Georgia: matriarcato per necessità (Osservatorio Balcani E Caucaso 04.03.19)

Da quando è nata, la vita di Zina Khachatryan è segnata da due stagioni: quella assieme a suo padre e quella senza. Ora quest’adolescente tredicenne originaria della regione di Samtskhe–Javakheti, Georgia meridionale, calcola che sono stati esattamente sei anni e mezzo, metà della sua vita, gli anni trascorsi con la sua presenza.

Zina aveva sei mesi quando il padre, Samvel Khachatryan, allora ventunenne partì per la Russia, in cerca di lavoro, come aveva fatto da quando aveva 16 anni. Parte di una vera e propria armata di uomini costretti ad abbandonare le proprie famiglie per sei mesi all’anno.

Non ci sono dati precisi sulle migrazioni stagionali provenienti dalla regione di Samtskhe–Javakheti dove la comunità armena rappresenta la maggioranza con 160.000 residenti.

“Possiamo stimare che ogni anno almeno 3000 persone si trasferiscono in Armenia o Russia per lavoro stagionale e che circa 30.000 lo abbiano fatto negli ultimi anni. Di questi, quasi i due terzi sono andati in Russia, un terzo in Armenia e i restanti in paesi UE o negli Stati Uniti”, sottolinea Hrant Mikaelian, ricercatore presso il Caucasus Institute, con sede a Yerevan.

Una recente ricerca condotta da Jnews.ge, un’agenzia stampa locale, indicava che il 63% delle famiglie della regione ha almeno un membro emigrato per motivi economici. Il numero sale all’80% nei villaggi più piccoli, come ad esempio Khado, dove sono ancor più scarse le opportunità di lavoro.

Tra maggio e dicembre la maggior parte degli uomini di questo villaggio di 2500 anime scompaiono.

Per sei mesi all’anno le donne si portano sulle spalle ogni responsabilità, dall’allevare i figli al coltivare i campi: in quei mesi una società prettamente patriarcale si trasforma in matriarcato.

“Per metà anno l’uomo più vecchio in casa è il mio fratellino di 11 anni”, racconta Zina. “È lui che si occupa di andare a fare la spesa, le donne qui da noi non se ne occupano [perché i negozi sono spesso gestiti da uomini, ndr]. Le donne o vanno a fare la spesa a Akhalkalaki [una città vicina a 16 km, ndr] oppure comperano da altre donne che vendono casa per casa”.

Il fatto che ora vi sia istruzione gratuita sino alle scuole superiori non ha cambiato le cose: ora gli uomini partono solo più tardi per trovare lavoro all’estero: i khopanchi – un termine armeno in uso fin dagli anni ’50 quando lavoratori armeni erano impiegati nell’est dell’Unione sovietica per colonizzare ampi appezzamenti di terreno – continuano a cercare lavoro lontani da casa.

La maggior parte dei lavoratori tornano a casa agli inizi dell’inverno quando il freddo obbliga alla sospensione temporanea di settori quali l’edilizia, dove lavora anche Khachatryan. Dicembre è quindi un mese di festa per Zina e segna non solo il suo compleanno ma anche il ritorno del padre. “Quest’anno gli ho chiesto di portarmi un cellulare e un anello di argento. E i miei cioccolatini preferiti”, sorride. “Chiaro che di tutto questo mi importa poco, la cosa più importante è che lui sia qui vicino a me. Spero solo che lui stia con noi e che tutto vada bene”.

Con il disgelo arriva l’addio. Fino all’età di sette anni, Zina non si è resa conto appieno di cosa significasse separarsi da suo padre. Con il passare del tempo diventa però sempre più difficile.

“Gli ultimi due anni sono stati difficili. Non posso fare a meno di piangere quando vedo mio padre. Piango e lui piange con me “, racconta Zina.

In qualche modo Zina ha cercato di prendere le distanze, raffreddando la loro relazione come strategia per affrontare la sensazione di perdita. La tecnologia aiuta. Padre e figlia parlano tramite Skype, ma i brevi messaggi di testo con gli emoticon sono diventati sempre più frequenti e Zina trova ormai più difficile chiedere direttamente a suo padre un favore o un permesso. Si rivolge piuttosto a sua madre.

Zina sogna di andare all’università e diventare designer. Ritiene anche che probabilmente tornerà nel suo villaggio natio, anche se sa che se lo farà, anche il suo futuro marito andrà via per sei mesi all’anno a lavorare in Russia, proprio come suo padre.

“I miei genitori sostengono sempre le mie decisioni e mi aiutano. Ho abbastanza tempo per studiare. Dopo l’università voglio tornare qui e allo stesso tempo mi piacerebbe viaggiare e vedere il mondo”.

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