Milano, Carlo Maria Martini”. Il libro si chiama “Nontiscordardime” (edizioni liberilibri, prefazione di Paolo Mieli). Robiati Bendaud ha scelto una parola molto dolce e delicata per raccontare il primo grande orrore del secolo breve. Il nome di un fiorellino azzurro (che è il simbolo di chi denuncia quel massacro) e di una tenera canzone anni trenta. E ha scritto questo libro proprio per provare a dirci quello che in pochissimi dicono: che fu un vero genocidio, che fu sostenuto dai tedeschi, che non fu in nessun modo condannato e punito dall’Occidente, che ancora oggi è negato. La storia è questa: quando il genocidio fu messo in atto, e fu eseguito in tempi rapidissimi, ad Instanbul c’erano molti ufficiali tedeschi che guidarono le operazioni. Anche il capo delle truppe che eseguirono il genocidio (truppe in gran parte reclutate tra galeotti) era un turco di origini tedesche: Frierdich Bronsart von Shellendorf. Nel 1918, quando i turchi furono definitivamente sconfitti nella guerra mondiale, gli alleati arrestarono 144 ufficiali coinvolti in quella infamia. Li processarono, li assolsero e li mandarono a casa.
Il genocidio armeno è stato cancellato. È riconosciuto solo da 30 paesi in tutto il mondo. Eppure è di dimensioni spaventose. Almeno l’80 per cento della popolazione sterminata. Atrocità senza fine. Torture, infanticidi. Ferocia assolutamente paragonabile alla ferocia nazista. E Robiati Bendaud non si limita a raccontare la storia. Racconta che ancora oggi gli armeni sono vittime di persecuzioni. Soprattutto nel Nagorno, perseguitati dall’Azerbaijan, ma anche, ancora, da parte dei turchi. Nell’indifferenza generale dell’Occidente. Di più: spesso con l’appoggio anche militare dell’Occidente nei confronti dei nemici degli armeni. È una delle grandi vergogne europee. E nessuno la denuncia. E nessuno si oppone. Cosa possiamo imparare da questo? Che non basta dire democrazia. Non basta dire legalità. Non basta dire “mai più”. Siamo ancora dentro, tutti, alle atrocità del novecento che furono molte più di quelle che sappiamo.