I Giovani Turchi e il genocidio armeno nelle pagine di Lawrence d’Arabia (Sololibri 14.09.25)

Merita un’approfondita analisi la descrizione del movimento dei Giovani Turchi inserita da Thomas Edward Lawrence (1888-1935) nella sua opera più nota, “I sette pilastri della saggezza”, del 1922. Lo scrittore, passato alla storia come “Lawrence d’Arabia”, riconobbe con lucidità il ruolo di questa forza politica nell’ultima fase dell’esistenza dell’impero ottomano, e denunciò presso i lettori europei l’orrore del genocidio armeno.

Riccardo Pasqualin
Pubblicato il 14-09-2025

I Giovani Turchi e il genocidio armeno nelle pagine di Lawrence d'Arabia

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Thomas Edward Lawrence (1888-1935), noto a tutti come “Lawrence d’Arabia”, fu un testimone privilegiato e controverso della sua epoca. Ufficiale di collegamento con le forze ribelli durante la rivolta araba contro l’impero ottomano (1916-1918), lo scrittore britannico ci ha lasciato un racconto di straordinario valore storico e letterario nella sua opera I sette pilastri della saggezza (Seven Pillars of Wisdom).
In questo libro del 1922, senza porsi come il vero protagonista degli eventi bellici, Lawrence non si limitò a raccontare i fatti, ma ne offrì delle interpretazioni personali e interessanti, in cui passaggi intrisi di passione e di spirito “tardo-romantico” si alternano a riflessioni più distaccate e razionali. Presentando il libro, l’autore scrisse che

La sua intenzione è di razionalizzare la campagna araba, perché tutti possano capire che il successo fu naturale e inevitabile, indipendente o quasi da direttive o cervello, e meno ancora dall’aiuto esterno di pochi Inglesi. Fu una guerra araba, condotta e guidata dagli Arabi, per un fine arabo, in Arabia.

Lawrence e il sostegno al risveglio nazionale arabo

Studioso della storia e della cultura araba, Lawrence si immerse nella conoscenza di un mondo lontano dal suo, ma la sua prospettiva rimase segnata dal fascino per l’esotico tipico della borghesia europea del suo tempo. Pur vivendo a stretto contatto con i musulmani, Lawrence non seppe mai cogliere quale seria minaccia l’islam rappresenti per la civiltà. Affascinato dall’idea di un risveglio nazionale arabo, ne fu un fervente sostenitore e vide nell’abbattimento dell’impero ottomano un’opportunità di emancipazione. Non comprese, tuttavia, come la fine della dominazione turca avrebbe spianato la strada per la nascita in Arabia di un regime ancor più oscurantista e pericoloso.
Stando alle sue stesse parole, sembra di poter intendere che il narratore fosse convinto che, una volta raggiunta l’indipendenza, gli arabi sarebbero vissuti in pace col resto del mondo, trasformandosi gradualmente in innocui capitalisti:

Un altro motivo di lagnanza delle città derivava dalla questione della legge. Il codice civile turco era stato abolito, ed era tornata l’antica legge religiosa, la rigida legge coranica del cadì arabo. A suo tempo, ci spiegò Abdulla con un sorriso, avrebbero scoperto nel Corano anche le massime e le sentenze necessarie per adeguarlo alle esigenze della finanza moderna, dal commercio bancario agli scambi di valuta.

Ma constatando ogni giorno come proprio dalla Penisola Arabica giungano in tutto il globo ingenti fondi per finanziare il terrorismo musulmano e l’islamizzazione, oggi, a distanza di poco più di un secolo, possiamo osservare quanto siano state gravi le sottovalutazioni di Lawrence (e di tanti personaggi suoi contemporanei e più potenti di lui).
Egli si lasciò andare a parole di inaudita ingenuità, che paiono ridurre scenari geopolitici complessi alle fantasie di un sognatore:

Volevo creare una Nazione nuova, ristabilire un’influenza defunta, offrire a venti milioni di Semiti la base sulla quale costruire un ispirato edificio di sogni per il loro pensiero nazionale. Un fine così nobile fece richiamo alla loro congenita nobiltà di sentimenti, e li convinse ad assumersi una parte generosa nelle vicende.

Le potenze coloniali, che si spartirono il dominio sui continenti, avrebbero potuto sradicare l’islam dai territori soggetti al loro controllo, portando così condizioni di pace e stabilità in numerose aree del mondo. Tuttavia, privilegiando esclusivamente il profitto economico immediato, scelsero di non intraprendere azioni tanto impegnative. Cooptarono le élite religiose musulmane per mantenere l’ordine e legittimare il proprio potere, che mirava solo al controllo economico e strategico dei territori. Inoltre il lungo contatto con le popolazioni musulmane non produsse in Europa una reale comprensione critica della loro cultura e della loro religione, tanto che a partire dal secondo dopoguerra si è diffusa tra i progressisti l’illusione che tali comunità fossero facilmente integrabili. Ma un segnale emblematico della grave ingenuità europea, destinata a rivelarsi autolesionista, si ebbe già nel 1926, quando il governo francese fece edificare la ’Grande moschea di Parigi’ quale gesto di ’riconoscenza’ verso i soldati musulmani provenienti dalle colonie, che combattendo durante la Prima Guerra mondiale “in difesa della Francia” avevano collaborato all’autodistruzione del continente.

Lawrence e la comparsa sulla scena politica del movimento dei Giovani Turchi

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Tornando a Lawrence, una riduzione de I sette pilastri della saggezza, pubblicata nel 1927 con il titolo La rivolta nel deserto, rese più accessibili a un vasto pubblico le vicende e i pensieri dello scrittore, contribuendo a consolidare il mito dell’avventuriero e “cronista” delle trasformazioni vissute dal Medio Oriente durante la Grande Guerra. A causa della complessa vicenda editoriale del testo, è invece rimasto a lungo inedito un intero capitolo de I sette pilastri in cui l’autore ammette la sua profonda amarezza per il tradimento del progetto di un vasto stato arabo da parte delle potenze vincitrici.
Il presente articolo – citando la traduzione pubblicata da Walter Mauro (1925-2012) per Newton nel 1995 – tratterà proprio delle osservazioni di Lawrence riguardo il profondo cambiamento avvenuto in Anatolia con la comparsa sulla scena politica del movimento dei Giovani Turchi (Genç Türkler), ispirato alla Giovine Italia di Mazzini.

Lo scrittore inizia a trattare questo argomento nel quarto capitolo de I sette pilastri:

venne la rivoluzione turca [luglio 1908], la caduta di Abdul Hamid [1842-1918, deposto nel 1909], la conquista del potere da parte dei ’Giovani Turchi’. Per qualche tempo, per gli Arabi l’orizzonte si allargò. Il movimento dei ’Giovani Turchi’ si opponeva alla vecchia concezione gerarchica dell’islam e alle teorie panislamiche del deposto Sultano, il quale, essendosi autonominato direttore spirituale del mondo islamico, voleva diventarne (senza possibilità di appello) anche capo spirituale. I giovani rivoluzionari si ribellarono e lo gettarono in prigione, spinti dalla fede nelle teorie costituzionali di uno stato sovrano.

Abdul-Hamid II aveva compreso che le sue riforme non sarebbero riuscite a unificare le diverse popolazioni dell’impero sotto una comune identità “ottomana”, gli sarebbe stato impossibile costruire un nazionalismo credibile, e quindi cercò di elaborare una nuova strategia ideologica, facendo leva sul fatto che dal 1517 gli imperatori ottomani erano anche califfi, ma pure questa mossa non ebbe successo, né tra i turchi né tra gli arabi. Sintetizzando le contraddizioni che attraversarono l’ultima fase del declino ottomano, Lawrence affermò che:

era impossibile per un uomo in Turchia essere moderno e insieme suddito leale, specialmente se apparteneva ad una di quelle razze – Greci, Arabi, Curdi, Armeni e Albanesi – sulle quali i Turchi avevano dominato tanto a lungo.

Così, per screditare le politiche di Abdul-Hamid, i Giovani Turchi assunsero una posizione ambigua:

I Giovani Turchi, nell’euforia del successo, si lasciarono trascinare dalla logica dei loro princìpi, e come protesta contro il Panislamismo iniziarono a predicare la fratellanza ottomana. Le razze soggette – assai più numerose dei Turchi – credettero di essere state chiamate a cooperare alla creazione di un nuovo Oriente. Entusiaste del compito (e delle idee di Herbert Spencer [1820-1903] e di Alexander Hamilton [1755/1757?-1804]) esposero progetti di grandi riforme, e acclamarono i Turchi come compagni. I Turchi, spaventati dalle forze che avevano scatenato, spensero i fuochi con la stessa rapidità con la quale li avevano accesi. Il loro grido di battaglia divenne “La Turchia turca per i Turchi”, Yeni Turan. In seguito, tale politica li avrebbe condotti verso la liberazione dei loro connazionali irredenti: i Turchi soggetti alla Russia in Asia centrale; ma prima di tutto volevano liberare il loro impero da tutte le irritanti razze inferiori che resistevano al loro dominio. Per primi, occorreva mettere a posto gli Arabi, la minoranza più numerosa. Di conseguenza, ne furono dispersi i rappresentanti, proibite le associazioni arabe, proscritti i notabili. Ogni manifestazione araba, e persino la lingua, furono proibite da [Ismail] Enver Pascià [1881-1922] più duramente che da Abdul Hamid prima di lui.

Il Panturanismo

L’irredentismo turco a cui si allude è il Panturanismo; cominciare a considerarsi innanzitutto turchi, anziché musulmani, rappresentò un cambiamento radicale per l’élite dell’impero ottomano. Gli arabi e i persiani furono i primi, dopo essere venuti a contatto nei secoli VII-X con tribù nomadi che si chiamavano generalmente “türk“, a estendere questo appellativo a tutti i popoli di lingua turcica. Durante la lunga storia dell’impero il termine “turco” era rimasto perlopiù un’etichetta attribuita dall’esterno, mentre tra i membri dell’élite al potere indicava essenzialmente i contadini musulmani dell’Anatolia. Solo con i Giovani Turchi autodefinirsi turco divenne una bandiera d’orgoglio nazionalista.
Ma per creare uno stato-nazione turco questo movimento politico desiderava anche fare piazza pulita delle popolazioni non turciche che vivevano tra il Mar Egeo e il Caucaso:

La mobilitazione [il colpo di mano del 23 gennaio 1913] consegnò il potere nelle mani di quei Giovani Turchi – Enver, [Mehmet] Talaat [1874-1921] e [Ahmed] Gemal [1872-1922] – che erano assieme i più crudeli, i più logici e i più ambiziosi. Essi si prefissero lo scopo di eliminare tutte le correnti non turche nello stato, e specialmente i nazionalisti Arabi e Armeni.

Lawrence aggiunge che:

I membri superficiali e appena dirozzati del comitato dei Giovani Turchi discendevano da Greci, Albanesi, Circassi, Bulgari, Armeni, Ebrei, da tutti, insomma, fuorché dai Selgiuchidi o dagli Ottomani.

Enver era di origini albanesi, inoltre tutti e tre i componenti del triumvirato militare turco erano affiliati alla massoneria, una forza ideologica penetrata dall’esterno: entrata in Turchia da fuori, dall’Europa.

I vecchi vertici dell’impero ottomano venivano giudicati dal popolo rieducato al nazionalismo turco come culturalmente legati a un modello che non poteva più rappresentare la nuova Turchia, sembra essere questo il senso delle parole usate da Lawrence d’Arabia:

La gente comune non andava più d’accordo con i propri governanti: levantini per cultura, francesi in politica.

Il genocidio armeno

Con questa rieducazione nazionalista, si posero le basi per il genocidio armeno (tuttora negato dal governo turco) e diverso, dal punto di vista della matrice ideologica, rispetto ai precedenti massacri di cristiani. Lawrence scrisse che gli armeni – apparentemente pronti a difendersi dopo secoli di soprusi – si erano armati e organizzati:

ma i loro capi erano venuti meno al loro compito. Essi vennero disarmati e distrutti a tappe progressive: gli uomini col massacro, le donne e i bambini sospingendoli nel deserto, lungo strade fredde e battute dal vento, nudi e affamati, preda facile per chiunque passava, finché non erano morti.

Lo scrittore riconobbe chiaramente lo sterminio degli armeni come genocidio:

I Giovani Turchi avevano trucidato gli Armeni non perché Cristiani, ma in quanto Armeni; e per la stessa ragione cacciavano gli Armeni Cristiani e quelli Musulmani nelle stesse prigioni, impiccandoli alle stesse forche. […] I Turchi non si fidavano degli ufficiali e dei soldati arabi nell’esercito, e speravano di annientarli impiegando gli stessi sistemi di dispersione usati contro gli Armeni.

Il militare britannico denunciò anche l’”infame deportazione [di civili armeni] compiuta dai Giovani Turchi nel 1915“.
Il paragone tra arabi e armeni operato da Lawrence può suscitare parecchie riflessioni negli storici riguardo quello che alcuni credevano avrebbe potuto essere il futuro degli ex-territori ottomani, ma da alcune righe de I sette pilastri della saggezza, forse, si può intuire che nemmeno il narratore credette seriamente al progetto di un grande stato nazionale arabo:

Sapevamo bene che anche questi erano sogni. Un governo arabo in Siria, pur fondato sulle fantasie arabe, non sarebbe stato meno imposto di un governo turco, o di un protettorato straniero, o del Califfato storico.

Il libro contribuisce infine a far comprendere che la persecuzione degli armeni da parte dei turchi (fenomeno che perdura sino ai giorni nostri) non può essere ricondotta esclusivamente a motivi di natura religiosa. Infatti, gli armeni sono stati soggetti a discriminazioni e violenze sia sotto governi turchi di matrice “islamista”, sia sotto governi nazionalisti e laici, che si dicevano orientati verso una modernizzazione.

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