Stalinismo e gulag. Il genocidio armeno nel film “Amerikatsi” (Avanti 20.01.25)

Genocidio armeno, stalinismo, ricerca dell’identità, giusti nei gulag, i temi al centro di “Amerikatsi”: film armeno, tra commedia e drammatico, montato, diretto e interpretato da Michael A. Goorjian. Attore e regista USA di famiglia di origini armene da parte del padre (i cui genitori erano superstiti del genocidio armeno del “1915 e dintorni”), e scozzesi della madre. Il film, nelle sale italiane dal 16 gennaio, è stato presentato ultimamente al pubblico e alla stampa al cinema “Delle Province” di Roma (Piazza Bologna), da tempo animatore di un coraggioso esperimento di cinema d’essai: alla presenza anche dell’ambasciatore armeno in Italia. Come “Ararat”, la celebre pellicola del 2002 dell’armeno, naturalizzato canadese, Atom Egoyan, “Amerikatsi” riporta alla memoria collettiva il “Mec Yeqern”, il genocidio armeno da parte dei turchi a partire dal 1915, ma il suo è soprattutto un grido di libertà, nella migliore tradizione dei film dI ambientazione carceraria, da “L’uomo di Alcatraz” a “Le ali della libertà”.

Charlie (ricordiamo che Goorjian, classe 1971, interpretò un ruolo importante già in “Charlot”, del 1992, commovente omaggio dell’inglese Richard Attemborough alla memoria del grande “vagabondo” Charlie Chaplin) è un bambino che è riuscito a sfuggire al Mec Yegern – in cui ha perso la madre – nascondendosi in un baule diretto negli USA. Dopo oltre trent’anni, nel 1948, torna nel suo Paese, rimpatriato come tanti altri armeni, ma si deve scontrare con la dura realtà del comunismo staliniano (l’Armenia diverrà Paese indipendente solo nel 1991, col crollo dell’Impero sovietico). Ma, dopo aver incontrato una donna armena, moglie del direttore di un carcere (conoscenza che poi gli tornerà determinante), con un figlio piccolo, una notte viene arrestato dalle guardie sovietiche con diverse accuse: come essere una spia americana, diffondere idee anticomuniste e cosmopolite e … indossare una cravatta (indumento dalla pericolosa valenza borghese…!). Si ritrova così rinchiuso in prigione, condannato ai lavori forzati, continuamente vessato da guardie e militari, che lo chiamano Charlie Chaplin.

Ma, come spesso accade nella vita, non tutto il male viene per nuocere. Dalla finestra della sua cella, il nostro riesce a osservare quello che avviene nella casa di fronte, nella famiglia di Tigran (nome comune in Armenia, dove Tigrane II, il Grande, fu, tra il II e i I sec. A.C., un sovrano della dinastia degli Artassidi, a lungo in lotta contro i romani): guardia che lavora nella torre del penitenziario, ma avrebbe voluto dedicarsi solo all’arte, precisamente alla pittura (di cui Charlie è appassionato)… E Tigran e’ il cognato della donna che, tempo prima, aveva preso Charlie a benvolere; mentre suo marito è proprio il direttore del carcere… Ecco, nello “spiare” dell’armeno/americano, dalla sua cella, in casa di Tigran e della moglie, un chiaro omaggio all’Alfred Hitchcock de “La finestra sul cortile” (Tigran improvvisamente, alzando lo sguardo verso l’edificio di fronte, come il Raymond Burr/Lars Thorwald, l’assassino del capolavoro di Hitchcok, si accorge di essere tenuto d’occhio). Mentre altro richiamo (voluto?) del film è quello a…Lucio Dalla e alla sua celebre canzone “La casa in riva al mare “ (dall’LP “Storie di casa mia”, del 1971): con il povero carcerato che per anni, guardando dalla sua cella il mare e una casa bianca sulla riva, sogna la libertà e un futuro felice con Maria, la donna che la abita. Richiamo, infine, anche ad…Altiero Spinelli: che, nel primo volume delle sue memorie, “Come ho tentato di diventare saggio”, ricorda i pochi momenti lieti trascorsi, in prigione (sino al 1937, come militante comunista), immaginando di riuscire ad evadere e tornare alla libertà insieme a una nuova donna.

In ultimo, Charlie riuscirà a migliorare molto le sue condizioni di vita nel carcere grazie all’aiuto di Tigran, di sua cognata e di altri imprevisti Giusti del gulag (come sappiamo, non sono esistiti solo i Giusti dei lager), che eviteranno, a lui e ad altri, la finale deportazione in Siberia. Sinchè, la morte di Josif Stalin, il 5 marzo 1953, e la simultanea ascesa al potere dell’ucraino Nikita Krusciov, segneranno, almeno in parte, la fine di un’epoca (e qui, come non pensare, pur nella diversità delle situazioni, ad Alexandr Solzenycin, che raccontò, parecchi anni fa, di quando, trovandosi, malato di cancro, in carcere come dissidente, iniziò a sentirsi meglio proprio appena saputo della morte di Stalin…).

Il film – ha ricordato l’ Ambasciatore – ha rappresentato l’Armenia all’ultimo Festival di Cannes. E’ stato presentato in anteprima al Woodstock Film Festival nel 2022, vincendo il premio come miglior lungometraggio narrativo. L’Armenian Film Society ha tenuto un’ulteriore anteprima dell’opera al suo Armenian Film Festival del 2023 a Glendale, in California; la pellicola, inoltre, è stata selezionata come candidato armeno per il miglior lungometraggio alla 96a edizione dei Premi Oscar.

Fabrizio Federici

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