Geopolitica del Caucaso e dell’Asia Centrale ex Sovietica (Notizie Geopolitiche 21.09.25)

di Paolo Falconio * –

La recente crisi tra Russia e Azerbaigian, scatenata dall’uccisione dei cittadini russi Zieddin e Huseyn Safarov, di etnia azera, durante un’operazione di polizia russa contro reti criminali azere ha provocato una rapida escalation diplomatica e mediatica. La risposta di Baku, che include un blitz negli uffici di Sputnik (una stazione televisiva), arresti e l’umiliazione pubblica di cittadini russi fatti sfilare per le strade con evidenti segni di violenza, va oltre la semplice ritorsione: segnala una più profonda ridefinizione degli equilibri eurasiatici.
Al centro dell’episodio si trova un asse commerciale che si andrebbe ad affiancare al TRACECA (Europe-Caucasus-Asia Transport Corridor) superando i problemi operativi di quest’ultimo. Più precisamente, il premio è il Corridoio di Zangezur. L’accordo firmato da Armenia, Turchia e Azerbaigian ha riacceso l’interesse strategico nella regione. Questo passaggio, che collega il Mar Nero al Caspio e all’Asia centrale, è cruciale per le rotte energetiche e commerciali. In senso inverso, funge da canale diretto verso l’Europa, bypassando Russia e Iran. Il corridoio passerebbe per la provincia armena del Syunik (Zangezur), che attualmente separa la Turchia dall’Azerbaigian. In sostanza aprirebbe un corridoio logistico e militare senza precedenti. Questa regione dell’Armenia (il Syunik) separa l’Azerbaigian dalla sua enclave del Nakhchivan e dalla Turchia, rendendola vitale per le ambizioni regionali di Baku e Ankara. Tuttavia, se tradizionalmente è stata sempre la Russia a garantire gli accordi nell’ex impero sovietico, l’Armenia (con il placet dell’Azerbaijan) si è mostrata favorevole rispetto alla proposta statunitense di un contingente volto a garantire la sicurezza della linea del corridoio in territorio armeno lunga 43 chilometri per un periodo di 100 anni. Un business che garantirebbe agli Usa dai 50 ai 100 miliardi di dollari ogni anno.
Parallelamente quindi si delinea una traiettoria strategica volta a consolidare un asse che, oltre a rafforzare la connettività regionale, concorre all’attuazione della dottrina statunitense di contenimento di una possibile riaffermazione della Russia quale potenza globale, come evidenziato nel rapporto della Rand Corporation del 2018. In tale prospettiva la nuova possibile postura azero armena non solo potrebbe ridefinire la geografia delle alleanze euroasiatiche, ma configurerebbe un potenziale fronte meridionale, complementare a quello già operativo in Ucraina, contribuendo così alla pressione multilaterale esercitata lungo l’arco post-sovietico.
Questo progetto sarebbe sostenuto da un asse anglo-americano, con la Turchia come attore operativo e Israele come beneficiario indiretto. L’obiettivo finale sarebbe quello di inglobare Armenia e Azerbaijan nell’orbita occidentale, sottraendole all’area di influenza russa, rompendo anche la continuità territoriale con l’Iran, che verrebbe indebolito ulteriormente. L’Iran infatti si troverebbe di fronte una duplice minaccia. La presenza di militari o contractors americani a ridosso del suo confine a nord (il passaggio infatti corre lungo il confine fra Armenia e Iran), un nord abitato dalla componente azero-iraniana, cosa che costituirebbe per Teheran una minaccia potenzialmente mortale in considerazione della volontà della CIA e di Israele di sollevare la popolazione azera dell’Iran (anche se l’operazione non tiene conto che la componente azero-iraniana occupa la cuspide del potere assieme a quella persiana e senza contare che l’Iran è vitale per la Cina). In secondo luogo potenzialmente potrebbe essere in grado di marginalizzare il ruolo dell’Iran come perno del nastro trasportatore del commercio indo russo, ma anche indo caucasico. Dobbiamo ricordare che le merci scelgono la via più breve. Insomma l’Iran percepisce il corridoio come un accerchiamento militare e commerciale ed è improbabile che rimanga a guardare. Parimenti improbabile che la Russia rimanga inerte di fronte allo scivolamento nell’area occidentale di due delle sue ex repubbliche, addirittura accettando una presenza militare americana. Il Caucaso è considerato vitale per i russi, e si potrebbe replicare ciò che è avvenuto in Ucraina, ad eccezione del fatto che l’Azerbaijan è una piccola Nazione e per l’occidente è molto più complesso proiettare potenza nella regione. Infine la possibile gestione statunitense del corridoio di Zangezur é uno scenario chiaramente inviso a Cina, Russia ed Iran, che cercano di stabilire rotte fuori dal controllo degli Usa.
Ad ogni modo, tutto ciò si tradurrebbe nella possibilità per l’occidente, e opportunisticamente per la Turchia, di avere una base di lancio per una proiezione di influenza che crei un effetto domino sulle altre repubbliche centro asiatiche. Una zona del mondo dove gli Usa non hanno un vero e proprio ruolo.
Una Turchia, che dal canto suo avrebbe l’opportunità di realizzare il progetto pan-turco del “Grande Turan”, in cui Ankara diventerebbe un hub strategico tra Europa e Asia Centrale.
Ma il “Grande Turan” è un concetto molto più ampio. Il Turan (letteralmente Terra di Tur) viene geograficamente identificato come il “bassopiano turanico” e include deserti come il Kara-Kum e il Kizyl-Kum, il Lago d’Aral e regioni oggi divise tra Uzbekistan, Turkmenistan, Kazakistan e altre repubbliche dell’ex Urss. Nel periodo timuride, il nome “Turan” fu adottato da Tamerlano per designare il suo impero turco-mongolo, che si estendeva su gran parte dell’Asia centrale e oltre.
Tamerlano si proclamò “Sultano di Turan” e fece scolpire il nome del dominio su una roccia in Kazakistan, legando il concetto a un’idea imperiale e islamica. In epoca moderna, “Gran Turan” è stato ripreso come concetto ideologico nel Turanismo, un movimento che promuove l’unità dei popoli turcofoni e uralo-altaici
Fuori dalla dimensione regionale, il progetto vedrebbe le agenzie di intelligence alimentare le tensioni tra Azerbaijan e Russia, mentre corteggiano un’Armenia che, sentitasi abbandonata dalla Russia impegnata sul fronte ucraino, sembrerebbe aver ceduto alle promesse di ingresso nel club occidentale. Al di là delle promesse, all’Armenia, uscita sconfitta dalla guerra, non è rimasto altro che accettare condizioni molto pesanti, fra cui acconsentire alla costruzione del “corridoio Zangezur” e l’impegno a realizzarne una parte.
Questo è il disegno, ma ci sono molte incognite sulla sua realizzazione.
Prima fra tutte il rafforzamento della presenza russa in Armenia. Sebbene l’Armenia abbia congelato la sua adesione alla CSTO (l’alleanza militare che lega la Federazione Russa principalmente con le ex Repubbliche Sovietiche), secondo l’intelligence militare ucraina la Russia starebbe rafforzando la sua presenza militare in Armenia, in particolare nella base di Gyumri, vicino al confine turco. Questa base resterà operativa e sotto contratto fino al 2044. I rapporti tra i due paesi sono tesi, ma considerando la nuova strategia russa che consente autonomia purché venga preservata la propria sfera d’influenza, è probabile che Mosca non permetterà all’Armenia di passare sul fronte opposto. Inoltre le ormai prossime elezioni politiche in Armenia vedono maggioranza bulgare opporsi all’attuale primo ministro Nikol Pashinyan, che viene accusato di una postura antistorica (la Russia è stata sempre la grande protettrice dell’Armenia), una postura filo occidentale che a detta della maggioranza della popolazione, potrebbe costare l’esistenza stessa dello Stato armeno minacciato dall’Azerbaijan e potenzialmente dalla Turchia. Va ricordato inoltre che al recente vertice della Shanghai Cooperation Organization (CSO), il primo ministro armeno e il presidente russo Vladimir Putin sono sembrati riavvicinarsi. Non da ultimo l’accordo di pace tra Armenia e Azerbaijan. Un accordo molto generale, consta di sette articoli (compresi i ringraziamenti) e molte questioni rimangono irrisolte e non si tratta di questioni irrilevanti.
L’idea poi di fare Azerbaijan una base avanzata protetta da truppe turche (cioè NATO) sarebbe un’altra linea rossa a cui Mosca si opporrebbe. In ogni caso il Cremlino, pur avendo convocato l’ambasciatore azero, sembra gestire la questione attraverso canali diplomatici e negoziali, sfruttando l’interdipendenza economica tra le due nazioni. La postura diplomatica russa tuttavia non va fraintesa. La nuova dottrina russa non vuole la NATO (e quindi neanche la Turchia) nelle ex Repubbliche Sovietiche. Recentemente Mosca ha raso al suolo gli impianti produttivi turchi e azeri presenti in Ucraina, cosa che in precedenza non aveva mai fatto. Un messaggio politico molto chiaro legato a questa vicenda e che lascia intendere che Mosca, al di là delle dichiarazioni di circostanza, non intenda rimanere a guardare. Inoltre, sempre con riguardo all’effetto domino, Russia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan aderiscono alla CSTO, che costituisce un’alleanza militare vera e propria, anche se tale alleanza non è mai riuscita a liberarsi della nomea di essere niente altro che uno strumento della Russia per mantenere il controllo sui suoi ex territori “imperiali”. Ma al di là della percezione, la realtà è che Mosca gode di questa alleanza e mantiene ottimi rapporti anche con l’Uzbekistan (uscito dalla CSTO), e ciò si è visto ad esempio nel conflitto uzbeko tagico. La ratio di tutti questi tentennamenti da parte della CSTO (o per meglio dire, da parte della Russia) ad attivarsi nei conflitti tra Stati ad essa appartenenti e Stati che ne sono usciti si spiega con il fatto che Mosca non ha mai abbandonato l’obiettivo di reintegrare in un’unica sfera d’influenza (quando non nello stato stesso) tutti i territori una volta facenti parti dell’Urss. Insomma l’effetto domino appare un obiettivo quasi utopico: queste repubbliche godono di una certa autonomia, ma non tale da modificare gli assetti geopolitici. Per le Repubbliche centro asiatiche Mosca è il referente politico-militare, la Cina è il referente economico e la dipendenza dai due giganti è difficilmente aggirabile, senza contare che sono strette geograficamente tra i due colossi.
Quanto sopra per significare che anche il “Grande Turan” sognato dalla Turchia (inteso appunto come proiezione turca nel centro Asia) presenta enormi criticità, financo culturali. Nell’Avestā (il corpus dei testi sacri dello zoroastrismo), i turani erano nomadi tra il Caspio e l’Aral, spesso in conflitto con gli arii stanziali. Erano probabilmente di origine ārya, nonostante la successiva identificazione con i turchi. A riprova il suffisso “stan” di questi stati non deriva dal turco, ma dal sanscrito e Turan è un termine di derivazione Iranica. Insomma anche se, ad eccezione del Tagikistan che afferisce più al mondo persiano, sono indubbi i legami con il mondo turco ed etnicamente la presenza di origine turcica (le tribù erano molte) è la più importante, larga parte della popolazione (in alcuni casi fino al 50%) fa parte di un meticciato che va dalle popolazioni originarie fino alle etnie derivanti dalle migrazioni di epoca sovietica. Queste nazioni, spesso governate dalle ex élite sovietiche, anche nel loro tessuto sociale e culturale sono profondamente diverse dall’odierna Turchia. Anzi, le élite stanno riscoprendo la teoria geopolitica di Mackinder e il concetto di Heartland, per legittimare la propria centralità strategica nell’Eurasia.
In questo gioco Russia e Iran possono contare anche sull’India, che non vuole assolutamente il corridoio sotto controllo turco e vede l’Iran come partner strategico per le sue rotte commerciali. Nel 2024 l’India ha firmato un accordo decennale con l’Iran per lo sviluppo e la gestione del porto iraniano di Chabahar, rafforzando così i rapporti con un paese mediorientale strategico.
Quello a cui stiamo assistendo è una reinterpretazione moderna del Grande Gioco ottocentesco, dove la vera partita si gioca tra vecchie e nuove superpotenze, purtroppo con caratteristiche simili al conflitto in Ucraina, nel senso che ha una dimensione strategica esistenziale per la Russia, ma anche per l’Iran. Armenia e Azerbaigian, piccoli attori su una scacchiera globale, rischiano di compromettere la propria sovranità nel tentativo di inserirsi in un nuovo ordine regionale, soprattutto in assenza di reali garanzie di sicurezza occidentali. Infine vi è una Turchia sempre più in difficoltà nel mondo della Umma. Il sogno ottomano e il “Grande Turan” rischiano di naufragare di fronte alle attuali politiche israeliane. Una situazione che potrebbe determinare una frattura profonda tra Ankara e Tel Aviv, con tutto ciò che ne consegue.
Il piano occidentale porta con sé ambizioni in grado di mutare la mappa geopolitica della regione, ma si scontra con ostacoli profondi, dalla resilienza iraniana agli interessi convergenti di Mosca, Pechino e Nuova Delhi, fino alla instabilità della regione
In definitiva il “Grande Gioco” moderno è meno lineare di quello ottocentesco: è fatto di interdipendenze, ambiguità culturali e alleanze fluide. In questa nuova versione le alleanze non sono rigidamente definite e le incognite sono molte. È un periodo di grandi mutamenti, e l’esito finale potrebbe dipendere da come si evolveranno le predette alleanze, così come dalla capacità dei singoli attori di navigare tra i loro interessi contrastanti.

Fonti:
Centro Studi Armeni Italia
Università di Tor Vergata – centro studi e analisi sulla Russia contemporanea
Rapporto Rand Corporation 2018
Notizie Geopolitiche
Rivista Italiana Difesa
Avvenire – Quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana.

* Membro del Consejo Rector de Honor e conferenziere de la Sociedad de Estudios Internacionales (SEI)

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