Storia di armeni scampati al genocidio, rimpatriati e finiti nei gulag di Stalin. Amerikatsi, candidato all’Oscar, è un film su un pezzo di storia europea che pochi conoscono.
Il 24 aprile 1915 a Costantinopoli un evento decisivo segnò la sorte del popolo armeno: il Governo dei Giovani Turchi prelevò centinaia di persone di etnia armena dalle loro case e le avviò verso lo sterminio: fu l’inizio del genocidio, che causò la morte di un milione e mezzo di persone.Gli armeni sopravvissuti al Metz Yeghern, il “Grande Male”, dettero vita a un importante fenomeno diasporico che interessò tutto il mondo: il popolo armeno ricostituì proprie comunità in Grecia, Francia, Stati Uniti, Argentina, Libano, Siria, Palestina, Egitto, Sudan, persino in India e in Cina. La fede cristiana fu il principale collante degli armeni della diaspora, che preservarono il loro patrimonio religioso e devozionale costruendo chiese e scuole nei paesi ospitanti.
Alla fine del 1945 Iosif Stalin incoraggiò il ritorno degli armeni della diaspora nella madrepatria armena ormai sovietizzata, perché ripopolassero il Paese e ne sostenessero lo sviluppo economico. Dopo la seconda guerra mondiale, con la Repubblica Socialista Armena ridotta in miseria e depauperata del suo patrimonio di tradizioni, fu architettata una vera e propria campagna per il rimpatrio degli esuli armeni; con il concorso, più o meno consapevole, dei movimenti nazionalisti e dello stesso patriarca della Chiesa armena Kevork VI, la propaganda sovietica si appellò al sentimento patriottico degli armeni in esilio chiedendo loro di raggiungere il loro Paese d’origine.
Il “Comitato per il rimpatrio” omise di specificare che l’Armenia faceva ormai parte dell’URSS dal 1922 e che la Chiesa vi era da anni spogliata e perseguitata. Quando dopo varie e convulse vicende l’Armata Rossa occupò l’Armenia nel 1920 instaurandovi la Repubblica Socialista Sovietica Armena i bolscevichi dichiararono che avrebbero rispettato l’identità religiosa e culturale del Paese ma, com’è noto, non mantennero la promessa. Il georgiano Stalinteneva anzi particolarmente alle tre repubbliche del Caucaso, Georgia, Armenia e Azerbaigian, e le pose sotto stretto controllo sovietico.Una grave delusione attendeva dunque coloro che decisero di “rimpatriare” dopo il 1945: l’Armenia dei loro antenati non esisteva più. I nomi dei rimpatriati della diaspora andarono presto a riempire i casellari degli individui sospetti: guardati con diffidenza, accusati di spionaggio, denunciati dai loro stessi compatrioti sotto la pressione di Stalin, non pochi furono arrestati e condannati ai lavori forzati.
È ciò che accade a Charlie Bakhchinyan, protagonista del film del 2022 Amerikatsi, scritto, diretto, interpretato e montato dall’attore e regista Michael A. Goorjian. Nato negli Stati Uniti da genitori armeni, Goorjian narra la storia del piccolo Charlie che nel 1915 si salva dal genocidio del suo popolo nascondendosi in un baule imbarcato per gli Stati Uniti. Ormai adulto e desideroso di conoscere le sue radici, nel 1948 Charlie decide di partire per l’Armenia. Per una serie di circostanze, complice la poca padronanza della lingua armena, l'”amerikatsi” (armeno americano) viene fatto oggetto di accuse inverosimili, tra cui il “cosmopolitismo” e l’abitudine di indossare cravatte, e finisce ai lavori forzati. In Armenia, Charlie cerca le sue radici, ma trova la repressione del regime sovietico che frattanto ha soppiantato la cultura e le tradizioni del Paese. È obbligato a vivere in condizioni disumane, sfiancato dal lavoro, torturato e picchiato quasi quotidianamente assieme agli altri detenuti che presumibilmente hanno commesso reati simili ai suoi.
Inopinatamente – e qui è il punto di svolta del film, che altrimenti potrebbe essere accomunato a una delle tante produzioni di genere carcerario – Charlie riesce in qualche modo nell’intento di assimilare l’identità armena. Grazie ad un anziano detenuto che non perde occasione per parlare del passato della nazione, e soprattutto grazie ad una famiglia armena la cui abitazione si trova davanti alla finestra della sua cella, Charlie arriva a conoscere le sue radici. Assistendo alla vita quotidiana della famiglia, condividendone pur da lontano momenti di festa e occasioni dolorose, l’amerikatsi si immerge nella cultura da cui egli stesso proviene, fino alla sua rocambolesca liberazione.
Il film è stato candidato come miglior film straniero ai Premi Oscar 2024 e ha rappresentato l’Armenia all’ultimo Festival di Cannes; produttori, cast e maestranze sono armeni. Distribuita nelle sale italiane dal 16 gennaio 2025, l’opera ha il merito di illuminare una pagina poco nota della storia dell’Armenia, ben presente tuttavia nella memoria collettiva del popolo armeno. Per scrivere la sceneggiatura il regista ha attinto alle storie vere dei suoi conoscenti e dei loro familiari, ed il film si regge proprio sulla forza della verità. C’è un personaggio, la guardia carceraria Tigran, che come un parente del produttore del film ha un passato di pittore; accusato di dipingere chiese, viene forzato a cambiare lavoro e dipinge in clandestinità. Il film mostra come gli uomini della polizia locale siano ansiosi di compiacere le richieste dei propri superiori a danno di poveri innocenti, perché in caso contrario rischiano a loro volta di venire arrestati, o peggio.
Su tutto, aleggia lo spettro dei temuti gulag siberiani: i personaggi sono minacciati costantemente di esservi spediti per qualunque inezia. Pur accennandovi, il film non approfondisce il dato reale per cui furono gli ecclesiastici a subire le persecuzioni più dure: Stalin si adoperò vanamente per stroncare o almeno cooptarela Chiesa armena, l’ultima struttura resistente al Poterecentrale. Questo è l’unica omissione di un’opera che è pur sempre di fantasia, ma non abbandona mai il piano di realtà.
Programmazione aggiornata del film Amerikatsi
Mogliano Veneto (TV), Cinema teatro Busan, mercoledì 26 febbraio ore 20:45; giovedì 27 febbraio ore 17:15; venerdì 28 febbraio ore 21
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-18 15:50:042025-02-18 15:50:04Amerikatsi: dal genocidio armeno al gulag, un film su una storia dimenticata (Lanuovabq 18.02.25)
L’Armenia ha scelto il suo rappresentante per il 69° Eurovision Song Contest, che si terrà a Basilea, Svizzera, nel maggio 2025. Dopo cinque anni di selezioni interne, l’emittente AMPTV ha deciso di tornare al format del Depi Evratesil, il festival nazionale che ha già selezionato i rappresentanti armeni nel 2017, 2018 e 2020.
La finale si è svolta domenica 16 febbraio 2025 presso il Karen Demirchyan Sports & Concert Complex di Yerevan, con 12 artisti in gara per conquistare il pass per l’Eurovision. Il risultato è stato deciso da due giurie (una nazionale e una internazionale) e dal televoto del pubblico.
A trionfare è stato PARG con il brano “SURVIVOR”, vincitore del televoto e capace di totalizzare 214 punti. Al secondo posto si è classificato Simon con “AY PAPAREY BYE” (197 punti), mentre sul gradino più basso del podio è arrivata Athena Manoukian con “DaQueenation” (192 punti).
PARG, nome d’arte di Pargev Vardanian, è un artista armeno noto per la sua capacità di mescolare sonorità indie-folk, R&B, pop e rock con elementi tradizionali della musica armena. La sua carriera ha preso il via nel 2021 con il singolo di debutto “Ginin u Grely”, che ha immediatamente messo in luce il suo stile innovativo e radicato nella cultura del Paese.
Negli anni successivi, PARG ha continuato a farsi strada nella scena musicale armena, ottenendo riconoscimenti prestigiosi. Il suo singolo più recente, “Araj”, è stato nominato per il miglior video musicale agli Armenian Music Video Awards, consolidando la sua posizione come uno degli artisti più promettenti della sua generazione.
Dal suo debutto nel 2006, l’Armenia ha spesso ottenuto ottimi risultati all’Eurovision, con diverse presenze nella Top 10. I migliori piazzamenti finora sono stati il 4° posto di Sirusho (2008) e Aram MP3 (2014). Tuttavia, il successo internazionale più grande è arrivato nel 2022 con Rosa Linn e il suo brano “Snap”, che è diventato un fenomeno virale su TikTok e ha raggiunto oltre un miliardo di stream su Spotify, un risultato che lo ha reso il secondo brano eurovisivo più ascoltato di sempre dopo “Arcade” di Duncan Laurence.
Nonostante non abbia ancora conquistato la vittoria all’Eurovision, l’Armenia ha trionfato e ospitato il Junior Eurovision Song Contest per due volte, grazie alle vittorie di Vladimir Arzumanyan (2010) e Maléna (2021).
Con PARG e “SURVIVOR”, l’Armenia spera di raggiungere nuovi traguardi e, chissà, magari conquistare finalmente il suo primo trofeo all’Eurovision Song Contest.
Paolo Kessisoglu è nato a Genova il 25 luglio 1969, da una famiglia con radici armene. Il suo nonno paterno, Callisto, era un profugo armeno che fuggì al genocidio del popolo armeno, stabilendosi prima in Grecia e poi in Italia. Il cognome della famiglia, originariamente “Keshishian,” venne modificato durante il periodo di esilio. Paolo è da sempre impegnato nella promozione della memoria storica del genocidio armeno e nella lotta contro il negazionismo.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-14 16:30:452025-02-15 16:31:39Paolo Kessisoglu a Sanremo 2025 con la figlia Lunita: chi è, le origini, la compagna, la morte dei genitori, il rapporto con Luca Bizzari (Il Messaggero 14.02.25)
Martedì il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli, di Fratelli d’Italia, ha fatto una cosa molto irrituale. Ha scritto una mail a tutti i 200 senatori per indurli a riconsiderare il loro orientamento su una questione molto delicata di politica internazionale: la crisi nel Nagorno Karabakh, una regione contesa da più di trentacinque anni tra Armenia e Azerbaijan.
La mail è solo l’ultimo dei molti comportamenti inusuali che da settimane Cirielli sta assumendo su questa faccenda, tutti più o meno esplicitamente finalizzati a indirizzare il dibattito del Senato in favore della posizione azera. Questo atteggiamento sta creando grossi imbarazzi nella maggioranza di destra che sostiene il governo, all’interno del suo stesso ministero e infine nel suo partito, Fratelli d’Italia.
Tutto è iniziato qualche settimana fa, quando il senatore di Italia Viva (quindi all’opposizione) Ivan Scalfarotto ha elaborato una mozione sul Nagorno Karabakh. Una mozione è un atto d’indirizzo, per la verità piuttosto simbolico, con cui il parlamento esorta il governo a prendere certe decisioni. Il testo della mozione è estremamente cauto, e dà conto della complessità decennale della crisi: il Nagorno Karabakh è una regione all’interno del territorio dell’Azerbaijan, che fino a un anno fa era abitata principalmente da persone di etnia armena e si governava in modo indipendente.
A settembre del 2023 l’esercito dell’Azerbaijan aveva conquistato il Nagorno Karabakh con una breve guerra e costretto 120mila persone armene ad andarsene, con un’operazione definita di pulizia etnica da molti esperti e istituzioni. Il 1° gennaio del 2024 la repubblica separatista del Nagorno Karabakh è stata ufficialmente sciolta. Contestualmente, il governo autoritario dell’Azerbaijan ha avviato un massiccio piano di ripopolamento dell’area coi propri connazionali.
La mozione di Scalfarotto di fatto si limita a impegnare il governo di Meloni a favorire il dialogo in corso per arrivare poi a colloqui di pace tra Armenia e Azerbaijan, «rendendo l’Italia parte attiva di un processo di normalizzazione e pacificazione della regione che rinunci all’uso della forza, garantisca l’incolumità dei cittadini, assicuri il rispetto della dignità dei prigionieri e i loro diritti».
Anche per il sostanziale equilibrio che la caratterizza, la mozione ha raccolto subito molte adesioni anche all’interno della maggioranza: oltre a Scalfarotto, l’hanno sottoscritta la presidente della commissione Esteri Stefania Craxi, di Forza Italia, il suo vice Roberto Menia di Fratelli d’Italia, il leghista Marco Dreosto. Poi via via vi hanno aderito in totale 72 senatori di quasi tutti i gruppi parlamentari. In questi casi, è prassi che il governo esprima un parere favorevole o che al massimo, prendendo atto della trasversale condivisione, si rimetta al parere dell’aula, cioè in sostanza assecondi il voto espresso dai senatori senza interferire.
Il senatore Ivan Scalfarotto, di Italia Viva, interviene in aula al Senato, il 16 ottobre 2024 (Mauro Scrobogna/LaPresse)
Invece il 28 gennaio scorso, quando l’aula del Senato è stata chiamata a votare, Cirielli è intervenuto a nome del governo in maniera critica. Ha proposto una riformulazione della mozione: è ciò che il governo fa quando subordina il proprio parere favorevole ad alcune modifiche del testo. Cirielli aveva anticipato informalmente la sua intenzione di apportare qualche correzione, e al di là di qualche piccola lamentela nessuno si era opposto. Solo che nel momento in cui ha esposto la riformulazione si è generato un certo subbuglio: i senatori si sono subito accorti che le modifiche che Cirielli proponeva erano notevoli, numerose e invasive, e di fatto sbilanciavano la mozione verso le posizioni dell’Azerbaijan.
Tra le altre cose, la riformulazione di Cirielli chiedeva di rimuovere il passaggio che parlava dei 120mila armeni costretti a lasciare le loro case e soprattutto, nell’incipit della premessa, voleva specificare che il Nagorno Karabakh è una regione «internazionalmente riconosciuta come parte integrante della Repubblica dell’Azerbaijan»: avrebbe significato proporre fin dall’inizio una visione molto di parte e piuttosto controversa.
Anche per questo Scalfarotto non ha accettato la riformulazione. Ma oltre a lui, hanno protestato anche altri senatori, compresi quelli di maggioranza. Tra gli altri, il capogruppo della Lega Massimiliano Romeo ha preso la parola per dichiarare che «noi siamo in grossa difficoltà – lo diciamo al governo – a votare contro la mozione che anche noi stessi abbiamo sottoscritto». Per gli stessi motivi anche Craxi si è risentita: un viceministro degli Esteri che esprime parere contrario su una mozione firmata dalla presidente della commissione Esteri è un cortocircuito piuttosto raro e notevole, che tra l’altro può essere visto come una delegittimazione proprio della presidente della commissione competente.
Soprattutto però – ed è il fatto politicamente più rilevante – si sono arrabbiati gli stessi compagni di partito di Cirielli, come Menia e Andrea De Priamo, da sempre sensibili alla causa armena. A quel punto, con un certo imbarazzo, il capogruppo di Fratelli d’Italia Lucio Malan ha proposto e ottenuto di rinviare la discussione, per evitare spaccature troppo plateali nel suo partito e nella maggioranza.
Menia, del resto, esprime una posizione storica e ben radicata dentro FdI: quella di chi si batte per i diritti delle minoranze cristiane in giro per il mondo (e gli armeni sono in grandissima maggioranza cristiani). In virtù di questo principio, Meloni è arrivata a sostenere anche regimi sanguinari e dittatoriali: nel dicembre del 2018 elogiò Bashar al Assad, Hezbollah e l’Iran perché era grazie a loro «se è ancora possibile fare i presepi» e «difendere la comunità cristiana». Anche per questo Meloni ha sempre abbastanza convintamente preso le difese del popolo armeno, denunciando con nettezza le operazioni militari condotte nel Nagorno Karabakh dall’esercito azero.
Cirielli è invece dichiaratamente sensibile alle ragioni dell’Azerbaijan. Non solo per gli interessi economici che l’Italia ha con quel paese (dalle coste azere del Mar Caspio parte la rete del TAP, il gasdotto che arriva fino in Puglia; e recentemente l’Azerbaijan è stato coinvolto in alcuni investimenti legati al Piano Mattei per l’Africa promosso dal governo di Meloni), ma anche per sua personale convinzione.
Secondo Cirielli, la questione storica è «molto semplice», perché la repubblica separatista del Nagorno Karabakh «è paragonabile a quella della Transnistria» (al confine tra Ucraina e Moldavia), nel senso che sarebbe uno stato fantoccio creato e protetto militarmente dalla Russia dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Sempre a suo modo di vedere nel 2023 è stato abbandonato dagli armeni «non tanto per l’intervento militare degli azeri, ma perché la Russia non aveva più interesse a proteggerlo».
Per questo, spiega Cirielli, è scorretto parlare di un «territorio conteso», come dice la mozione di Scalfarotto, visto che «ormai neppure il governo armeno lo rivendica» (l’Armenia ha di fatto rinunciato al territorio, denunciando però il “tentativo di pulizia etnica” dei cittadini di origine armena). Quanto alla difesa della minoranza cristiana, per Cirielli «non possiamo discriminare in base alla religione e ignorando il diritto internazionale solo perché alcuni sono cristiani e altri no». Insomma, per quanto ci tenga a ribadire la sua simpatia per il popolo armeno, per Cirielli «nella vicenda specifica hanno ragione gli azeri da tutti i punti di vista». Anche in virtù di questi convincimenti Cirielli ha contestato con un notevole zelo le prese di posizione dell’Unione Europea e i pronunciamenti a favore dell’Armenia da parte del Parlamento Europeo, e ha polemizzato nel merito anche col governo francese.
Ma al di là dei convincimenti personali, l’atteggiamento di Cirielli in questi giorni sta generando tensioni e sospetti. Opporsi in maniera così risoluta alla mozione di Scalfarotto è molto sorprendente per diverse ragioni. Da una parte perché il testo, oltre a essere condiviso da tutti i gruppi, è molto equilibrato («Semmai va detto che è talmente lieve che non si capisce quale significato concretamente poi riesca ad avere», ha osservato Casini, che pure l’ha sostenuta). Dall’altra perché una mozione ha un peso politico per lo più simbolico, e il governo non è tenuto a seguire rigidamente quell’indirizzo, anche se in politica estera questi pronunciamenti sono sempre delicati perché vengono poi analizzati con attenzione dalle varie diplomazie.
Eppure Cirielli non si è arreso, e martedì scorso ha inviato la mail a tutti e 200 i senatori con due allegati. Uno, scritto su carta intestata del ministero degli Esteri, informava che, «temendo di non poter essere personalmente in aula per il prosieguo del dibattito, desidero condividere con Te (…) una ricostruzione puntuale del dossier sotto il profilo storico e del diritto internazionale»; l’altro file, una «nota di inquadramento», offriva in tre pagine una sintesi della annosa questione del Nagorno Karabakh.
Il ministro degli Esteri Antonio Tajani e il suo viceministro Edmondo Cirielli discutono nell’aula della Camera, il 20 dicembre 2024 (MASSIMO PERCOSSI/ANSA)
Nel frattempo, per salvare il compromesso raggiunto, i vari proponenti della mozione avevano deciso di accogliere almeno in parte alcune delle obiezioni di Cirielli, così da evitare ogni pretesto di conflitto. Scalfarotto, Menia e Craxi hanno lavorato in tal senso. Così mercoledì mattina si è arrivati a una nuova versione condivisa della mozione, ma siccome l’aula era stata impegnata più del previsto su altri provvedimenti la discussione è stata rinviata alla prossima settimana.
Cirielli ha deciso di insistere ancora, nell’attesa. Tra giovedì e venerdì i senatori che promuovono la mozione sono stati nuovamente contattati da alcuni colleghi di Fratelli d’Italia, i quali hanno sollecitato, a nome del viceministro degli Esteri, ulteriori modifiche al testo già rimaneggiato. Tra le proposte di Cirielli c’è anche un’aggiunta in cui si suggerisce una sostanziale equiparazione tra il trattamento subìto dagli oltre 100mila armeni costretti a lasciare le proprie case nel Nagorno Karabakh e le «centinaia di migliaia di azeri» a cui secondo Cirielli «è impedito di tornare nelle proprie case» in Nagorno Karabakh «a causa dei territori minati». Nell’area ci sono moltissime mine, perlopiù collocate dagli armeni per impedire il reinsediamento degli azeri, ma in parte anche eredità dei conflitti precedenti. Cirielli dice di essere convinto che questa mozione non si può approvare, e che Scalfarotto dovrebbe ritirarla per consentire di scriverne una nuova tutti insieme, coinvolgendo lo stesso viceministro.
In tutto ciò, il ministro degli Esteri Antonio Tajani non ha ritenuto di intervenire, nonostante sia stato sollecitato a farlo da vari senatori. Cirielli garantisce di aver agito d’intesa e su mandato di Tajani: «Altrimenti non avrei inviato una lettera su carta intestata del ministero», spiega, aggiungendo peraltro come non sia casuale che su una vicenda spinosa il ministro abbia delegato proprio lui a intervenire in aula, essendo il più esperto dei tre sottosegretari e l’unico con la carica di viceministro. Lo staff di Tajani, a cui il Post ha chiesto da giorni un chiarimento, venerdì ha detto di non avere ancora studiato la faccenda.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-14 16:28:052025-02-15 16:30:24Fratelli d’Italia è andato in tilt sul conflitto tra Armenia e Azerbaijan (Post 14.02.25)
Il primo ministro della Repubblica armena, Nikol Pashinyan, ha avuto un incontro con il presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, a margine della Conferenza sulla sicurezza di Monaco. “Scambio significativo con il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa a margine della Conferenza di Monaco sulla sicurezza. Abbiamo discusso le questioni chiave del partenariato Armenia-Ue. Ci siamo confrontati sugli ultimi sviluppi regionali e sul processo di normalizzazione delle relazioni tra Armenia e Azerbaigian”, ha dichiarato Pashinyan in un post su X.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-14 16:27:132025-02-15 16:27:48Armenia-Ue: Pashinyan incontra Costa, focus su partenariato e situazione regionale (Novanews 14.02.25)
L’Iran gioca un ruolo chiave nel mantenere la stabilità regionale, soprattutto proteggendo l’Armenia dalle ambizioni azere. Dall’altra parte, l’Azerbaigian ha una cooperazione strategica con Israele, che fornisce armi e risorse in cambio di un alleato contro l’influenza iraniana. Senza l’Iran, l’Europa si troverebbe a dover affrontare un nuovo panorama geopolitico, con il rischio di un’espansione turca nella regione.
La cronaca, spesso, tende a dipingere la realtà in bianco e nero, ma questa visione riduttiva rischia di distorcere la complessità delle questioni geopolitiche, portando a conseguenze pericolose. Ogni realtà ha il suo rovescio della medaglia, e il tentativo di rimuovere un elemento da un equilibrio precario può generare squilibri imprevedibili. Questo vale, ad esempio, per il ruolo dell’Iran nello scenario internazionale: sebbene l’autoritarismo teocratico degli ayatollah sia certamente lontano dal nostro modo di pensare, non si può ignorare il suo peso come forza di deterrenza essenziale per la stabilità di alcune aree.
Un caso emblematico è l’Armenia. La sua (r)esistenza dipende, in parte, dagli ottimi rapporti diplomatici e commerciali con la Repubblica Islamica. Paradossalmente, la teocrazia che i media occidentali spesso ammantano di una narrazione tenebrosa ha un ruolo vitale nel garantire la sicurezza della “terra dei monasteri”, minacciata dal sentimento panturco incarnato dall’Azerbaijan. Questo è particolarmente rilevante considerando la consistente minoranza azera presente in Iran, che obbliga Teheran a osservare con sospetto le ambizioni espansionistiche del presidente Aliyev. Il leader azero, con la sua retorica fortemente aggressiva e nazionalista, descrive gli Armeni come occupanti dell’“Azerbaijan Occidentale” andando a contribuire a una falsificazione storico-culturale funzionale al nazionalismo turco.
L’Iran, già impegnato in una lotta costante per mantenere la propria integrità territoriale (come dimostrano i casi del Kurdistan e di altre minoranze), non può permettere che Baku alimenti fuochi identitari all’interno dei suoi confini che minino la centralità dello stato. Da qui il ruolo di Teheran come difensore dell’Armenia in funzione anti-azera. Questo ruolo si è intensificato in un contesto in cui Mosca sembra progressivamente abbandonare Yerevan, costretta da dinamiche interne armene volute dal governo Pashinyan. Nonostante alcuni accordi con gli Stati Uniti, il sostegno iraniano all’Armenia rimane una costante immutata, sottolineando la rilevanza strategica della Repubblica Islamica.
In questa logica machiavellica s’inserisce Israele. Lo Stato ebraico, pur non avendo relazioni idilliache con la Turchia (storica alleata dell’Azerbaijan), vanta un’alleanza strategica con Baku. Questa collaborazione si manifesta non solo attraverso forniture di armi, ricompensate generosamente con petrolio, ma anche tramite l’uso di basi militari azere da parte delle forze israeliane, come confermato da fonti quali The Times of Israel. Israele sfrutta la posizione strategica dell’Azerbaijan per monitorare e potenzialmente colpire l’Iran. Episodi come la sospetta morte di Raisi, di ritorno da un viaggio in Azerbaijan, e l’uso massiccio di droni israeliani nel conflitto del Nagorno-Karabakh rafforzano questi sospetti.
L’elezione di Donald Trump, con il suo già ampiamente dimostrato sostegno a Israele e la sua posizione ostile nei confronti dell’Iran, ha accentuato la pressione sulla teocrazia di Teheran. Qualora si concretizzasse una sinora ipotetica “spallata finale” israelo-statunitese per terminare una volta per tutte il già traballante il regime teocratico iraniano, si potrebbe innescare un effetto domino dagli esiti imprevedibili. La frammentazione del Paese in micro-stati (Kurdistan, Arabistan, ecc.) potrebbe minare non solo la stabilità regionale, ma anche quella globale. Senza il ruolo di deterrenza dell’Iran e con la Russia sempre più defilata, l’Azerbaijan avrebbe condizioni militari e geopolitiche favorevolissime per perseguire le sue ambizioni, incluso il controllo del corridoio del Syunik che collegherebbe definitivamente Baku a Ankara.
A quel punto, l’Europa si troverebbe ad affrontare un gigante ottomano sempre più spavaldo e padrone del Mediterraneo con accesso diretto al Mar Caspio e alle sue risorse. La fusione tra Azerbaijan e Turchia, sebbene empirica nelle sue dinamiche poiché parte della dirigenza azera verrebbe molto annacquata visti i rapporti numerici tra turchi e azeri, non è uno scenario irrealistico, considerando il forte sentimento di unione tra i due popoli e il massiccio consenso che il gruppo nazionalista turco dei “Lupi grigi” gode in entrambi i paesi.
Pur non difendendo il regime iraniano, è impossibile ignorarne il ruolo, per quanto controverso, di stabilizzatore. Superando i limiti del politicamente corretto, si fatica a immaginare una Repubblica Islamica come un baluardo democratico, ma è altrettanto difficile trascurare il suo peso strategico in un contesto geopolitico estremamente delicato in un’area geografica dove tra Turchi, Russi, Sauditi e Israeliani vi sono interessi fortissimi nei quali l’Armenia è chiaramente oppressa con poche vie di fuga.
In questa intervista, esploriamo le radici della negazione turca, la lotta per il riconoscimento e le conseguenze di un silenzio che dura da troppo tempo. La voce di Ani Balian, consigliera Unione degli Armeni d’Italia, ci guida in una realtà che non può essere dimenticata: lo sterminio genocidiario armeno non è solo una tragedia passata, perché è una ferita ancora aperta che continua a influenzare la geopolitica e i diritti umani nel mondo di oggi. La memoria del genocidio armeno è la memoria di una lotta per la verità, per la giustizia, e per il rispetto della dignità umana.
Civili armeni in marcia forzata verso il campo di prigionia di Mezireh, sorvegliati da soldati turchi armati
Perché la Turchia non riconosce il genocidio degli armeni?
La questione è complessa. Riconoscere il genocidio armeno significherebbe per la Turchia rimettere in discussione le fondamenta stesse della Repubblica, nata nel 1923 in continuità con la politica dei Giovani Turchi. Quando Mustafa Kemal fondò la Repubblica Turca, nel suo entourage erano presenti diversi esponenti di quel movimento. Nel 1919 alcuni di loro furono processati dalla Corte marziale ottomana e condannati a morte per il ruolo avuto nello sterminio degli armeni. Le condanne furono eseguite. Però nel frattempo i capi erano fuggiti e sono stati condannati a morte in contumacia. Altri, catturati dagli inglesi e deportati a Malta per essere processati, furono però scambiati con 22 prigionieri britannici detenuti da Mustafa Kemal, in assenza di una normativa internazionale che regolasse il crimine di genocidio. La Corte marziale è stata chiusa da Kemal e coloro che stavano scontando la pena vennero da lui graziati. A tal proposito, lo storico turco Taner Akçam, tra i pochi intellettuali del Paese a riconoscere il genocidio armeno, ha dichiarato senza mezzi termini: “La Turchia dovrebbe ammettere che i suoi padri fondatori sono degli assassini”. Poiché alcuni di loro furono autori o complici del genocidio.
Un militare statunitense nella base Nato di Incirlik, in Turchia
Ammetterlo cosa comporterebbe?
C’è una questione di natura economica e patrimoniale. Se la Turchia riconoscesse il genocidio, dovrebbe restituire i beni confiscati agli armeni deportati, uccisi e sterminati. Di questi beni si sono appropriati lo Stato e famiglie turche, e il loro valore è enorme. Un esempio concreto riguarda le basi militari. Il terreno su cui sorge la base Nato di İncirlik appartiene a un armeno. Lo stesso vale per l’aeroporto di Diyarbakır, che si trova su un terreno di proprietà di una famiglia armena. Ci sono ancora gli eredi di quest famiglie. Il Palazzo presidenziale di Çankaya ad Ankara, sede ufficiale dei presidenti turchi dal 1923 al 2014, originariamente apparteneva a Ohannes Kasparyan, un facoltoso armeno che lo aveva fatto costruire nell’Ottocento. Durante i massacri, Kasparyan fu costretto alla fuga e il palazzo venne espropriato. Successivamente una famiglia turca se ne impossessò, e in seguito l’edificio fu donato a Mustafa Kemal che fu il primo inquilino. Da allora e fino al 2014, Çankaya divenne la residenza ufficiale dei presidenti della Turchia. Molte delle ricchezze delle grandi famiglie turche, anche quelle imprenditoriali, sono basate su beni sottratti agli armeni. L’economia nazionale della Repubblica turca è fondata sui beni espropriati agli armeni. È chiaro che non può riconoscere pubblicamente questo aspetto. Inoltre, in Anatolia esistevano circa 2.500 chiese, oltre a monasteri, scuole e ospedali, tutti distrutti e depredati. Oggi di quelle chiese sono rimaste in piedi solo le mura di una decina di esse.
Donne armene deportate con i loro figli dopo essere scampati al genocidio del 1915. La foto che ha più di un secolo, è del 1923, riassume il dolore, la paura, la disperazione di un intero popolo
Come giustificano questo negazionismo?
Nel 1915 , quando i Giovani Turchi hanno dato inizio alle deportazioni, fu emanata una legge ad hoc che giustificava l’espropriazione dei beni armeni sostenendo che i proprietari li avessero “abbandonati” e che fossero morti durante la deportazione a causa di malattie, senza spiegare perché si trovassero a centinaia di chilometri da casa loro, nel deserto. Oltre alla questione patrimoniale, la Turchia ha cercato di negare il genocidio appellandosi allo stato di guerra. Nel tempo, i negazionisti turchi hanno adottato diverse versioni. Inizialmente, sostenevano che gli armeni fossero una “quinta colonna” al servizio dei russi. Tuttavia, questa teoria non regge: nel 1915 non esistevano aerei, e gli spostamenti avvenivano a cavallo su distanze enormi, basta guardare una mappa. Inoltre, l’intellighenzia armena inizialmente riponeva speranze nei Giovani Turchi, prima che questi rivelassero il loro volto di feroci ultranazionalisti. Non a caso, il 24 aprile 1915 furono proprio gli intellettuali armeni, che avevano creduto nel nuovo governo, i primi a essere arrestati, torturati e uccisi. La teoria della “quinta colonna”, dunque, si smentisce facilmente. Oggi, la narrazione negazionista più diffusa è che gli armeni siano semplicemente morti durante la guerra. La tesi di Erdoğan, secondo cui tutti sono morti durante la guerra, è falsa. Lui afferma che sia i turchi sia gli armeni hanno avuto delle perdite, ma senza specificare chi ha ucciso chi. È vero che c’era la guerra, e anche i turchi hanno avuto delle perdite, ma è indiscutibile che i turchi hanno massacrato gli armeni: hanno eliminato i propri cittadini. Era questa, secondo Behaeddin Sakir, capo dell’Organizzazione Speciale, la soluzione della questione armena. Alcuni arrivano persino a sostenere che i turchi non avrebbero avuto le capacità organizzative per compiere un genocidio, e in maniera ancora più assurda, attribuiscono la responsabilità dell’organizzazione ai tedeschi. Ma la realtà storica è chiara: furono i turchi, usando l’esercito e con la complicità della popolazione locale, a pianificare ed eseguire la deportazione e lo sterminio degli armeni. L’intento era chiaro: l’annientamento di un popolo. Esistono i documenti. Anche se i turchi hanno ripetutamente ripulito gli archivi.
Perché il genocidio armeno è meno noto rispetto all’Olocausto?
Non era affatto meno conosciuto. Negli Stati Uniti e in Europa, i giornali ne parlavano quasi ogni giorno. Inglesi, francesi, russi, americani, protestavano contro la Turchia nel tentativo di fermare i massacri. Fu proprio in riferimento al genocidio armeno che, nel 1915, un documento statunitense utilizzò per la prima volta l’espressione “crimini contro l’umanità”. Ci sono talmente tanti documenti, che è assurdo negare. Nel settembre 1915 viene fondata l’organizzazione umanitaria: American Committee On Armenian Atrocities. Perciò l’Europa e l’America sapevano bene cosa stava accadendo: esistono innumerevoli articoli e documenti dell’epoca che lo dimostrano. Ma cosa è successo dopo? Nel 1923, con la nascita della Repubblica turca, la narrazione cambiò. La Turchia divenne improvvisamente “un baluardo contro il comunismo”, e sotto questa giustificazione l’Occidente scelse di chiudere gli occhi per convenienza. Non solo Ankara riuscì a passare indenne da quella tragedia, ma continuò a vessare gli armeni anche oltre gli anni 50, senza che nessuno chiedesse conto di nulla. Perché? Perché la Turchia era un grande mercato e conveniva così.
L’Affiche Rouge, il Manifesto Rosso, con cui gli occupanti nazifascisti nel 1944 tappezzarono i muri parigini per descrivere i partigiani del gruppo guidato dall’armeno Missak Manouchian come criminali
Il genocidio armeno del 1915 non fu solo il primo del XX secolo ma anche il precedente diretto che ispirò i meccanismi dell’Olocausto.
Hitler era senz’altro a conoscenza dell’eliminazione degli armeni in Turchia. Nel 1920 in Germania aveva conosciuto l’ex console tedesco a Erzurum, che era stato testimone delle deportazioni e le aveva denunciate. Inoltre Hitler era senz’altro a conoscenza di un processo a Berlino nel 1921 che aveva fatto molto scalpore. Certamente l’assenza di una condanna alla Turchia era incoraggiante. L’impunità di cui godeva la Turchia non sfuggiva di certo a Hitler nel ’39.
Parigi, il Panthéon illuminato con le proiezioni dei volti dei partigiani di Manouchian
Molti armeni della diaspora, sopravvissuti allo sterminio, avevano combattuto nella Resistenza europea.
Durante la Seconda guerra mondiale molti armeni combatterono tra le file della Resistenza. Alcuni giunsero in Italia con l’Armata Rossa e oggi riposano nel cimitero di Torino. In Francia operava il celebre gruppo Manouchian, i partigiani comunisti dell’Affiche Rouge. Una formazione eroica, guidata da Missak Manouchian, un orfano sopravvissuto al genocidio, fuggito in Francia, apolide, senza neanche i documenti francesi. Divenuto combattente della Resistenza francese, fu catturato dai nazisti e fucilato il 21 febbraio 1944 insieme ai suoi 22 compagni, armeni e di altre nazionalità, c’era anche un italiano tra loro, il calciatore Rino Della Negra. Dal 21 febbraio 2024, le salme di Missak Manouchian e sua moglie Mélinée riposano nel Panthéon di Francia. Da sopravvissuto al genocidio al Panthéon: un simbolo di Resistenza e Memoria.
Raphael Lemkin, giurista ebreo polacco, elaborò il crimine di genocidio
La parola genocidio è stata coniata per lo sterminio degli armeni.
Proprio così. Il termine “genocidio” è di Raphael Lemkin, un giurista ebreo polacco. C’è anche un video del 1949 in cui Lemkin stesso parla di come coniò questo termine proprio in riferimento al genocidio armeno.
Soghomon Tehlirian: “Io ho ucciso un uomo, ma non sono un assassino”
Lemkin come elaborò il crimine di genocidio?
A Berlino, nel 1921, un giovane armeno di nome Soghomon Tehlirian, che era sopravvissuto al genocidio, e aveva visto la madre violentata, uccise in piena strada il responsabile di quella tragedia, Talat Pasha noto come capo dei perpetratori del genocidio armeno, insieme a Enver e Cemal (tutti e tre condannati a morte in contumacia nei processi del 1919). Inizia così un processo che suscita una grande eco in tutta Europa. Durante il processo emergono testimonianze, tra cui quelle di soldati tedeschi, generali, pastori protestanti e missionari che si trovavano sul posto. Da queste testimonianze viene rivelato tutto l’orrore di quella tragedia. Tant’è che il giovane Tehlirian viene giudicato non colpevole. Questa vicenda ha provocato una grande risonanza e attirato l’attenzione di Raffael Lemkin, che segue con interesse il caso. Lemkin si rende conto che è accaduto qualcosa che non aveva un nome. Si chiede perché un giovane debba farsi giustizia da sé: perché non esiste una legge che punisca un crimine di tale portata. Ciò ossessiona ulteriormente Lemkin e lo spinge a lavorare per anni affinché venga riconosciuta una definizione precisa per questo crimine.
Orfani Armeni
Ci riuscì Lemkin?
Oggi la parola “genocidio” viene usata in maniera indiscriminata per descrivere qualsiasi massacro, ma in realtà “genocidio” è un termine molto preciso. Prima di tutto, implica un intento: non è necessario che ci sia una guerra, anche se spesso viene sfruttata la guerra come pretesto, come circostanza favorevole. Ciò che conta è l’intento di eliminare un’intera etnia o popolazione in quanto tale. Basato su un odio etnico puro. Nel 1949, un anno dopo la ratifica della Convenzione sul genocidio, Quincy Howe, celebre intervistatore della CBS, chiede a Raphael Lemkin, allora professore di diritto all’Università di Yale, il motivo per cui abbia coniato il termine “genocidio”. Lemkin risponde: “Perché è successo agli armeni”. E lo ripete due volte: “Perché è successo agli armeni”. In questa intervista, Lemkin afferma chiaramente che il concetto e la parola “genocidio” sono nati dalle atrocità subite dagli armeni e dall’annientamento di un popolo. Se l’inventore stesso della parola lo dice, e lo dice nel ’49, è inutile cercare altre spiegazioni.
Benché Lemkin si sia speso per quasi venti anni per far accettare il concetto e la parola genocidio, morì senza un soldo e solo.
Mappa delle deportazioni degli armeni, 1915-1923
Quindi gli elementi per definirlo giuridicamente genocidio ci sono da tempo.
I negazionisti parlano di una cifra di 300.000 morti, ma questa è una stima casuale. La realtà è che la popolazione armena era di circa 2,8 milioni di persone, di cui due terzi furono sterminati. E poi ci furono quelli che sono sopravvissuti, gli “avanzi della spada”, come li chiamano ancora oggi i turchi: bambini orfani, persone mutilate, donne e bambine rapite, violentate, vendute, e costrette a conversioni forzate. Queste atrocità non sono qualcosa di nuovo. Oggi ci si scandalizza per le storie di schiavi venduti, ma tutto questo è già successo. I treni che trasportavano gli armeni verso la morte esistevano già. C’era infatti la ferrovia che collegava Costantinopoli a Baghdad, e ci sono foto con vagoni pieni di gente che documentano queste atrocità. Le camere a gas esistevano già: non erano quelle che conosciamo oggi, ma c’erano chiese dove venivano bruciati vivi gli armeni, o caverne dove venivano rinchiusi e bruciati con la sterpaglia. I concetti di sterminio sistematico erano già presenti, solo che le modalità erano diverse.
Campo profughi armeni. la foto è della missionaria norvegese Bodil Katharine Biørn. Tesstimone del genocidio fu insieme ad altri missionari europei tra coloro che cercarono di aiutare le vedove e gli orfani
Il genocidio armeno è riconosciuto da numerosi Paesi, tra cui l’Italia e l’Unione Europea. Cosa può dirci?
L’Italia ha riconosciuto ufficialmente il genocidio armeno in due occasioni: la prima nel 2001 e la seconda nel 2019. Il 2 giugno 2016, anche il Parlamento tedesco ha riconosciuto i massacri del 1915 come genocidio, ammettendo al contempo una responsabilità storica della Germania poiché, pur essendo presenti sul territorio, i tedeschi non intervennero per fermare lo sterminio. Sono gli alleati stessi dei turchi, quindi, ad affermare che è stato un genocidio, pertanto è patetico che i turchi lo neghino ancora.
Papa Francesco, Karekin II Catholicos di tutti gli Armeni, e Aram I Catholicos di Cilicia della Chiesa Apostolica Armena (Imagoeconomica, Stefano Spaziani)
Come ha reagito Erdoğan al riconoscimento del genocidio armeno da parte della comunità internazionale?
Quando si parla di riconoscimento, la reazione di Erdoğan è sempre scomposta. Per esempio, era il 12 aprile 2015, il Papa fece una dichiarazione forte davanti al mondo in occasione del centenario del genocidio armeno, che fu un momento straordinario. Io ero a San Pietro. È stato un momento emozionante per tutti gli armeni. Come al solito Erdoğan richiamò il suo ambasciatore e i giornali riportarono che l’ambasciatore era stato richiamato, ma poi gli ambasciatori tornano, ma in silenzio. Questo è un dettaglio che viene sempre omesso. La Turchia sbraita, fa polemiche, ma poi tace, poiché la Turchia non è nella posizione di poter fare a meno dell’Occidente. Poi ci sono anche dei gruppi di turchi più estremisti, che negano il genocidio e compiono atti di vandalismo, come accade in Germania e in Francia, dove danneggiano monumenti e memoriali dedicati alla memoria del genocidio armeno.
Armenia, Memoriale del genocidio
Quindi è una pagina di storia rimossa dai libri scolastici in Turchia.
Peggio. Nelle scuole turche insegnano che sono stati gli armeni a uccidere i turchi. Addirittura organizzano gare per vedere chi riesce a scrivere meglio questa versione dei fatti, e premiano gli studenti. Ci sono anche rappresentazioni teatrali nelle scuole turche, dove il “bravo e coraggioso turco” difende la patria uccidendo “il cattivo e traditore armeno”. Ecco, sono tutte queste narrazioni che vengono propagate. Così crescono i ragazzi turchi. D’altronde, ci sono scuole, vie con i nomi dei perpetratori, c’è il Mausoleo di Talaat…
La bandiera armena
E nelle scuole italiane ed europee?
Ultimamente si trova qualche riga nei libri di scuola italiani, qualche accenno anche in Germania, un po’ di più in Francia, visto che i francesi sono più avanti su questo fronte, infatti in Francia si commemora il 24 aprile, è la Giornata nazionale in ricordo del genocidio armeno, inoltre è reato negare il genocidio armeno. Mentre in Turchia è reato nominarlo (legge 301). Per il resto, non molto. Comunque, è importante sottolineare che il genocidio armeno è ormai riconosciuto da tutti gli studiosi e ricercatori. È riconosciuto come il primo genocidio del XX secolo, e questo è un aspetto fondamentale. La sua importanza non risiede solo nel fatto che sia stato un genocidio, ma anche nel fatto che sia il primo del secolo scorso, e questo lo rende un caso emblematico. Gli armeni oggi non sono solo vittime e martiri. Sono persone fiere, colte, energiche, creative, vitali. Protagonisti, partecipi della storia contemporanea danno un contributo enorme al mondo, nell’arte, nella scienza. Solo per fare qualche nome: l’economista Abel Aghambegyan, l’icona francese Charles Aznavour, lo scrittore William Saroyan, i registi Rouben Mamoulian e Henri Verneuil, il gruppo rock System of a Down, il calciatore della Roma Henrikh Mkhitaryan … Ci sono persino due premi Nobel.
Bambini armeni deportati, forse nessuno di loro è sopravvissuto
Cosa fa la comunità internazionale?
La situazione è tristemente chiara: la comunità internazionale potrebbe fare molto, ma in realtà non fa nulla. Non solo tace, ma continua a fare affari con i discendenti di chi ha perpetrato il genocidio. Il trauma del genocidio armeno è ancora vivo, radicato nella memoria collettiva e trasmesso di generazione in generazione. La paura non è mai scomparsa. Quando nel 2020, in piena pandemia da Covid, l’Azerbaigian ha attaccato l’Artsakh, la Repubblica del NK, il mondo ha guardato altrove. Poi, per dieci mesi, ha imposto un blocco sul corridoio di Lachin, lasciando la popolazione senza cibo né medicinali, fino a ridurla allo stremo. Neonati morti, aborti per mancanza di farmaci e nutrimento, questo è stato. Infine, il 19 settembre 2023, ha lanciato un nuovo attacco. E i giornali di qui? Hanno celebrato la “vittoria azera in due giorni!”. Ma quale vittoria? Come avrebbe potuto resistere una popolazione già decimata dalla fame e dalle malattie, combattere e difendersi? Gli armeni sarebbero stati sterminati ancora una volta. Così è avvenuta una pulizia etnica: 140.000 armeni hanno dovuto abbandonare le loro terre ancestrali e fuggire in Armenia per evitare un nuovo genocidio. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si è “riunito d’urgenza” solo due giorni dopo, eppure aveva avuto due anni per prendere atto dello stato delle cose e oltre dieci mesi di blocco per intervenire. Intanto, Ursula von der Leyen firmava accordi sul gas con il presidente azero Aliyev, come se nulla fosse. E nel silenzio generale, il genocidio bianco continua: demolizione di chiese, distruzione di croci medievali, cimiteri rasi al suolo… È in atto la cancellazione di un popolo e della sua cultura. Come allora in Turchia adesso in Azerbaigian, nell’indifferenza della comunità internazionale. Ilham Aliyev l’anno scorso è stato rieletto per il quinto mandato col 92% dei voti e nessuno ha aperto bocca: tutto normale… prima il padre e dopo lui, è dal 1993 che sono al potere, altro che regime!
Un bimbo armeno durante la pulizia etnica del 2023. Quale futuro?
Quindi la persecuzione degli Armeni continua. Anche in Azerbaigian si nega il genocidio?
Aliyev falsifica la storia, chiama l’Armenia: “Azerbaigian occidentale”, nell’attesa del momento propizio per il prossimo attacco per annientare l’Armenia stessa. Nel silenzio complice dell’Occidente. Altro che i “valori europei”! E si riscrive la storia: nella mostra a Roma al Colosseo riguardante un sito archeologico in Turchia non c’era l’Armenia. Abbiamo dovuto protestare col ministero della Cultura. Sui depliant turistici dell’Anatolia non si nominano gli armeni. In Azerbaigian si dice “gli armeni sono stati portati lì nell’800”, e altre menzogne del genere. Ma se loro ci cancellano, non significa che noi siamo cancellati! Ci hanno provato. E non ci sono riusciti. Ci riproveranno. Ma noi siamo resistenti, siamo lì da oltre 3.000 anni, quando non c’era l’ombra né di azeri né di turchi! Loro erano in Asia centrale. Dicono: “i Romani erano in Azerbaigian”, sì, ma allora non c’era né l’Azerbaigian, né gli azeri! C’era il Regno di Tigrane il Grande, re d’Armenia. Segnalo che la vendita di armi all’Azerbaigian, con in testa Israele col 61%, è senza sosta. Questa è l’ipocrisia dell’Occidente, col blabla dei suoi “valori” che fa affari sul sangue della gente! L’Occidente che cent’anni fa ha assolto la Turchia, adesso assolve l’Azerbaigian. In assenza di una condanna, i crimini contro l’umanità sono destinati a ripetersi. La non punizione del genocidio, porta ad altri genocidi.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-13 23:14:272025-02-14 14:57:16Genocidio armeno, il primo del XX secolo. Ma l’Occidente l’ha rimosso (Patriaindipendente 13.02.25)
Letizia Leonardi (Assadakah News) – Non è certo passata inosservata la mostra dal titolo “Göbeklitepe: L’enigma di un luogo sacro”, allestita al Colosseo (secondo livello dell’Anfiteatro Flavio) e promossa dal Parco Archeologico del Colosseo con la curatela di Alfonsina Russo, Roberta Alteri, Daniele Fortuna e Federica Rinaldi e la collaborazione del Ministero della Cultura e del Turismo della Repubblica di Turchia e dell’Ambasciata di Turchia a Roma. Una mostra che mistifica la storia antichissima e nella quale l’Armenia appare cancellata in alcune immagini, sicuramente totalmente ignorata. Le Comunità Armene e i cittadini italiani che stanno dalla parte del primo popolo cristiano del mondo e non da quella dei massacratori (che non hanno neppure voluto riconoscere il genocidio compiuto nel 1915 contro gli armeni) sono indignati per il permesso e il patrocinio concesso dal Ministero della Cultura italiano. Viene segnalato da più parti che l’allestimento è stato utilizzato per manifestare le più deprecabili teorie nazionaliste genocidiarie e anti armene. Il Consiglio per la Comunità Armena di Roma, in particolare, ha inviato una comunicazione al Ministro della Cultura facendo presente che: “Nei pannelli illustrativi l’Armenia, la grande Armenia storica che si estendeva dal mar Caspio al Mediterraneo, è stata omessa. Così come l’attuale Repubblica di Armenia. Al suo posto i curatori hanno pensato bene di collocare una “grande Azerbaijan”, Paese inesistente fino al 1918 il cui autocratico Presidente continua ancora oggi a minacciare la repubblica di Armenia accampando pretese su fantomatiche terre storiche azere. Anche se l’evento terminerà a breve riteniamo opportuno, anzi indispensabile, un Suo autorevole sollecito intervento per allontanare subito qualsiasi sospetto che la mostra sul sito archeologico sia stato solo un pretesto per dar spazio alle più bieche teorie nazionaliste turche degne di un membro dei “Lupi grigi””.
La mostra terminerà infatti il 2 marzo ma è stata inaugurata il 25 ottobre 2024.
L’obiettivo della mostra sarebbe dovuto essere quello di sensibilizzare il pubblico sull’importanza della conservazione del patrimonio storico culturale. Peccato che la Turchia sia il Paese che, più di tutti, insieme all’Azerbaijan, abbia distrutto monumenti antichissimi di straordinaria importanza sol perché doveva cancellare la presenza ancestrale degli armeni nei territori ad essi sottratti. Si può ipotizzare invece che il vero motivo di questa mostra, con le relative conferenze previste nel corso dell’evento, sia invece un primo tentativo per fare una propaganda mendace contro gli armeni e l’Armenia così da abituare l’occidente alla cancellazione della Repubblica d’Armenia, così come avvenuto con il Nagorno Karabakh.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-13 16:25:392025-02-15 16:26:55Roma - Un affronto all'Armenia la mostra turca allestita al Colosseo (Assadakah 13.02.25)
Il 17 gennaio sono cominciati a Baku i processi nei confronti di 16 ex rappresentanti dell’auto proclamata Repubblica di Artsakh (Nagorno Karabakh). Tra gli imputati figurano tre ex presidenti della Repubblica: Arayik Harutyunyan (2020-2023), Arkadi Ghukasyan (1997-2007), e Bako Sahakyan (2007-2020), e l’ex Ministro di Stato Ruben Vardanyan, il cui procedimento giudiziario è cominciato invece il 27 gennaio. Gli imputati sono accusati di aver commesso 2548 crimini, dalla prima guerra del Karabakh negli anni 90 ad oggi.
Chi sono gli imputati
Dopo più di un anno di detenzione preventiva, sono iniziati a Baku i processi che gli armeni non avrebbero mai voluto vedere. Tra i presunti colpevoli, il caso maggiormente degno di nota è quello di Ruben Vardanyan. Oligarca armeno che ha studiato, vissuto e lavorato in Russia, ex consigliere personale di Vladimir Putin, fondatore ed ex amministratore delegato della Banca di Investimenti Troika Dialog, ma soprattutto ex Ministro di Stato della Repubblica di Artsakh dal 2022 al 2023 (figura equivalente a quella del ‘Primo Ministro’). Figura chiave nel panorama politico del Nagorno Karabakh, era stato arrestato da ufficiali azeri dopo che nel settembre del 2023 aveva provato ad attraversare il confine per entrare in Armenia, in seguito al blitz di Baku a quello che rimaneva dell’Artsakh. Su di lui pendono 45 capi di imputazione, tra cui tortura, schiavitù, sequestro di persona, terrorismo, e creazione di forze armate illegali. L’imputato ha sostenuto che il suo diritto alla difesa è stato violato, in quanto non a conoscenza dei materiali del procedimento penale a suo carico, “devo essere pronto per la difesa legale.”
Oltre a Vardanyan, altri 15 individui (che verranno processati insieme) figurano sul banco degli imputati. Tra loro, gli ex Presidenti della Repubblica, ma anche l’ex Ministro degli Esteri Davit Babayan e il Presidente del Parlamento Davit Ishkhanyan. Il numero di persone riconosciute come vittime in questo procedimento penale supera il mezzo milione, tra eredi di chi ha perso la vita nelle guerre, feriti, sfollati e altre persone. Un numero impressionante. Anche Rufat Mammadov, capo dell’ufficio di Gabinetto dei ministri, partecipa al processo in qualità di vittima per conto dello stato azero. Per le accuse a loro rivolte, gli imputati rischiano l’ergastolo. I media di stato azeri si sono affrettati a nominare tali processi “Processi di Norimberga”, allusione a quelli tenuti dagli Alleati contro diversi rappresentanti della Germania Nazista dopo la Seconda Guerra Mondiale, lasciando intendere che l’esito è più che scontato. Aliyev aveva già descritto l’Armenia come uno stato in cui sarebbe presente una minaccia fascista da estirpare, esacerbando le tensioni e minando i negoziati di pace tra i due paesi.
Non solo una questa giudiziaria
Perché parlare dei processi? Perché non è solo una questione giudiziaria. I 16 imputati sono tutte figure rispettate in Armenia perché visti come “persone perbene sottoposte ad un processo ingiusto”, o addirittura come dei veri e propri martiri. Qualunque sia il giudizio si possa dare su queste persone, l’andamento e l’esito dei processi potrebbe avere ripercussioni sui negoziati di pace tra Yerevan e Baku. Da settembre 2023, l’intera regione del Nagorno Karabakh è tornata sotto il controllo diretto dell’Azerbaijan. Da allora i due paesi hanno cominciato un lungo e tortuoso negoziato per firmare un definitivo trattato di pace, normalizzare i rapporti, riconoscere mutualmente la sovranità territoriale, e aprire canali diplomatici stabili. Ad oggi, fonti armene, tra cui il Primo Ministro in persona, riferiscono che il 90% dei punti dell’accordo sono stati concordati. Per Yerevan è prioritario spingere per chiudere i negoziati quanto prima così da aprire i confini dei due paesi nell’ambito del progetto “Crossroad of Peace”. Un progetto che mira a connettere le infrastrutture regionali per favorire il commercio internazionale. Tuttavia, le recenti dichiarazioni di Aliyev, le esercitazioni militari al confine con la provincia di Syunik, e questi ‘processi di Norimberga’, rischiano di rallentare ulteriormente il processo di normalizzazione dei rapporti. Lo stesso Pashinyan ha accusato pubblicamente il governo di Baku di usare droghe e sostanze stupefacenti proibite contro gli armeni imprigionati per estorcere testimonianze funzionali a esacerbare le tensioni. Di tutta risposta, il Ministro degli Esteri azero ha bollato come “ridicole” le dichiarazioni del Primo Ministro armeno.
Inoltre, l’avvocato di Ruben Vardanyan, l’Americano Jered Genser, ha dichiarato che l’amministrazione Trump terrà una linea molto dura nei confronti di Aliyev sulla questione dei prigionieri armeni e non è escluso che il Presidente americano possa arrivare a fare pesante pressione diplomatica e minacciare sanzioni nei confronti delle autorità di Baku. Il motivo è prevalentemente di carattere interno. Trump ha capitalizzato molto in campagna elettorale sulla questione armena per assicurarsi negli swing states il voto della comunità armena (che è cristiana). Sistematici sono stati, infatti, gli attacchi a Biden e Harris, accusati di “non aver fatto nulla mentre 120.000 cristiani armeni venivano orribilmente perseguitati e sfollati con la forza in Artsakh”. È chiaro che i processi di Baku non sono né solo una questione di politica interna all’Azerbaijan, né tanto meno solo dei procedimenti giudiziari. Le implicazioni sono più ampie. E tra gli imputati quello che il regime teme di più è proprio Vardanyan, è lui che deve essere rovesciato. Aliyev ha bisogno di questo processo storico per voltare definitivamente pagina all’indipendenza del Nagorno Karabakh.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-13 16:24:092025-02-15 16:25:26Cosa sappiamo dei processi di Baku (Eastjournal 13.02.25)
(ANSA) – ROMA, 13 FEB – L’Ambasciatore d’Italia a Jerevan, Alessandro Ferranti, è stato ricevuto dal Presidente dell’Assemblea Nazionale della Repubblica di Armenia, Alen Simonyan.
Durante il colloquio è stata sottolineata l’importanza dell’ulteriore rafforzamento delle relazioni bilaterali tra Italia e Armenia, con particolare riguardo alla cooperazione interparlamentare.
All’incontro ha partecipato anche la Presidente del Gruppo di Amicizia Parlamentare Armenia-Italia, Maria Karapetyan. (ANSA).
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-13 16:21:232025-02-15 16:23:56Ambasciatore in Armenia incontra Presidente Assemblea Nazionale (Ansa 13.02.25)
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