«Noi, semplici cittadini armeni, ci addestriamo in montagna per prepararci alla prossima guerra» (Espresso 07.06.23)

Nonostante la cilindrata, la moderna macchina tedesca fatica a percorrere gli ultimi metri di strada sterrata fatta di tornanti sempre più scoscesi, dove le buche si alternano al fango. Il sentiero pare soffocare, sempre più stretto tra i costoni di roccia scura delle montagne antistanti, come se il percorso fosse stato creato per disincentivare il passaggio di uomini e mezzi.

La strada per arrivare in questo “nonluogo” non è lunghissima, poco più di un’ora di macchina da Yerevam, ma nella sua durata vede l’alternarsi di molti scenari: prima la periferia urbana di cemento che si fa più aggressiva via via che ci si allontana dai palazzi in tufo rosa del centro, poi le strade di montagna asfaltate su cui ogni tanto si nota l’arancione opaco di una pompa di benzina contrastare con il nero riflettente delle pareti d’ossidiana, per inoltrarsi infine su mulattiere dove anziane con il capo incoronato dalle babushka paiono sorvegliare il passaggio tra i campi le loro mandrie, indifferenti alla modernità come probabilmente lo sono state al socialismo sovietico.

Una strada sola che racconta perfettamente le molteplici anime di un Paese che deve convivere con il desiderio di normalità e il costante pensiero della sua negazione. Perché nonostante tutto l’Armenia è e resta in una guerra sospesa da più di vent’anni e la situazione mai sopita pare essersi aggravata dopo il 2020, e potrebbe riesplodere da un momento all’altro.

Storia di un conflitto
Uno dei conflitti più celebri dell’aerea post sovietica è quello del Nagorno Karabakh, regione a maggioranza armena all’interno dei confini dell’Azerbaijan. La guerra del 1994 aveva visto la vittoria armena che era riuscita a ottenere il controllo della regione e di aree circostanti non abitate da armeni, causando migliaia di sfollati. Per due decenni la situazione è rimasta tesa ma stabile, fino a quando nel 2020 l’Azerbaijan ha deciso di tornare all’attacco. Dopo 44 giorni di guerra e oltre 7.000 morti, l’Armenia si è dovuta ritirare dalla regione, e accettare l’armistizio con mediazione russa, in cui si riconosceva all’Azerbaijan il controllo di tutti i territori adiacenti al Nagorno Karabakh, nonché parte dell’ex regione autonoma. Anche questa guerra ha causato migliaia di sfollati, ma buona parte della popolazione armena (circa 140.000 persone) continua a vivere nella regione, protetta da un contingente della Federazione russa, anche se Mosca pare aver altre priorità per l’esercito, e al contempo non vuole inimicarsi la Turchia, alleata azera, vista la situazione Ucraina.

Il ruolo del Voma
Gegam Kazarian ha lasciato l’Armenia quando era ancora giovane, direzione Spagna. Qui lui e la sorella hanno gestito cocktail bar di successo, e con il passare del tempo è arrivata anche la cittadinanza europea. Ma per entrambi l’attacco del 2020 è stato un punto di non ritorno. Sentivano crescere il bisogno di fare qualcosa. Tramite conoscenze sono venuti a sapere dell’esistenza di un campo d’addestramento in mezzo alle montagne, organizzato da un ex generale, che arruolava civili come loro. L’organizzazione, finanziata dalle donazioni della diaspora armena nel mondo, è il Voma e il suo leader Vova Vartanov. Per gli azeri si tratta a tutti gli effetti di un’organizzazione terroristica, mentre i membri si definiscono parte di un’associazione militare-patriottica impegnata nell’educazione dei civili in vista di un conflitto. Qui di soldati di professione non ce ne sono, la maggioranza delle persone che vivono la vallata nascosta tra le montagne sono giovani, tanto uomini quanto donne, venuti qui lasciando per un periodo il lavoro o gli studi, per diventare parte di una milizia.

 

L’addestramento
«Quando sono arrivato in questa vallata nascosta in mezzo alle montagne – racconta Gegam – ho capito quanto non siamo pronti a vivere la guerra. Nel cuore della notte hanno lanciato una granata per svegliarci e il mio cuore per poco non si è fermato. Era parte dell’addestramento, ma se non lo si vive non lo si capisce e non si sa reagire». I civili che vengono qui passano alcune settimane a formarsi. Nei primi giorni il peso dei giubbotti in kevlar pare sovrastarli, le razioni affamarli e gli Ak-47 in legno che portano sempre dietro gli intralciano i passi. Sono cittadini di una capitale dell’Est europeo, abituati a stare in ufficio e a condividere sui social, non ad usare una latrina scavata nel terreno e chiusa con un telo di plastica. Ma poi, con il passare delle settimane, succede il miracolo: non solo gli insegnamenti paiono dare loro sicurezza su come affrontare il buio che si percepisce oltre la quotidianità, ma la fatica, il dormire tutti insieme nelle grandi tende da campo, le privazioni, uniscono quelli che fino a qualche settimana prima erano perfetti sconosciuti e che ora invece sanno di avere qualcuno su cui contare.

In questa valle dove i telefoni non prendono hanno ritrovato il coraggio della comunità, lo si percepisce mentre ridacchiano sottovoce ignorando l’istruttore che insegna a calibrare il mortaio o mentre ancora affamati lavano la gavetta nel fiume gelido chiacchierando. È il coraggio delle reclute, che ancora non hanno mai visto la battaglia. Le loro gambe non tremeranno di meno se un giorno sarà, ma forse sapranno come imbracciare il fucile e avranno meno paura sapendo di avere accanto qualcuno da poter chiamare «amico».

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