Pax americana nel Caucaso meridionale? La Russia non arretra (Iari 03.09.25)
L’accordo di pace tra Armenia, Azerbaigian e Stati Uniti minaccia la posizione strategica della Russia nel Caucaso meridionale. Mosca, però, potrebbe ancora sfruttare l’ambiguità dell’intesa e le vulnerabilità armene per riaffermare la propria rilevanza geopolitica.
L’8 agosto 2025, i leader di Armenia e Azerbaigian si sono incontrati a Washington con il presidente Donald Trump per firmare un accordo di pace, che punta a chiudere quattro decenni di conflitto sul Nagorno-Karabakh. La Russia, esclusa dai negoziati, ha reagito con apparente favore. Dietro questa facciata, però, si nasconde una realtà molto diversa.
Se implementato, l’accordo ridefinirebbe gli equilibri geopolitici del Caucaso. Già indebolita dall’isolamento seguito alla guerra in Ucraina, la Russia rischierebbe una posizione marginale, mentre gli Stati Uniti acquisirebbero un ruolo centrale nelle infrastrutture, nei commerci e nella sicurezza regionale, lasciando spazio anche alla Turchia e allo stesso Azerbaigian per acquisire una crescente rilevanza.
Rimanere ai margini del Caucaso, mentre la NATO si avvicina ai suoi confini, comporta per la Russia rischi non solo simbolici ma anche strategici. Dunque, è probabile che il Cremlino intensifichi i propri sforzi per recuperare influenza. Le debolezze ancora presenti nell’accordo di Washington, insieme all’ampia rete di legami economici, politici, culturali e internazionali che Mosca continua a coltivare nella regione, potrebbero offrire nuove opportunità per mantenere un ruolo di rilievo.
Una pace scritta a matita: cosa dice davvero la pace di Washington
Sebbene celebrato come un momento chiave nel processo di pace tra Armenia e Azerbaigian, l’accordo non introduce realmente elementi nuovi rispetto ad altre trattative precedenti. Gran parte dei contenuti discussi alla Casa Bianca era già stata affrontata in sede bilaterale da Erevan e Baku, prima a marzo 2025 e poi durante il summit di Abu Dhabi, a luglio.
Sostanzialmente, l’accordo con Washington stabilisce:
- Il riconoscimento dell’inizializzazione del trattato di pace da parte dei Ministri degli Esteri armeni e azeri, e l’impegno a proseguire fino alla firma e ratifica definitiva.
- L’appello congiunto all’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) per la dissoluzione del Minsk Group e le sue strutture correlate.
- La riaffermazione dell’apertura delle comunicazioni e dei collegamenti infrastrutturali, inclusa la connessione non soggetta a controlli tra l’Azerbaigian e la sua exclave del Nakhchivan attraverso l’Armenia, nel rispetto della sovranità statale.
- La definizione di un quadro operativo, da svilupparsi congiuntamente con gli Stati Uniti e terze parti concordate, per il progetto di connettività “Trump Route for International Peace and Prosperity” (TRIPP) nel territorio della Repubblica d’Armenia, con l’impegno a perseguire tale obiettivo in buona fede e nel modo più rapido possibile.
- Il rifiuto di rivendicazioni territoriali, l’inviolabilità delle frontiere e ripudio di ogni logica di vendetta, in linea con la Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione di Almaty del 1991.
- La conferma del valore storico dell’accordo come base per future relazioni di buon vicinato e stabilità regionale.
- Un ringraziamento esplicito al presidente Donald Trump per la mediazione e l’ospitalità, sottolineando il ruolo statunitense come garante del processo.
Più che un’intesa definitiva, il documento si presenta come una dichiarazione congiunta di natura prevalentemente politica e simbolica. In assenza di misure concrete, resta privo di efficacia vincolante e non affronta diverse questioni ancora urgenti: dalla restituzione dei prigionieri di guerra allo sfollamento forzato della popolazione armena durante l’esodo del 2023. Inoltre, il processo di pace non potrà proseguire in modo sostanziale finché l’Armenia non modificherà la propria costituzione, rinunciando formalmente a qualsiasi rivendicazione sul Nagorno-Karabakh, una condizione profondamente impopolare a Erevan, ma su cui Baku continua a insistere con fermezza.
Sembrerebbe che la creazione del corridoio TRIPP rappresenti l’unica vera novità. In realtà, si tratta di una proposta molto simile al corridoio di Zangezur, proposto da Turchia e Azerbaigian e rifiutato dall’Armenia dopo la guerra del Nagorno-Karabakh del 2020. La principale differenza è che la gestione affidata a un attore terzo, gli Stati Uniti, che si presentano come neutrali, offre all’Armenia maggiori garanzie di sicurezza e sovranità, almeno sul piano formale. Il progetto prevede la realizzazione di un corridoio di 44 chilometri attraverso la provincia armena di Syunik, destinato a collegare l’Azerbaigian con la sua exclave di Nakhchivan e, più a ovest, con la Turchia. Se implementato, l’Armenia accetterebbe di subaffittare direttamente agli Stati Uniti il tratto di territorio attraversato dal corridoio per 99 anni, autorizzando aziende statunitensi, e potenzialmente anche turche ed europee, a costruire e gestire infrastrutture ferroviarie, stradali, energetiche e di telecomunicazione.

Fonte Immagine: https://www.economist.com/europe/2025/08/09/donald-trump-brokers-a-peace-plan-in-the-caucasus
Ambizioso? Forse. Ma in primo luogo, il progetto non dispone ancora di un calendario operativo chiaro. In secondo luogo, la sua realizzazione è lontana dall’essere imminente, ostacolata da una forte opposizione politica e sociale in Armenia, e dal rifiuto dell’Iran, un altro attore regionale chiave, contrario sia alla presenza statunitense nella regione sia al corridoio stesso.
Considerata la forte opposizione politica in Armenia, la necessità di una riforma costituzionale, il rifiuto esplicito dell’Iran e la natura non vincolante dell’accordo, l’attuazione dell’intesa di Washington appare estremamente incerta. Di fronte a questo scenario, e ai rischi geopolitici associati all’inazione, è altamente probabile che la Russia scelga di sfruttare tali vulnerabilità, ricorrendo ai diversi strumenti a sua disposizione per ritardare, ostacolare o bloccare del tutto il processo, nel tentativo di preservare la propria influenza e centralità strategica nel Caucaso meridionale.

Fonte Immagine: https://www.economist.com/europe/2025/08/09/donald-trump-brokers-a-peace-plan-in-the-caucasus
Il rischio dell’inerzia: perché la Russia non può permettersi di perdere il Caucaso Meridionale
La reazione di Mosca all’accordo di Washington è stata ampiamente interpretata come un segnale di disimpegno dal Caucaso. In diversi contesti mediatici si è sostenuto che la Russia sia ormai troppo indebolita dalla guerra in Ucraina e troppo screditata dai suoi fallimenti come mediatore per poter mantenere una posizione di supremazia nella regione. Si tratta, però, di affermazioni non del tutto corrette. È vero che il conflitto in Ucraina ha assorbito risorse militari e diplomatiche significative, così come è vero che i suoi fallimenti nei processi di mediazione in Abkhazia, Ossezia del Sud e Nagorno-Karabakh hanno fortemente eroso la sua credibilità. Questi fattori però, non si sono tradotti in una perdita di interesse per il Caucaso meridionale.
Anzi, il Cremlino continua a considerare la regione come una componente essenziale dell’equilibrio della propria politica estera. In questo contesto, l’accordo di Washington non rappresenta soltanto una perdita d’influenza diplomatica, ma una minaccia diretta alla postura geopolitica russa nella regione. Sul piano militare, la base militare 102 a Gyumri garantisce a Mosca una presenza strategica in Armenia. L’aumento della presenza NATO nella regione, però, ne riduce progressivamente la rilevanza. Dal punto di vista economico, la rilevanza della Russia si è consolidata anche grazie al suo ruolo di attore centrale nello sviluppo del Corridoio di Trasporto Nord-Sud (INSTC). Questa infrastruttura multimodale, che connette la Russia all’Iran e all’India passando per l’Azerbaigian, rappresenta non solo un vettore logistico per ridurre tempi e costi dei flussi commerciali eurasiatici, ma anche uno strumento di proiezione geopolitica capace di diversificare le rotte rispetto ai corridoi tradizionalmente dominati dall’Occidente. L’introduzione del corridoio TRIPP minaccia di deviare le rotte di transito e di approvvigionamento energetico verso un percorso infrastrutturale se non dominato, almeno altamente influenzato dall’Occidente. Infine, il rafforzamento della partnershiptra Turchia e Azerbaigian, con il sostegno implicito di Washington e Bruxelles, rischia di ridisegnare gli equilibri geopolitici regionali, restringendo ulteriormente lo spazio di manovra di Mosca.

Fonte Immagine: https://www.geopoliticalmonitor.com/geopolitics-of-the-international-north-south-transport-corridor-instc/
Il ventaglio di opzioni di Mosca: sfruttare le vulnerabilità armene
Nel quadro geopolitico del Caucaso, l’Armenia rappresenta attualmente l’elemento più importante nella strategia russa. Erevan rimane fortemente dipendente da Mosca sul piano economico e della sicurezza, e i due Paesi mantengono storici legami culturali e diplomatici. I rapporti con Baku, invece, si sono progressivamente raffreddatinegli ultimi anni.
In Armenia, l’accordo di pace di Washington è stato accolto con scetticismo. Sia la modifica costituzionale che l’apertura del corridoio TRIPP figurano tra i punti più contestati, tanto dall’opinione pubblica quanto da gran parte dell’opposizione politica. Questo contesto rischia di rallentare, se non compromettere del tutto, l’attuazione dell’accordo, soprattutto in vista delle elezioni previste nel 2026. Il Primo Ministro Nikol Pashinyan punta alla rielezione, ma nei primi mesi del 2025 il suo partito era già in difficoltà nei sondaggi. Inoltre, le recenti elezioni locali hanno registrato un rafforzamento dei candidati filo-russi, segnale di un elettorato instabile e sempre più polarizzato.
Il malcontento popolare e le tensioni politiche in Armenia costituiscono un terreno fertile per un ritorno dell’influenza russa. Mosca dispone di un ampio ventaglio di strumenti per esercitare pressione su Erevan, sia in modo diretto che indiretto. Sul piano diretto, il Cremlino può ricorrere a leve economiche o a pressioni diplomatiche formali, utilizzando i meccanismi dell’Unione Economica Eurasiatica (EAEU) o dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO). In modo più indiretto, può invece alimentare narrazioni interne ostili all’accordo attraverso campagne di disinformazione, e rafforzare oligarchi, attori politici e religiosi filorussi. In tutti i casi, l’obiettivo resta quello di consolidare l’idea, a livello collettivo, che l’intesa promossa da Washington non risponda agli interessi strategici dell’Armenia.
Frizioni istituzionali
Uno dei canali più immediati attraverso cui la Russia potrebbe esercitare pressioni è il quadro istituzionale dell’EAEU, di cui l’Armenia è membro. Mosca insiste sul fatto che Erevan rimanga vincolata agli obblighi derivanti dai trattati dell’Unione e che, in caso di violazioni, la EAEU si riservi il diritto di intervenire. In questo scenario, il Cremlino potrebbe contestare il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nello sviluppo del corridoio TRIPP, richiamandosi all’articolo 9 del Codice Doganale dell’EAEU, che limita la movimentazione di merci ai soli soggetti conformi alle norme dell’Unione. Questo potrebbe tradursi in restrizioni che rallenterebbero, o ostacolerebbero, l’operatività di aziende statunitensi, turche ed europee nella regione.
Mosca ha già dimostrato di saper sfruttare le ambiguità del sistema EAEU. Un precedente risale all’aprile 2023, quando l’agenzia Rosselkhoznadzor impose un blocco totale alle importazioni di latticini armeni, citando presunte violazioni delle norme sanitarie previste dall’articolo 29 dell’EAEU, ma senza fornire prove concrete. La misura causò perdite stimate tra i 3 e i 3,8 milioni di dollari al mese. Alla luce di questo caso, il Cremlino potrebbe facilmente adottare provvedimenti simili, alimentando l’idea che l’accordo con Washington comporti costi eccessivi per l’Armenia, pur mantenendo una parvenza di legalità istituzionale.
Dipendenza energetica
Un altro canale attraverso cui la Russia può esercitare pressione, sebbene più aggressivo, è quello energetico. L’Armenia dipende ancora completamente dalla Russia per il suo approvvigionamento energetico. Quasi il 90% del gas naturale consumato in Armenia è importato dalla Russia attraverso gasdotti gestiti da Gazprom Armenia, che ha il monopolio sulla distribuzione. Inoltre, la centrale nucleare di Metsamor, una delle principali fonti di energia elettrica del paese, utilizza tecnologia e combustibile nucleare russi, rafforzando ulteriormente questa dipendenza.
La leva energetica di Mosca si manifesta in vari modi diversi. Innanzitutto, può infliggere danni economici diretti attraverso l’aumento dei prezzi del gas o mediante interruzioni nella fornitura. In secondo luogo, può anche strumentalizzare la percezione dell’insicurezza energetica. Infatti, i media filorussi già presentano l’avvicinamento dell’Armenia all’Occidente come una scommessa rischiosa, che potrebbe tradursi in rincari, blackout o instabilità. Queste narrazioni non solo amplificano l’ansia dell’opinione pubblica, ma offrono anche a Mosca una giustificazione preventiva qualora decidesse di stringere ulteriormente il controllo sull’approvvigionamento energetico.

Fonte Immagine: https://evnreport.com/economy/armenias-economic-dependence-on-russia-how-deep-does-it-go/
Chiesa Apostolica Armena, oligarchi e opposizione politica
Le istituzioni religiose e le reti di oligarchi legati ad altri Stati post-sovietici costituiscono da tempo uno dei pilastri del soft power russo. In questo contesto, Mosca può fare leva sui suoi legami con la Chiesa Apostolica Armena (CAA) e con influenti oligarchi per approfondire le divisioni sociali e rafforzare l’opposizione all’accordo di Washington, soprattutto ora che l’Armenia affronta una crisi politica senza precedenti.
Alla fine di giugno 2025, due alti rappresentanti della gerarchia ecclesiastica e l’oligarca russo-armeno Samvel Karapetyan sono stati arrestati sotto accuse di aver cospirato insieme a figure filo-russe per rovesciare il governo. In risposta, la CAA ha pubblicamente denunciato il primo ministro Pashinyan come un “traditore”, irritando ulteriormente il conflitto tra istituzioni statali e autorità religiose. Karapetyan, sotto custodia, ha annunciato l’intenzione di fondare una “nuova forza politica radicalmente diversa”, proponendosi come punto di riferimento per il crescente malcontento nei confronti dell’esecutivo. La sua visibilità, combinata con le reti consolidate dal Cremlino all’interno del Partito Repubblicano e del Partito Dashnak, offre a Mosca potenziali canali di destabilizzazione politica all’interno del paese.
Rafforzando le narrazioni che dipingono il governo Pashinyan come ostile alla Chiesa e alle tradizioni, la Russia può presentarsi come custode dei valori spirituali e culturali armeni. Parallelamente, figure come Karapetyan possono aiutare il Cremlino a canalizzare il risentimento delle élite, mentre i partiti d’opposizione forniscono le infrastrutture organizzative e finanziarie necessarie a trasformare il malcontento sociale in pressione politica. Insieme, Chiesa, oligarchi e opposizione costituiscono una piattaforma multilivello attraverso cui Mosca può minare la fiducia nell’attuale governo armeno e ostacolare l’attuazione dell’accordo di pace promosso dagli Stati Uniti.
Quanto è probabile che questa strategia favorisca Mosca?
Nel breve termine, c’è una probabilità ragionevole che la Russia interrompa, o almeno ritardi, il processo di pace di Washington, e finora ha dimostrato la sua volontà di farlo. Infatti, la Russia ha già cercato di indebolire l’accordo rafforzando le narrative in Armenia che lo descrivono come pericoloso e imposto dall’estero e che ignora le realtà locali. All’avvento delle elezioni in Armenia, è probabile che l’influenza della Russia sul Primo Ministro Pashinyan aumenti, complicando l’attuazione dell’accordo e rischiando ulteriore instabilità nel Caucaso meridionale.
Questi strumenti, però, non garantiscono il successo a lungo termine. La posizione della Russia nella regione si è indebolita dalla guerra del Karabakh del 2020 e, in modo più decisivo, dopo l’esodo degli armeni dal Nagorno-Karabakh del 2023, quando Mosca non è riuscita a mantenere il proprio cessate il fuoco e a difendere Erevan. Il deterioramento dell’immagine della Russia nell’opinione pubblica armena ha già alimentato pressioni interne per un progressivo disimpegno da Mosca. Riflettendo su questo cambiamento, Erevan si è mossa per sospendere o ritirarsi dalla CSTO e per riassumere il controllo diretto su diversi punti di frontiera precedentemente gestiti dalle forze russe. Con l’Armenia sempre più orientata a ridurre la propria dipendenza da Mosca, la strategia russa di tenerla ancorata alla propria orbita è sostenibile solo se riesce a contare su una leadership favorevole e a contenere efficacemente qualsiasi opposizione interna. Il problema è che la Russia non ha mai eccelso nel conquistare il cuore dei popoli che continua a opprimere.
Oltre all’Armenia, la Russia si trova ad affrontare una sfida strutturale più ampia: non è più l’unico attore in grado di determinare gli equilibri nel Caucaso meridionale. La Turchia e l’Azerbaigian si sono avvicinati sempre di più, affermandosi di fatto come nuovi mediatori di potere emergenti. Insieme a Washington, Ankara e Baku rappresentano oggi una doppia penetrazione in quella che un tempo sembrava la supremazia incontrastata di Mosca. In questo contesto, anche se la Russia può ostacolare il processo di pace nel breve termine, è molto meno chiaro se sia ancora in grado di mantenere un ruolo dominante nel lungo periodo.
La strategia del Cremlino potrebbe riuscire a rallentare o destabilizzare l’intesa, ma difficilmente potrà invertire il riassetto geopolitico in corso. L’allontanamento progressivo di Erevan e Baku da Mosca, l’assertività crescente di Turchia e Azerbaigian, e il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti rendono improbabile che la Russia riesca ancora a imporre le proprie condizioni come un tempo. Il Cremlino può ancora agire da sabotatore, ma la sua capacità di plasmare il futuro del Caucaso meridionale non è più garantita.
