Il Monte Ararat e la memoria contesa di un’identità armena (2duerighe 29.10.25)
Ci sono simboli che pesano più di un confine, montagne che diventano colonne di memoria. Il Monte Ararat è una di queste: la sua sagoma innevata domina lo skyline di Erevan e la coscienza collettiva armena, pur trovandosi oggi oltre la frontiera, in territorio turco. Eppure, proprio questo simbolo millenario è ora al centro di un gesto politico dal valore profondo — la decisione del governo armeno di rimuoverlo dai timbri ufficiali dello Stato. Il provvedimento, apparentemente tecnico, tocca corde identitarie e geopolitiche. Per generazioni, l’Ararat è stato l’emblema visivo dell’Armenia: presente sulle banconote, nei timbri, nelle opere d’arte e persino nello stemma nazionale. La sua immagine evocava la continuità di un popolo con la propria storia, anche a dispetto della perdita territoriale subita dopo il genocidio e la ridefinizione dei confini nel XX secolo. Oggi, la scelta di cancellarlo dalle iconografie ufficiali sembra voler riscrivere la grammatica del patriottismo armeno — o, almeno, renderla più sobria, più pragmatica. Secondo le autorità di Erevan, la rimozione sarebbe motivata dal desiderio di “evitare ambiguità” con i vicini, in particolare con la Turchia e l’Azerbaigian, in una fase di difficile normalizzazione diplomatica. Ma dietro la cautela delle parole si intravede un conflitto più profondo: la tensione fra memoria e realpolitik, fra l’eredità di un passato sacralizzato e la necessità di ridefinire un futuro politico meno ostaggio dei simboli. In primo luogo, va sottolineato che il Monte Ararat è in Armenia più che in Turchia: la sua alta silhouette domina il paesaggio armeno come emblema della nazione. Per l’Armenia, è radice spirituale e mitologica che attinge alla figura dell’arca di Noè (secondo tradizioni locali) e all’idea di radicamento del popolo armeno in queste terre. La scelta di raffigurarlo nei timbri attesta la volontà di fissare questa simbologia nell’arena internazionale, come marchio indelebile di appartenenza. Dall’altro lato, l’Azerbaigian – paese che all’interno del Caucaso sud-occidentale ha rapporti complessi con l’Armenia e con la questione del Nagorno-Karabakh – utilizza la stessa immagine in un’operazione comunicativa distinta: quella di affermare una sovranità simbolica, estetica e culturale che trascende le linee amministrative convenzionali. È un messaggio sottile ma efficace: “anche noi riconosciamo, o rivendichiamo, un legame con questo paesaggio e la sua valenza storica”. È difficile non leggere questa decisione come un segnale di stanchezza identitaria. L’Armenia, isolata e provata dalle recenti sconfitte militari nel Caucaso, sembra voler alleggerire il peso della propria mitologia per mostrarsi come uno Stato più concreto, meno romantico, più proiettato verso la sopravvivenza diplomatica che verso la rivendicazione culturale. Eppure, nel togliere il Monte Ararat dai timbri, non si cancella il suo profilo dalle menti: la montagna resta lì, visibile ogni giorno da Erevan, a ricordare che l’identità non è un sigillo ma uno sguardo. Forse, più che un atto di rinuncia, è un esperimento di maturità nazionale — il tentativo di riconciliare la geografia del cuore con quella della politica.
