Passaggio in Armenia. Racconti di rifugiati dall’Artsakh (Nagorno Karabakh) (Mentinfuga 17.03.24)

Sono passate due settimane da quando sono tornato. Ho ancora i soldi armeni nel portafoglio. Riaffiorano istanti quotidianamente e la portata di quello che ho vissuto non è ancora perfettamente elaborata. Tutto è ancora avvolto in una nuvola di pensieri.
Cerco di far luce dall’inizio. Non ho nessuna pretesa di spiegare un paese, solo di raccontarvi quello che ho vissuto in questo mio primo soggiorno a Yerevan.
Andare in  è un viaggio nel viaggio. Per alcuni aspetti è quasi commovente. Si ha quasi la sensazione di un viaggio antropologico, in pochi chilometri sembra poter attraversare epoche differenti. Si passa dall’Armenia sovietica a quella post sovietica, da quella che guarda all’occidente con quartieri eleganti, dove i ricchi e i nuovi ricchi bevono espressi italiani a due tre euro a tazza a quella dei poveri.
A poche centinaia di metri si scorgono le periferie, oscure come in ogni parte del mondo e le case col tetto di lamiera, oppure le grandi chiese piene di devoti. Hai la sensazione che l’aspetto religioso sia predominante nel paese, e che  sembra esserci un velo di magico quando giovani e anziani recitano le preghiere. Vedi la vicinanza delle persone e quel un senso di appartenenza che non riconosco, per l’ho mai sentito ma non l’ho mai visto in altre parti del mondo in cui sono stato. Credo che questo possa derivare dalla profondità della loro storia, fatta di martiri, eroi, diaspore, genocidi e anche di traditori.
Attraverso queste epoche poi se cerchi trovi chi scappa dalla guerra.
La sensazione di essere in un paese sull’orlo di una guerra a volte si avverte girando per la città.

L’ho sentita e l’ho vista spesso negli sguardi diffidenti delle persone che osservavano infastidite il mio girare con la macchina fotografica. Ho visto le reazioni rabbiose al mio fotografare e li calmava solo il fatto di essere italiano.
Mi spiega Archimandrita Tovma Khachatryan, monsignore, durante una chiacchierata nel centro per i giovani della chiesa armena, che c’è in atto una campagna di fake news dai paesi confinanti che minano la stabilità del paese e questo conferma l’altra faccia della guerra e come questa arrivi a profondità sconosciute.
Il centro accoglie i giovani di origine armena di tutto il mondo, che in visita nel paese partecipano a seminari e congressi. Gli armeni sono circa dodici milioni di cui solo tre milioni abitano nel paese.
Quindi questo lavoro di raccordo fra le comunità di tutto il mondo richiede impegno e costanza.
Monsignore Tovma è un caro amico di Shake la mia amica cuoca armena, che ho conosciuto al Laboratorio antropologico del cibo (LAC) e che con i suoi racconti attorno ad un tavolo mi ha affascinato. Questo è stato uno dei tanti motivi che mi hanno spinto ad andare in Armenia.

Sapevo di non voler fare il turista ma quello che sembrava complicato era trovare una chiave di lettura. Anche qui è intervenuta Shake attiva nella comunità armena che mi ha messo in contatto di Teresa Mekhitarian.
Teresa, armena anch’essa, vive nella Svizzera Italiana e dopo una carriera di alto livello nella finanza ha lasciato tutto per fondare l’onlus Il Germoglio per occuparsi di aiuti umanitari nel paese. Grazie a queste due persone ho avuto la possibilità di cominciare a mettere le basi per questo racconto. Grazie a loro sono entrato in contatto con  del Nagorno Karabakh o dell’Artsakh, come chiamano gli armeni il paese.

Diacono Samvel. Foto Francesco Lorusso, 2024

Durante la visita a Echmiadzin, in pratica il Vaticano armeno, ho potuto visitare un centro di accoglienza della chiesa dove vivono una quindicina di famiglie sfollate dall’Artsakh durante la guerra lampo di settembre 2024 con cui l’Azerbaijan ha conquistato, nell’indifferenza generale, quelle terre.
Mi accoglie il Diacono Samvel contattato precedentemente grazie Monsignore Tovma.
Appare preoccupato, probabilmente non capita molto spesso che qualcuno si presenti per vedere di persona cosa succede. Fuori, tutto in torno la vita appare normale, case basse, piccoli ristoranti, persone nei bar, chiese e matrimoni raccontano un’altra Armenia. Anche le persone ospiti della casa ci guardano incuriosite, e abbiamo un bel da fare a rassicurare il diacono che con questo materiale ci scriverò inizialmente un articolo e che il resto diventerà parte di un racconto per immagini. Mi salva il fatto che scrivo per Mentinfuga, quindi da questo momento in poi, io e mio figlio Gabriele che mi ha accompagnato in questo viaggio, diventiamo ufficialmente i «giornalisti» italiani.
Samvel ci accompagna in un rapido giro della struttura, precedentemente usata per gli studi dei futuri preti. Ora come detto accoglie queste famiglie, e con molta discrezione ci accompagnano all’interno di uno di questi appartamenti fatto da una stanza dove si vive e da un bagno.
La stanza una buona metà è occupata da un letto matrimoniale, poi una cucina e una finestra che da su un cortile interno.

Alyona nel centro accoglienza profughi a Echmiadzinv, Armenia.
Alyona nel centro accoglienza profughi a Echmiadzin. Foto Francesco Lorusso, 2024

Ci abita una famiglia di tre persone, marito moglie e un figlio. David, Alyona e Hayk.
Abitavano a Shushi e conducevano una vita serena prima della grande fuga. Lui lavorava per la chiesa locale, e adesso che sono senza un reddito, sperano di poter trovare un lavoro che permetta di poter finalmente avere una casa. Non sarà facile in un paese dove nel 2021, secondo la Banca mondiale, circa il 27% degli armeni vivono in povertà. Ma David è da qui che dovrà cominciare a pensare ad una nuova vita. Il dolore negli occhi e lo sguardo che appare lontano, danno una compostezza alle poche frasi tradotte da Samvel. Non è facile immaginare come possa essere la vita ora dopo che in un breve lasso e straziante periodo di tempo passi dalla serenità al non possedere più nulla e dover abbandonare i luoghi dove sei nato e dove le famiglie hanno vissuto intere generazioni.
Diventare un profugo. Questa stanza ha tutto il necessario, ma manca di quel calore che fanno della casa un ambiente che ti appartiene e dove torni per sentirti per trovare le tue sicurezze.

David nel centro accoglienza profughi a Echmiadzinv, Armenia.
David nel centro accoglienza profughi a Echmiadzin. Foto Francesco Lorusso, 2024

Lasciamo la stanza, per andare nella zona comune, li dove le persone cucinano e mangiano assieme. Nel salone troviamo una grande libreria e un pianoforte, un signore guarda la televisione ma sembra un pretesto e appare lontano. Entrando nella cucina due signore sono ai fornelli: c’è della pasta in una padella e, se capisco bene, dall’altra della borsch, una zuppa. L’atto di cucinare è quasi curativo, le persone dialogano e tutto ha una dimensione che pare serena. Senza il diacono è impossibile dialogare ci scappano solo sorrisi e un segno di sorpresa da parte loro. Ma non sembrano infastidite anzi intuisco curiosità.

Nella cucina del centro accoglienza profughi a Echmiadzinv, Armenia.
Nella cucina del centro accoglienza profughi a Echmiadzin, Armenia. Foto Francesco Lorusso, 2024

Tornando nella grande sala ci aspetta Samvel con una signora appoggiata al pianoforte a cui si aggiunge il signore che guardava la televisione. Sono Arthur e sua moglie Anahit, in questo momento vivono qui assieme al loro unico figlio rimasto vivo, Maxim. Hanno perso gli altri due figli nello scoppio di un deposito di carburante nella capitale dell’Artsakh, Step’anakert da dove vengono. A Step’anakert dagli azeri i è stato cambiato il nome n Khankendi. Gestivano un piccolo bar ristorante e ora sperano, per poter continuare di poter lavorare di nuovo nella ristorazione.
Continua ad esser difficile avviare conversazioni, la lingua ci ostacola, e a questo sii aggiunge la nostra sensazione di essere di troppo. Trovare parole adeguate sembra un’impresa, più facile frapporre il mezzo fotografico. La macchina fotografica che un tempo mi sembrava un ostacolo quando si interponeva fra me e le persone qui mi sembra un’utile alleata.

Anahit nel centro accoglienza profughi a Echmiadzinv, Armenia.
Anahit nel centro accoglienza profughi a Echmiadzinv. Foto Francesco Lorusso, 2024

L’arrivo dei bambini crea un clima disteso, più sereno. Come spesso accade sembrano essere generatori di una nuova linfa vitale laddove questa sembrerebbe essere sparita. Quegli sguardi, quella furbizia, quella curiosità che solo i bambini sono in grado di esprimere hanno alleggerito la nostra posizione togliendo quella sensazione di essere di troppo. Prima di uscire assistiamo a frammenti di vita con un anziano seduto vicino alla porta che dialoga con tutti, alcuni signori intenti a sistemare lampadine e poi una famiglia con un bimbo piccolo che si fa scattare una foto.

Lasciamo la struttura con Samvel che ci accompagna alla cattedrale dove ci salutiamo.
Io e Gabriele usciamo emozionati, e solo la nostra condizione di turisti ci fa allevia per quello che abbiamo visto.
Tornando a Yerevan resto stupito, la vita sembra scorrere normale, nel centro i ristoranti sono pieni di gente allegra, sembra quasi che centoventimila profughi dell’Artsakh siano qualcosa di inesistente. Forse questa allegria a volte potrebbe essere un rimedio forzato per dimenticare il possibile pericolo di una guerra alle porte

Per qualche giorno cercheremo di fare esclusivamente i turisti, anche perché Teresa essendo impegnata nelle spedizioni di aiuti umanitari non ci ha ancora contattati. Osserviamo sorpresi quello che resta della vita sovietica, l’Armenia era parte dell’URSS fino al 21 settembre 1991 quando dichiarò la sua indipendenza. Affascinati da architetture scarne e dure che non lasciano nulla alla bellezza, ma che erano un prototipo di funzionalità estrema. Mercati, resti di statue di Lenin, vecchie fabbriche scorrono via come particolari visti solo nei film.

Yerevan, Armenia
Yerevan, Armenia. Foto Francesco Lorusso, 2024

Quando avevo perso le speranze di poter collaborare con Teresa, a un paio di giorni della partenza, tutto diventa frenetico. Teresa mi organizza due incontri con famiglie sfollate da Step’anakert, ci accompagnerà una sua amica, una professoressa universitaria che insegna italiano.
Una signora incantevole, Araksya che ci farà oltre che da traduttrice anche da guida e da supporto.
Su un taxi dopo un po’ di chiacchere sulle rispettive vite arriviamo in una zona periferica di Yerevan.

Yerevan, Armenia. A casa di Bella
Yerevan, Armenia. A casa di Bella. Foto Francesco Lorusso, 2024

Ci accoglie Bella, e entrando in questa casa scarna, la prima cosa che si nota sono tre grandi foto di militari sopra un buffet. Intorno fiori e candele. Un’atmosfera difficile da sostenere. I militari sono i suoi due fratelli, David 36 anni e Sasuntsi 32. Il terzo è il loro cugino. David è stato ucciso dallo scoppio del deposito di carburante il 19 settembre, mentre Sasuntsi e il cugino sono morti pochi giorni dopo per le ferite riportate nello scoppio.
Bella in Artsakh era un’infermiera del reparto di rianimazione e si tormenta perché il fratello e il cugino sono passati nel suo reparto e lei non li ha riconosciuti. Nella stanza arrivano i genitori e l’atmosfera diventa ancora più cupa.
L’aria è immobile, tutto è immobile noi nel mezzo di tutto questo.
Questa casa non ha niente di personale – a parte le foto – indicandone la loro condizione. Sento l’impulso di fuggire dal dolore che aleggia. Il dolore è dovunque: sulle pareti, nei respiri e nei sospiri, negli sguardi e dalla mancanza di luce negli occhi. Ecco gli occhi sembrano vuoti, non sembra esserci speranza.

Yerevan, Armenia. A casa di Bella
Bella. Foto Francesco Lorusso, 2024

Mi riscuoto come da un sonno profondo. Di colpo penso solo alle fotografie, con la mente esco dal loop che ha avvolto la stanza, più avanti avrei avuto modo di riordinare i pensieri e realizzare a fondo ciò a cui avevo assistito.
Ho imparato negli ultimi anni come non farmi travolgere dalle emozioni, ma è sempre difficile come in questo caso
Isolandomi mentalmente riesco a ottenere qualche scatto e fare qualche domanda.
Bella che ha trovato lavoro come infermiera si divide fra la casa dove aiuta i genitori anziani e la figlia ma non ha modo di poter distrarre la mente con una figlia da crescere e un lavoro in ospedale.
Ci confessa che non potrebbe più lavorare in terapia intensiva e che quindi lavora solo come infermiera generica
Il papà di Bella non ha detto una parola, la mamma Mariana piange continuamente e ripete che avrebbe dovuto essere lei a morire.
Non riusciamo a stare più dentro e salutando usciamo in silenzio.
Quello che mi colpisce ripensandoci sono le cose che non trovo in quegli spazi, il calore, gli oggetti, la personalizzazione degli spazi, la mancanza di profumi e odori. Solo pacchi e valige pieni di tutto quello che era la loro vita, sulle pareti un’immagine di una madonna, niente di più.
Gli oggetti nelle case raccontano le vite. Scappando hanno preso solo il necessario, lasciando pezzi della loro vita indietro. Hanno lasciato le case immediatamente per affrontare un viaggio lunghissimo.
Le guerre non generano solo morti, lasciano tragedie vive, dolori difficili da dimenticare e poi rabbia, rancori.
La scrittrice georgiana, Nino Haratischwili nel suo libro La luce che manca racconta la guerra civile nel suo paese e dice: «nel corso del tempo, questa logora valigia marrone, piena e nascosta sotto il letto, è diventata il simbolo degli eventi colossali, vulcanici che possono irrompere nella nostra vita da un giorno all’altro, devastando quello che abbiamo costruito in anni di duro lavoro».
Forse è quello che è successo alla famiglia di Bella.
Forse le famiglie in Artsakh avevano già pronte le valige, dato che il loro paese era ormai isolato dal dicembre 2022.

Una cena a casa di amici serve a lenire stati d’animo pesanti, sentire altri racconti serve a farci avere un’altra immagine della millenaria storia Armena.
Sentiamo storie sulla moschea blu, l’unica rimasta attiva a Yerevan, su luoghi che non conosciamo e che dovremmo, sulle differenze fra il cibo italiano e il cibo armeno. Una serata che ci riconcilia, Onik e la sua famiglia sono ospiti impeccabili e ci restituiscono un sorriso. L’indomani avremo un altro incontro.

Dopo una giornata turistica verso sera ci incontriamo di nuovo con Araksya.
Trovare un taxi all’ora di punta in un traffico infernale è un’impresa, quindi saliamo su un autobus, questo dovrebbe portarci nel quartiere dove abita la famiglia con cui Araksya sta tenendo i contatti.
Ci aspettano per le sette e mezza ma dopo un’ora di bus non abbiamo fatto neanche un centinaio di metri.
Sull’autobus io e Gabriele ci sentiamo quasi come marziani, non deve succedere spesso di vedere turisti su una linea che va in periferia. La fortuna ci viene in aiuto ancora una volta, una giovane ragazza salendo sul bus riconosce Araksya che era la sua insegnante di italiano e grazie a lei riusciamo a prenotare un taxi poche fermate più avanti.
Arriviamo a casa della famiglia che sono passate le otto e mezza.

Zara e Victoria
Zara e Victoria. Foto Francesco Lorusso, 2024

Ci accolgono due signore, sembrano sorelle. Invece alle presentazioni scopriamo che Zara è la mamma di Victoria.
Per casa ci sono due bambini, Ashot figlio di Zara e Menora figlia di Vicoria.
Anche questo appartamento è spartano e poco è lasciato alla bellezza. È un rifugio temporaneo e forse nessuno ci metterebbe il cuore. Alle pareti attaccate delle bambole. Non capisco il loro scopo ma onestamente le trovo inquietanti.
Anche loro vengono da Step’anakert dove con tutti i risparmi Zara aveva comprato una casa grande che accoglieva le due famiglie. Ora sono entrambe vedove, i loro mariti sono morti allo scoppio del deposito di carburante, e sono sepolti in città. Il figlio di Zara che ha circa sei anni e frequenta la prima elementare, non voleva venire via perché il papa è rimasto laggiù. Menora invece che ha due anni gira gioiosa per casa, è contenta della nostra presenza osserva divertita le fotografie che gli ho scattato per lei è quasi una festa.
In qualche maniera è una piccola festa, anche se arrivati tardi imbandiscono la tavola con biscotti, brioche, caffè e the.
L’atmosfera per quando dolorosa appare differente rispetto a casa di Bella, diverse sono le tragedie e poi i bambini costringono le due donne a reagire sempre a prescindere dai loro stati d’animo.
Menora è un polo di attrazione salta dovunque, mentre Ashot non vuole essere fotografato e appare triste.
Attualmente solo Zara sta lavorando, Menora è piccolina e quindi Victoria deve rimanere a casa a curarla. Lo stipendio di Zara ci dice equivale a circa duecentocinquanta euro al mese, e non basta neanche a pagare l’affitto che costa quattrocento euro circa al cambio attuale. Se non li aiutasse Teresa con l’associazione non potrebbero farcela. Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina molti russi sono scappati in Armenia e i prezzi – ci dicono – sono triplicati se non di più.
Prima – racconta Araksya – con uno stipendio medio si pagava l’affitto e si riusciva a risparmiare qualcosa, adesso tutto è cambiato. In questa periferia dove le case non sono diverse dalle altre periferie del mondo gli affitti costano cari.
Chissà quanti dei centoventimila fuggiti dall’Artsakh sono rimasti fuori dei radar, senza aiuti e supporti.
Zara ci dice che la loro casa sembra essere stata occupata e a loro non rimane nulla, lei ci aveva investito tutti i risparmi perché quello era il sogno della sua vita. Zara ha altri due figli che adesso sono lontani da Yerevan.
Penso a Victoria, praticamente una ragazzina, in Italia sarebbe nel pieno della sua vita, studi, amici, amori e aperitivi e invece si ritrova vedova senza un lavoro e con una figlia piccola da crescere.
Con i nostri pensieri, con le nostre domande senza risposta lasciamo le due signore, possiamo augurarci che la vita le riservi qualche rivincita, sono due belle persone. Hanno un carico di sofferenza che probabilmente noi occidentali potremmo non provare per diverse vite, e mi viene in mente spesso il pensiero che la fortuna inizia o scompare a seconda di dove nasci.

Siamo alla partenza, lasciamo Yerevan con un carico di sensazioni ancora non completamente svelate.
Mentre andiamo in aeroporto Teresa ci messaggia dicendoci che le due signore sono state felici della nostra visita, che abbiamo portato loro un portato un pizzico di spensieratezza. Questo in parte risponde ad alcuni dubbi che mi assillavano.
Il nostro viaggio e quindi le nostre visite servivano realmente oppure era solo voyerismo da parte mia?
Credo, dopo avere avuto molti ringraziamenti per l’interessamento, che la mia volontà di farci un lavoro finalizzato a raccontare quello che succede ai profughi sia importante.
Lo vorrei portare avanti.
Questo lavoro mi ha fatto sentire bene, raccontare mi apre il cuore.
È stato come ricevere uno schiaffo. Ascoltare i racconti di guerra dalle persone non è come leggerle sui giornali o sentirle nei telegiornali.
Quando il dolore è di fronte a te cambia tutto.
Io so fare fotografia e penso che ognuno debba fare qualcosa dove riesce meglio, ecco io vorrei fare questo e se ci saranno le condizioni cercherò di continuare a raccontare.
Mi rendo conto che guardando gli scatti realizzati non c’è nulla che permetta allo spettatore di distogliere lo sguardo dall’essenza delle storie che le persone hanno condiviso.
È come se per questi racconti il mio sguardo di fotografo avesse dimenticato la ricerca di tutti quegli elementi che hanno caratterizzato il mio modo di ritrarre il mondo.
Tutto è stato essenziale, non c’è stato spazio per l’estetica fine a se stessa.

In questi giorni ho scambiato dei saluti con Araksya, e lei mi scrive che questi incontri non potrà dimenticarli e che cercherà di mantenere i contatti con queste famiglie.
Sono d’accordo con lei e credo che sia importante creare reti e connessioni.

A distanza di quindici giorni ho ancora i brividi nel raccontare questo.
Quello che resta impresso nella mia mente è quella luce che manca nei loro occhi, solo Menora mi sembra possederla ancora.
Soprattutto spero, che le Menora dell’Armenia siano la futura speranza.

Francesco Lorusso

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Armeni, il primo genocidio: serata di approfondimento a Cusano Milanino (Quindicinews 15.03.24)

L’Assessorato alla Cultura di Cusano Milanino, in collaborazione con l’Associazione Insieme per Cusano Milanino, propone la rassegna “LA STORIA CENSURATA“, un ciclo di incontri di approfondimento di eventi storici che, per varie ragioni di ordine politico, economico, sociale, sono stati censurati e rimossi dalla memoria storica.

giovedì 4 aprile 2024 – ore 21,00

Armeni. Il primo genocidio (in occasione della Giornata mondiale per il ricordo del genocidio armeno – 24 aprile)
Relatori: Aldo Ferrari, Professore ordinario di Lingua e letterature armena, Storia del Caucaso e Storia della cultura russa, Università Ca’ Foscari di Venezia e Marina Marvian Presidente Casa Armena Hay Dun – Milano.

Nel corso della serata, sarà visitabile anche la mostra a tema realizzata nell’ambito del progetto “Sulla strada della memoria” con la collaborazione di Casa Armena Hay Dun – Milano,

DOVE:
Municipio – Sala consigliare “Walter Tobagi” – Piazza Martiri di Tienanmen, 1

Ingresso libero

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Il supporto di Croce Rossa Italiana all’Armenia (Ilgiornaledellaprotezionecivile 15.03.24)

Sinergie strategiche tra gli attori del “Sistema Italia”: il modello di intervento della Cooperazione Internazionale Cri

La Croce Rossa Italiana si distingue come un’organizzazione intrinsecamente legata alla Cooperazione Internazionale, che gioca un ruolo fondamentale nel contesto globale degli interventi umanitari. La sua presenza è un pilastro del cosiddetto Sistema Italia, un complesso tessuto di fattori politici, istituzionali ed economici che contribuiscono allo sviluppo e alla proiezione dell’Italia nel mondo.

Il contributo per la crisi dei rifugiati in Armenia
Uno degli esempi più tangibili di questa sinergia è rappresentato dal tempestivo sostegno fornito dal Governo italiano e dalla Croce Rossa Italiana (Cri) all’Emergency Appeal durante la crisi dei rifugiati del Nagorno-Karabakh in Armenia. In seguito agli eventi drammatici che hanno colpito la regione, il Governo italiano si è distinto come uno dei primi contributori a rispondere all’appello lanciato dall’ONU e dalla Federazione Internazionale delle Società della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa (IFRC), grazie anche alla forte sinergia e il coordinamento con la CRI. Questo impegno tempestivo e significativo ha dimostrato il forte senso di solidarietà e impegno umanitario dell’Italia verso le popolazioni colpite. L’impegno della Croce Rossa Italiana in Armenia è un esempio eloquente delle sue molteplici attività all’estero e del suo impegno a fianco delle altre Società Nazionali di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa nel Caucaso (Croce Rossa georgiana e Mezzaluna Rossa azera). Queste comprendono interventi medici d’urgenza, forniture di generi alimentari e supporto psicologico alle comunità colpite.

Inoltre, Croce Rossa Italiana, in questo costante sforzo di creare sinergie anche con altri soggetti italiani operanti all’estero, collabora anche con realtà private definendo nuove partnership che stanno diventando un pilastro nell’ambito della Cooperazione Internazionale e nella definizione di interventi di medio-lungo periodo soprattutto nel settore dell’inclusione sociale e protezione dei più vulnerabili. Attraverso collaborazioni strategiche con aziende e organizzazioni, infatti, la CRI è in grado di ampliare significativamente l’impatto e la portata delle iniziative a cui contribuisce. Il coinvolgimento del mondo profit integra competenze e risorse, consentendo di affrontare in modo più efficace le sfide complesse che caratterizzano le aree di intervento.

Gli Smiley Clubs
Grazie al supporto di realtà private, in Armenia la Cooperazione della Croce Rossa Italiana ha assunto un ruolo chiave nel supporto ai centri di assistenza per bambini e ragazzi in età scolare. Parliamo dei cosiddetti Smiley Clubs, un’iniziativa nata per supportare bambini e bambine scappati dalle comunità colpite dal conflitto del Nagorno–Karabakh. Grazie a questo progetto, questi bambini possono avere uno spazio sicuro dove stare dopo la scuola e avere la possibilità di fare attività quali arte terapia, potenziamento della lingua inglese oltre che attività ricreative e sociali. Questo progetto completa gli interventi che da anni la Croce Rossa Italiana supporta in Armenia, proprio in ambito di protezione e inclusione sociale.

Le sinergie create da queste collaborazioni sono tangibili e significative. Non solo consentono di migliorare concretamente la qualità della vita delle persone, ma anche di promuovere lo sviluppo sociale ed educativo delle future generazioni. L’apporto delle aziende partner non si limita al supporto finanziario, ma si estende anche alla condivisione di conoscenze, competenze e risorse tecniche, creando un circolo virtuoso di reciprocità e mutualismo.

Questa costante interazione tra la Croce Rossa Italiana, il governo e il settore privato riflette un approccio olistico alla cooperazione internazionale, che sottolinea l’importanza della collaborazione tra attori diversi per affrontare le sfide globali. Il risultato è un modello di intervento che non solo fornisce assistenza immediata nelle emergenze, ma contribuisce anche allo sviluppo sostenibile e alla resilienza delle comunità nel lungo periodo.

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SUPPORTO CRI ALL’ARMENIA TRA EMERGENZE E PROGETTI DI MEDIO-LUNGO PERIODO (Cri.it)

Scambio culturale in Armenia sull’utilizzo dei media digitali 10 al 19 Maggio 2024 (Scambieuropei 15.03.24)

Dove: Yerevan (Armenia)

Quando: dal 10 al 19 Maggio 2024

Titolo del progetto: “Youth Digital Media Literacy Lab”

Chi: 7 partecipanti (18-27 anni anni)

Descrizione del progetto

L’associazione Europalmente ricerca giovani italiani o residenti in Italia interessati a prendere parte ad uno Scambio culturale in Armenia sui media digitali dal 10 al 19 Maggio 2024. Il progetto è uno youth exchange articolato in due fasi, con l’obiettivo principale di promuovere un ambiente di apprendimento in cui i giovani possano unire la conoscenza digitale e metodologie basate sull’educazione non formale.

I media digitali sono lo strumento più ampiamente utilizzato dai giovani al giorno d’oggi per partecipare alla vita sociale, culturale, civica e politica delle loro società. Creare e diffondere media digitali è diventato una parte regolare della comunicazione tra i giovani e tra i giovani e il mondo più ampio. I giovani utilizzano la creazione di contenuti, la pubblicazione, la condivisione, il collegamento, la ricerca e altre funzionalità dei media online per esplorare informazioni, perseguire i propri interessi, connettersi con gli altri, risolvere problemi rilevanti per la loro vita e esprimersi.

È sempre più cruciale per i giovani imparare la letteratura sui media digitali poiché consente loro di utilizzare tecnologie digitali, strumenti e internet in modo efficace. Man mano che i giovani sviluppano le loro competenze di alfabetizzazione digitale, diventano migliori nel sapere cosa stanno cercando, quali informazioni sono credibili e cosa è falso, e come differenziare tra contenuti preziosi e inutili. I giovani diventano più abili nel giudicare tra diverse fonti di informazione online e nel mettere in discussione i contenuti che leggono.

Il processo di apprendimento dell’alfabetizzazione sui media digitali contribuisce anche allo sviluppo del pensiero critico e della creatività.

Obiettivi del progetto

Il progetto Youth Exchange “Youth Digital Media Literacy Lab”, diviso in due fasi, mira a creare un ambiente di apprendimento in cui i giovani migliorano la loro capacità di utilizzare in modo creativo e sicuro internet, tecnologie dell’informazione e della comunicazione e media digitali per sostenere lo sviluppo della capacità giovanile di coinvolgimento civico efficace che favorisce l’inclusione dei giovani.

Metodologia

I partecipanti implementeranno sessioni teorico-pratiche utilizzando le varie risorse messe a disposizione dai trainer, attraverso metodi di apprendimento non formali (laboratori, giochi di ruolo, learning-by-doing, dibattiti), attività ricreative.

Accomodation

I partecipanti alloggeranno presso una struttura nei pressi del centro di Yerevan in camere da 4/5 persone. La struttura è molto base. Precisiamo che i pasti sono molto spartani forniti da un catering esterno.

Destinatari

  • Giovani tra i 18 ed i 27 anni persone motivate che lavorano o si relazionano con i giovani
  • Persone motivate che lavorano o si relazionano con i giovani
  • Persone desiderosi di acquisire competenze di facilitazione in grado di implementare le competenze, conoscenze e attitudini acquisite durante la formazione
  • In grado di implementare le competenze, conoscenze e attitudini acquisite durante la formazione
  • interesse verso il topic del progetto
  • Pronti a prendere parte all’intero progetto
  • Con conoscenza della lingua inglese per poter comunicare
  • Disposti a inviare delle foto a fine progetto che ci consentano di avere una dissemination

Lingua del progetto

La lingua di lavoro è l’inglese

Maggiori informazioni

COSA SONO GLI SCAMBI CULTURALI/TRAINING COURSE

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Comunicare le comunità. La forza dell’esilio degli Armeni di Trieste (Triesteallnews 14.03.24)

14.03.2024 – 07.30 – La comunità armena di Trieste si formò, nel tardo settecento, dalla felice congiunzione dell’elemento religioso costituito dai padri mechitaristi armeni e dell’elemento laico ‘delli negozianti esteri‘ ovvero dei mercanti stranieri attirati dalle possibilità del Porto Franco di Maria Teresa e Giuseppe II. Una storia, quella della comunità armena, intrecciata all’esilio; dall’Istanbul del Sultano, dalle terre flagellate dai pogrom, dalla Turchia del genocidio del 1915. La Trieste moderna pertanto quale luogo di rifugio, di accogliente nuova patria dove ricominciare. Una filiazione che trapela nascosta dai nomi delle vie e delle piazze: Giustinelli, Ciamician, Ananian, Zingirian… Una piccola Armenia il cui cuore, sul colle di san Vito, batte nella chiesa ottocentesca della Beata Vergine delle Grazie.
Adriana Hovhannessian, vicepresidente dell’associazione AraraTS, ha tratteggiato il quadro odierno della comunità armena triestina. Un’occasione per approfondire una comunità meno nota a confronto coi serbi o i greco-ortodossi, ma la cui eredità culturale permea la Trieste otto-novecentesca.

Come definirebbe, allo stadio attuale, la comunità armena di Trieste? Quali sono le sue principali caratteristiche? 

La comunità armena conta attualmente una decina di membri; a cui si aggregano cittadini armeni di passaggio, spesso di transito.
Nel 2001 facevamo parte quale frangia triestina dell’associazione Zizernak che ha sede in Friuli; il suo centro è a Pasian di Prato dove vi è l’amico Daniel Temresian.
Tuttavia, tanto per motivi organizzativi, quanto e soprattutto per la diversa origine, ci siamo poi separati, anche se i rapporti restano ottimi.
Noi di Trieste infatti siamo i figli, i nipoti, i pronipoti degli Armeni che fuggirono in Italia post genocidio, tra il 1916 e il 1920 circa. La nostra comunità, anche se affonda le sue radici nella presenza armena a Trieste tra settecento e ottocento, è una comunità di esuli.
I miei nonni, ad esempio, fuggirono da İzmit, l’antica Nicomedia, negli anni Venti del novecento; la sorella del nonno paterno, la zia Arousiak, aveva il marito che, quale commerciante di tabacco, viaggiava spesso per lavoro e aveva trovato impiego proprio nella Manifattura Tabacchi di Trieste situata nell’odierno Porto Vecchio.
Nel 1923 giunse mio nonno; nel 1924 la sua fidanzata, la mia futura nonna. Fu proprio a Trieste che si sposarono, nel 1926. Tutti noi, oggigiorno, abbiamo nonni o bisnonni che si conoscevano vicendevolmente; pertanto ci conosciamo e ci sentiamo come un’unica grande famiglia.
Quando eravamo parte di Zizernak, per quanto l’amicizia con l’associazione rimanga forte, ci sentivamo comunque diversi, sentivamo l’esigenza di avere una nostra comunità.
La minoranza friulana annovera armeni dall’Armenia, i quali giungono in Italia per motivi lavorativi; è una diversa provenienza; noi, (anzi i nostri nonni e genitori) invece proveniamo da Istanbul e in generale dalla Turchia post genocidio.

Se la comunità greca e serbo ortodossa vengono associate solitamente al quartiere Teresiano e al Ponterosso, qual è invece il ‘luogo’ della comunità armena?

Si può legittimamente parlare di ‘colle armeno’ per quanto concerne la zona di san Vito; la chiesa e i cinque edifici armeni di Aidinyan formano un insieme coeso che si rispecchia nella toponomastica locale. C’è infatti la zona dei Santi Martiri, zona di possedimenti armeni; via Giustinelli, italianizzazione di Artarian (Artar, significa “giusto”; ian invece è il patronimico per ‘figlio di’); Hermet, italianizzazione di Hermetian, la cui famiglia era originaria dalla Persia. E non dimentichiamo la via G. Ciamician che ricorda il grande chimico noto a livello europeo e primo Senatore del regno italiano nel 1922.

A questo proposito quali erano invece i negozi della comunità? 

Spostandosi nella zona di Viale XX Settembre vi è ancora il negozio di ottica Zingirian; quando la famiglia ha venduto il negozio ha posto la clausola che vi rimanesse il nome originale. Roberto Zingirian stesso è nostro socio, anche se pratica una differente professione. All’interno è possibile ammirare una mattonella con un pater noster scritto in lingua armena.
Molti degli esuli di un tempo erano commercianti, imprenditori, ottici… Ad esempio mio nonno aveva gestito la pasticceria armena di via Mazzini; a suo tempo mio padre mi aveva raccontato di come i greci e in generale i levantini si ritrovassero nella pasticceria, era un punto d’incontro, ci sentivamo ‘diversi’ rispetto alla città. Ognuno, all’epoca, parlava in armeno, in turco, in greco. Era, se vogliamo, uno specchio della multiculturalità di Trieste.

Qual è la storia e la situazione odierna della chiesa armena? 

La chiesa, costruita a metà ottocento, era visitata spesso la domenica dall’arciduca Massimiliano che risiedeva presso Villa Lazarovich, in via Tigor. Si compone di una navata centrale, una facciata rivolta verso il mare e due ali con degli appartamenti. Un tempo vi era accanto il reale Ginnasio, il primo in lingua italiana di Trieste. L’entrata non era da via Giustinelli, ma dal fronte mare; al di sotto vi erano dei pastini che delimitavano la zona.

Noi, come associazione, avevamo organizzato tante iniziative, fino a quando la chiesa era agibile; sicuramente fino al 2004.
La chiesa, di proprietà della Congregazione armena mechitarista di Venezia, era stata data in affitto alla comunità cattolica di lingua tedesca fino al 2008. In seguito, a causa di alcune ri-organizzazioni interne della comunità, i tedeschi si erano trasferiti altrove.
Occorre a questo proposito precisare che l’organo Rieger di Julius Jugy, tutt’oggi presente all’interno, è di nostra proprietà: fu lo stesso Kugy a donarlo ai padri Mechitaristi nell’ottocento, vi è un atto specifico al riguardo.
Vi erano stati rilevanti problemi strutturali già prima che la chiesa venisse abbandonata dai cattolici tedeschi; successivamente le problematiche relative al recupero si sono aggravate. Attualmente la chiesa, all’interno, è in stato di degrado; non avrebbe senso visitarla fino a quando non verrà restaurata integralmente.

Qual è la situazione a proposito del restauro della chiesa? 

Noi, quale comunità di Trieste, siamo attivi da anni nel recupero della struttura, lo sforzo continua tutt’oggi. Alcuni anni fa avevamo coinvolto la Regione FVG e la Soprintendenza; all’epoca vi era la Giunta Serracchiani, con l’assessore Torrenti.
Il primo stanziamento era stato utilizzato per la messa in sicurezza delle torre campanarie e di alcune parti del tetto. Successivamente un finanziamento della CRT era stato utilizzato per sanare l’accesso alla chiesa e al comprensorio da via Giustinelli.
Noi, come AraraTs, ci stiamo impegnando insieme alla Congregazione armena mechitarista, affinchè la chiesa venga restaurata e sia nuovamente agibile e visitabile per i triestini e visitatori in cerca delle origini degli Armeni a Trieste.

Permane ancora un senso del ‘religioso’ nella minoranza armena triestina? 

Per alcuni sì, per alcuni meno nella nostra comunità; così come ovunque oggigiorno. In generale il cristianesimo è sempre stato un elemento di aggregazione; siamo fieri di essere stati il primo stato a introdurre il cristianesimo, prima dell’editto di Costantino.
Noi abbiamo ancora i contatti coi padri mechitaristi a Vienna; il riferimento per Trieste rimane però Venezia.

Quali sono le principali attività della comunità armena e dell’associazione AraraTS?

Il nome ‘gioca’ con il nome del monte sacro alla nazione armena, l’Ararat. Si tratta di un Comitato per la promozione e la diffusione della cultura armena attraverso molteplici attività.
Il nostro scopo è promuovere, mantenere, diffondere, ma soprattutto far conoscere il ruolo di Trieste come crocevia di passaggio. Il mantenimento del patrimonio culturale, questa è l’eredità che abbiamo.

Quali attività culturali avevate svolto negli ultimi anni? 

Nel 2015, nell’occasione dei cent’anni dal genocidio, avevamo organizzato diverse commemorazioni anche a Trieste; all’epoca, con Zizernak, avevamo allestito una mostra fotografica dedicata ad Armin Theophil Wegner, l’ufficiale tedesco di stanzia in Turchia che aveva trafugato di nascosto i rullini che testimoniavano il genocidio in corso.
Dopo questa prima esposizione, all’odierna biblioteca statale Stelio Crise, avevamo allestito una mostra dedicata al fotografo armeno Leon (Leovan) Boyadjian, in arte noto come “Van Leo” al castello di San Giusto.
Nell’ambito delle conferenze avevo trattato, al caffè Tommaseo, la vita di Giacomo Ciamician; non solo come grande chimico e teorizzatore dell’energia solare, ma anche quale triestino fiero della sua eredità armena, al di là del suo patriottismo verso la nazione italiana. Non a caso quando venne nominato il primo senatore triestino del regno d’Italia chiarì fin dall’inizio che si sarebbe occupato di cultura, di università, ma senza parteggiare per nessun partito. Nell’occasione vi era stato anche un amico armeno da Padova con il ‘duduk’, il tipico strumento musicale armeno.
Tra i grandi successi ricordo in particolare una serata con balli e musica tipiche grazie alla presenza dall’Armenia della giovane Piruza Nazaryan, esperta di danze armene.

A seguito della frattura del Covid-19, abbiamo davvero faticato a riprendere. Avevamo programmato un concerto a marzo 2020 nella Piccola Fenice, ma naturalmente tutto saltò a causa della pandemia.

L’ostacolo maggiore rimane la mancanza di una sede fissa, di una sala per gli eventi. Inoltre, a confronto con altre comunità triestine, degli Armeni si continua a sapere fin troppo poco. Vi sono ragioni per tutto ciò; storiche, culturali, sociali e così via.

Qual è, dalla prospettiva di un triestino, la situazione degli armeni nel mondo?

Guardando all’Italia la comunità più numerosa è a Roma; a Bari c’è il centro Hrand Nazariantz; a Milano la Casa Armena; a Padova l’associazione Italia-Armenia. Siamo un po’ sparsi per l’Italia, anche se naturalmente il cuore rimane Venezia con l’isola di San Lazzaro e il Collegio armeno.
Siamo invece 7 milioni nel mondo, con una grande comunità in Francia e in California; ad esempio parecchi anni fa il governatore dello stato della California era un armeno. Anche a qui a Trieste vi sono alla SISSA diversi scienziati armeni provenienti dall’Armenia.

Gli Armeni non sono mai stati endogamici, sono sempre stati aperti come comunità; naturalmente l’apertura introduce il rischio che si smarrisca la propria lingua e identità originaria.

[Adriana Hovhannessian è la vicepresidente del Comitato per la Promozione della cultura armena AraraTS di Trieste. Dopo una laurea in Lettere Classiche presso l’Università degli studi di Trieste (UniTS) e un diploma in Scienze religiose presso il Seminario Vescovile, ha approfondito la passione verso le proprie origini armene a Venezia. Nell’occasione ha sostenuto 7 esami di Lingua armena al termine dei Corsi intensivi di Lingua e Letteratura Armena in collaborazione con l’Università Cà Foscari.
Coloro che desiderassero collaborare o chiedere informazioni all’associazione armena AraraTS possono scrivere a comitato.ararats@gmail.com]

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Il regime azero si fa bello ospitando tre parlamentari italiani (L’Espresso 14.03.24)

In occasione del voto che ha assegnato il quinto mandato al presidente Aliyev, il Comitato elettorale ha ospitato Caita e Di Giuseppe di Fratelli d’Italia e Gruppioni di Italia Viva: tutti entusiasti della grande prova di democrazia di Baku. Al governo di Roma conviene non disturbare troppo l’Azerbaigian che ci vende gas e petrolio

Questa è esemplare per una lezione italiana di realpolitik. Siccome l’Azerbaigian ci sfama col metano venduto a buon prezzo, non appassiona per nulla concionare sui diritti umani, civili, sociali del popolo azero oppure sui profughi armeni estirpati dal Nagorno Karabakh. Quando non conviene, è meglio soprassedere con i princìpi morali. Perché Roma è assidua cliente di Baku. Le condizioni sono politiche, più che di contratto. Le proteste sono mal tollerate. Il composto silenzio è assai gradito. Però le lusinghe – ah, le lusinghe – gratificano il regime azero. Come quelle di un terzetto di parlamentari italiani che ha accettato l’invito in Azerbaigian per monitorare le elezioni presidenziali straordinarie convocate il sette febbraio da Ilham Aliyev per attribuirsi il quinto mandato. Si tratta dei deputati Salvatore Caiata e Andrea Di Giuseppe di Fratelli d’Italia e Naike Gruppioni di Italia Viva. Illustri ospiti del governo di Baku che, ha ricostruito L’Espresso, sono tornati in Italia con un carico di entusiasmo e magari di preziosi insegnamenti. A differenza dei colleghi europei che hanno visitato i seggi azeri per l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce) e hanno riscontrato un voto senza concorrenza, senza oppositori, senza giornalisti. Non libero.

 

La coppia patriota Di Giuseppe e Caiata, più Gruppioni, membri della commissione Esteri, ha trascorso a Baku tre giorni abbastanza faticosi: partenza il 6 febbraio; il 7 perlustrazioni ai seggi; l’8 incontro con Sahiba Gafarova, presidente dell’assemblea parlamentare; il 9 ritorno in Italia dopo patinate conferenze stampa. Ciascuno ha raccontato ai media azeri un aspetto della formativa esperienza. Gruppioni ha notato la partecipazione spontanea: «Vorrei che in altri Paesi del mondo fossero interessati alle elezioni come in Azerbaigian». Di Giuseppe ha apprezzato la mobilitazione dei ragazzi: «Ho incontrato molti giovani, un fatto positivo e in controtendenza rispetto all’Italia e all’Europa, dove sono restii a votare. Sono segnali importanti in un processo democratico. Nel nostro Paese dobbiamo fare riscoprire alla gente l’amore per la politica e riportarla a votare». Il meno loquace Caiata ha elogiato la «trasparenza».

 

 

Ormai l’Azerbaigian, ex Repubblica sovietica con legami sempre più avvolgenti con la Russia, è il secondo fornitore di metano per l’Italia. In classifica segue la più vicina Algeria, altro preclaro campione di democrazia. Algeri e Baku hanno rimpiazzato Mosca. Vladimir Putin ha soddisfatto per vent’anni il fabbisogno energetico di Roma e di fatto l’ha sottomessa con la serena complicità dei governi italiani. Il consumo di metano s’è ridotto lo scorso anno calando a 61,5 miliardi di metri cubi. Era già successo una decina di anni fa. Per fattori produttivi e climatici. Nonché per i costi alti che inducono le famiglie a risparmiare. A ogni modo, e nonostante le variazioni di consumo, nel 2023 il gasdotto Tap ha trasportato sulle coste del Salento circa 9,2 miliardi di metri cubi di metano azero. Oltre il dieci per cento dei rifornimenti annuali. La bilancia commerciale fra Roma e Baku non pende verso Baku: è piegata su Baku. Roma esporta merci per 400 milioni di euro e ne importa, soprattutto metano e pure petrolio, per circa 12 miliardi: erano 20 nel 2022 per l’inflazione, attorno a 9 nel 2021, una media di 5 in precedenza. L’apporto di Roma è fondamentale per il prodotto interno lordo di Baku che è di 50 miliardi di euro. Per riequilibrare una relazione economica che potrebbe imbarazzare, il governo Meloni cede volentieri un tipo di prodotto che i regimi poco democratici o per niente democratici reclamano con insistenza: armi. A giugno Roma ha venduto a Baku un C27J Spartan, aereo per il trasporto tattico di Leonardo. Qualche decina di milioni di euro. Un bel segnale per la promettente cooperazione nel settore Difesa agevolata da un viaggio nel gennaio 2023 del ministro Guido Crosetto. A settembre l’esercito azero, però, ha ripreso a martellare il territorio conteso del Nagorno Karabakh e dunque la martoriata popolazione armena della defunta Repubblica dell’Artsakh.

 

Il secolare conflitto è finito con la resa degli armeni e decine di migliaia di profughi. La risoluzione del Parlamento europeo (4 ottobre 2023) ha parlato di «pulizia etnica»: «Deploriamo il numero di morti e feriti causato dal recente attacco a opera dell’Azerbaigian, esprimiamo solidarietà agli armeni del Nagorno Karabakh che sono stati costretti ad abbandonare le loro case e le loro terre ancestrali; riteniamo che la situazione attuale equivalga a una pulizia etnica». Per capitalizzare la vittoria issando la bandiera azera nel Nagorno Karabakh, il presidente Aliyev ha indetto elezioni anticipate per ottenere il quinto mandato consecutivo e restare al potere almeno sino al 2031. Aliyev è subentrato vent’anni fa al padre Heydar, figura di assoluto rilievo ai tempi dell’Unione Sovietica e poi fondatore dell’Azerbaigian indipendente. Con la repressione del dissenso, gli arresti dei giornalisti e una competizione farsesca, Aliyev ha trionfato col 92 per cento dei voti e un’affluenza del 76 per cento. Che i capi siano dittatori o autocrati, ai regimi non democratici la supponenza occidentale non piace più. Così il Comitato elettorale centrale, non proprio un organismo imparziale, ha allestito il suo controcanto. Ha portato a Baku “osservatori” di chiara provenienza democratica e li ha mostrati alla popolazione con interviste e dichiarazioni amplificate dall’agenzia di stampa statale Apa. Per l’Italia bastava scegliere. Il gruppo di amicizia interparlamentare è parecchio attivo e lo presiede Marco Scurria (FdI) che in passato è andato a Baku a celebrare i cent’anni dalla nascita di Heydar Aliyev con Ettore Rosato (Iv) e Giulio Terzi, ex ministro degli Esteri con Mario Monti diventato politico con Giorgia Meloni. I tre parlamentari Caiata, Di Giuseppe e Gruppioni si sono definiti «osservatori». In nome e per conto di chi? Non erano col gruppo Osce, peraltro composto da sei italiani, quattro deputati e due senatori di estrazione mista. Di Giuseppe e Gruppioni sono risultati assenti per la Camera, mentre Caiata in missione per Ince, l’Iniziativa Centro Europeo. L’Espresso ha contattato i tre parlamentari. Di Giuseppe ha spiegato di aver assolto anche il suo ruolo di presidente del Comitato per il Commercio internazionale. La sua vicepresidente Gruppioni ha precisato di avere riportato ciò che ha visto, nessuna rielaborazione, nessuna opinione. Una sorta di asettica cronista. Caiata non ha risposto. Evidentemente il modello azero l’ha incuriosito parecchio. E lo sta provando.

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Dall’Armenia una campagna elettorale contro Putin: la storia dell’attivista russo Yuri Alekseyev (Euronews 14.03.24)

L’attivista russo Yuri Alekseyev ha lanciato una campagna elettorale contro il presidente Putin dall’Armenia. Costretto a lasciare la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, a causa della dura repressione dei critici della guerra, ora protesta davanti all’ambasciata russa a Yerevan

Prima dell’invasione su larga scala dell’Ucraina, Yuri Alekseyev viveva in una capanna nella foresta, in Russia. Appena saputo dello scoppio del conflitto Yuri ha esposto uno striscione che recitava “No alla guerra”. Le autorità russe lo hanno arrestato e dopo 15 giorni di carcere ha capito che sarebbe stato costretto a lasciare il Paese per evitare di venire mandato in prigione per periodi più lunghi.

Ora Yuri ha deciso di portare avanti la sua protesta dall’Armenia, dove si è trasferito nel maggio del 2022. Con le elezioni presidenziali alle porte in Russia, lo si può spesso vedere davanti all’ambasciata di Mosca a Yerevan, la capitale armena, invitare le persone a votare contro Putin mentre impugna un cartello con su scritto “Sono russo, Putin è un assassino”.

In Russia chi esprime il proprio dissenso e protesta pubblicamente contro la guerra è represso dalle autorità. Le persone che usano il termine “guerra” piuttosto che la denominazione scelta dal Cremlino, “operazione speciale”, rischiano di finire in prigione.

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Sovvenzioni per i comuni armeni che accolgono i rifugiati: invito a presentare progetti (Consiglio d’Europa 14.03.24)

Il Congresso dei poteri locali e regionali, in linea con il suo impegno a sostenere gli armeni del Karabakh e la sua “disponibilità a fornire assistenza, utilizzando tutti gli strumenti statutari, di cooperazione e politici a sua disposizione” (Dichiarazione 7 (2023)), ha lanciato uno schema di sovvenzioni per sostenere i comuni che accolgono i rifugiati dal Karabakh in Armenia.

Attraverso un progetto attuato dal Centro di competenza per il buon governo nel quadro del Piano d’azione del Consiglio d’Europa per l’Armenia 2023-2026, le autorità locali armene possono richiedere delle sovvenzioni per attuare progetti che creino resilienza e rispondano alle loro esigenze urgenti e di medio termine a sostegno dei rifugiati, assicurando protezione per i loro diritti umani e superando le sfide associate all’istruzione, a un rifugio e all’alloggio, ai servizi sociali, all’impiego e all’integrazione.

La scadenza per la presentazione delle candidature è il 12 aprile 2024. Ulteriori dettagli sono disponibili sulla pagina web dell’Ufficio del Consiglio d’Europa a Erevan.

La Shoah è unica, ma dagli armeni ai curdi la storia di un secolo è costellata di stermini (Il Giornale 14.03.24)

«Genocidio», «Shoah» e «Olocausto» e sono tre esempi di parole o espressioni che ormai svolazzano iperleggere, sradicate, intercambiabili, svuotate di peso culturale e storico, voci qualsiasi in un parolaio senza chiaroscuri in cui è calata la comunicazione globale. Persino Liliana Segre, forse perché pressata dai giornalisti, l’altro giorno ha confuso l’unicità della Shoah e dell’Olocausto (i sei milioni di ebrei trucidati dalla Germania nazista) con la categoria storica del genocidio, inteso come volontà di distruggere fisicamente e completamente un gruppo etnico e di farlo sparire anche sotto il profilo culturale.

Fu un genocidio, per esempio, anche quello dei serbi contro i musulmani bosniaci, fu un genocidio quello del Ruanda, della Cambogia di Pol Pot, mentre incredibilmente, non lontano dall’Italia, c’è ancora chi pratica del negazionismo sul genocidio dei turchi contro gli armeni: il primo genocidio del Novecento, appunto, è stato quello degli armeni, quando nel 1915, in piena Guerra mondiale, la Turchia ne fece deportare un milione e mezzo nella lontana Anatolia, dove furono affamati, violentati, decapitati e impalati; stiamo parlando del quaranta per cento della popolazione armena massacrata nel corso di poche settimane.

Adolf Hitler, com’è accertato, prefigurò lo sterminio degli ebrei ispirandosi a quello degli armeni; in un suo celebre discorso del 22 agosto 1939 disse che nell’invadere la Polonia occorreva massacrare «uomini e donne e bambini» senza preoccuparsi di conseguenze future: del resto, si chiese, «chi si ricorda, oggi, dei massacri degli armeni?».

Ottima domanda che, anche a livello storico, ha talvolta prodotto un penosissimo conflitto tra genocidi. Il genocidio degli armeni manca dai libri di scuola turchi, ovviamente, ma anche da quelli tedeschi: questioni diplomatiche. Il quotidiano tedesco Die Welt diede notizia che il Brandeburgo aveva deciso di eliminare ogni riferimento ai massacri ottomani ed era rimasto l’ultimo stato tedesco a parlarne in un testo scolastico; secondo Die Welt, era la conseguenza di pressioni esercitate da Ankara. Non meno triste che il negazionismo turco, a lungo, sia andato a braccetto con quella parte del mondo ebraico ben decisa a sostenere l’unicità dell’Olocausto: Elie Wiesel e le più importanti organizzazioni ebraiche si ritirarono da un convegno internazionale giacché i suoi organizzatori avevano incluso anche il caso armeno nel programma. Nel gigantesco Holocaust Memorial di Washington, per pressioni turche e israeliane, ogni riferimento agli armeni era stato eliminato. Ma c’è anche un’altra realtà, per fortuna: ci sono studi e seminari anche israeliani dove i genocidi non vengono messi in contrapposizione bensì analizzati in parallelo; il vice-ministro degli esteri israeliano Iosi Beilli, in Parlamento, nel 1994, affermò che lo sterminio degli armeni era stato un genocidio punto e basta. In Italia, in compenso, abbiamo avuto l’Unità: nell’ottobre 2006 si scagliò contro la legge francese che tutelava gli armeni in quanto «finisce per relativizzare l’unicità dell’Olocausto». Ancora nell’aprile 2015, una conosciuta giornalista dell”Huffington Post raccontò il governo Renzi aveva preteso di eliminare la parola «genocidio» da una rassegna culturale dedicata al popolo armeno: il titolo della rassegna, fissato a fine dicembre 2015, era «Armenia, a cento anni dal genocidio (1915-2015)», ma divenne «Armenia: metamorfosi tra memoria e identità». Una professoressa della Sapienza disse che «la Turchia è nella Nato e non avrebbe gradito, questo ci hanno spiegato».

L’espressione «genocidio» fu coniata nel 1946 durante il processo di Norimberga, e a voler elencarli tutti, i genocidi, c’è solo il rischio di dimenticarne qualcuno. Oltre ad armeni ed ebrei e zingari e sinti, sempre dimenticati, anche se condivisero l’Olocausto in Cina ci fu la rivolta dei Boxer, i 48 milioni di cinesi caduti sotto il regime di Mao, i 20 milioni i russi eliminati durante il terrore staliniano, il milione di comunisti indonesiani eliminati dal governo tra il 1974 e il 1999, il milione di cambogiani stramazzati sotto il regime di Pol Pot, poi i genocidi africani in Sudan, Rwanda, Burundi, quelli del sudamerica col milione di desaparecidos delle dittature militari, senza dimenticare i curdi e gli iracheni (tra cui 560 mila bambini) morti per la politica di Saddam Hussein. Si parla sempre di «memoria» e di «non dimenticare», ma il rischio, per i più, è non aver neppure mai saputo.

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Chi sono i Ladaniva, il gruppo franco-armeno protagonista dell’Eurovision 2024 (Notiziemusica 14.03.24)

Dall’Armenia alla Francia, dalla Francia alla Svezia, dalla Svezia al mondo intero. Il percorso dei Ladaniva è stato apparentemente lungo e tortuoso, ma potrebbe permettere a questa curiosa band di raggiungere i vertici della musica internazionale grazie a una vetrina prestigiosa come quella dell’Eurovision 2024. Andiamo a scoprire alcune curiosità sulla loro carriera e la loro vita privata.

Chi sono i Ladaniva: membri e carriera

La storia dei Ladaniva nasce a Lilla, in Francia, ma ha radici ben più profonde. È la storia, come molte altre, della ricerca di fortuna lontano da casa da parte di rappresentanti di un popolo a lungo costretto alla diaspora. A formare la band franco-armena sono due membri di grande talento: la cantante di origini propriamente armene Jaklin Baghdarsaryan e il polistrumentista francese Louis Thomas.

L’anima armena del duo è ovviamente rappresentata da Jaklin, nata proprio in Armenia, a Yeghegnadzor, ma cresciuta in Bielorussia, a Minsk, prima di trovare stabilità in Francia quando vi si è stabilità, nel 2014, insieme alla madre.

Proprio qui ha potuto coltivare la sua passione per la musica e i suoi studi, iscrivendosi al Conservatorio locale. Qui ha conosciuto Thomas, originario proprio di Lilla, e con lui ha deciso di costruire un progetto musicale molto originale.

Dopo aver vissuto le prime esperienze dal vivo, hanno dovuto fermarsi durante il periodo della pandemia da Covid a causa delle restrizioni imposte anche dal governo francese. In quei mesi difficilissimi due loro video, per i brani Vay aman e Zepyuri nman, hanno riscosso però un successo straordinario online, grazie soprattutto al supporto della comunità armena, dando impulso alla loro carriera.

Da lì ha poco hanno pubblicato il loro primo singolo, Kef chilini, e nel 2023 hanno fatto il loro esordio discografico con l’omonimo album di debutto, prodotto da un’etichetta belga, la PIAS Recordings.

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