Cooperazione. Cirielli: nuove priorità in Asia Centrale e Caucaso (Ilmetropolitano 15.05.24)

(DIRE) Roma, 15 Mag. – Kirghizistan e Tagikistan, in Asia centrale, e Armenia, nel Caucaso, saranno nuovi Paesi prioritari per la cooperazione italiana: è l’indicazione data dal viceministro Edmondo Cirielli in un’intervista con l’agenzia Dire a margine di Codeway Expo.

In primo piano, nelle sue dichiarazioni, le opportunità legate al dialogo tra settore pubblico e imprese private in un ambito di sostenibilità e crescita a livello globale. Cirielli, che è viceministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, è appena rientrato da una missione in Kirghizistan, una ex repubblica sovietica. “Con il presidente del Consiglio Giorgia Meloni e ovviamente d’accordo con il ministro Antonio Tajani”, sottolinea, “abbiamo da tempo deciso che l’Asia centrale costituisce un elemento geostrategico fondamentale per la sicurezza del mondo e per la sicurezza dell’economia”.

Cirielli spiega: “Non per niente l’antica Via della seta era diretta in Cina ma non era della Cina; era soprattutto Asia centrale e Caucaso, erano i due mari, il mar Nero e il mar Caspio”. Il viceministro aggiunge: “E’ chiaro che c’è la volontà di una nostra presenza nei Paesi più in difficoltà, che più hanno bisogno di un sostegno allo sviluppo”. Cirielli precisa quadro e obiettivi di prospettiva. “Penso al Kirghizistan e al Tagikistan, nell’Asia centrale, e all’Armenia, nel Caucaso” dice il viceministro: “Devono rappresentare una priorità per l’Italia e in questo senso abbiamo deciso di prevederli nel piano triennale della cooperazione allo sviluppo”.  (Dire) 12:23 15-05-24

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Le aziende italiane attendono con impazienza la cooperazione negli sforzi di ricostruzione del Karabakh

Armenia, l’arcivescovo chiede le dimissioni di Pashinyan (Osservatorio Balcani e Caucaso 14.05.24)

Dai 20 ai 30mila manifestanti, capeggiati dall’arcivescovo Bagrat Galstanyan, hanno protestato nella capitale armena per opporsi al processo di demarcazione in corso tra Armenia e Azerbaijan, a seguito della guerra per il Nagorno Karabakh, e chiedere le dimissioni del primo ministro

14/05/2024 –  Onnik James Krikorian

Giovedì scorso, prima dell’incontro dei ministri degli Esteri armeno e azero ad Almaty, in Kazakistan, circa 20-30.000 manifestanti si sono radunati in Piazza della Repubblica a Yerevan per opporsi al processo di demarcazione avviato in una parte dell’Armenia nord-orientale. La manifestazione è stata preceduta da una marcia di 170 chilometri guidata dall’arcivescovo della regione di Tavush, Bagrat Galstanyan.

Vestito di bianco, anziché di nero come suo solito, Galstanyan ha chiesto le dimissioni del primo ministro armeno Nikol Pashinyan. Ad affiancarlo c’erano membri dell’opposizione armena e rappresentanti di vari gruppi militanti, tra cui Hampig Sassounian, condannato per l’assassinio del console generale turco a Los Angeles nel 1982 fino alla controversa libertà condizionale ottenuta nel 2021.

Galstanyan, nato a Gyumri, ex arcivescovo della Chiesa apostolica armena in Canada, è noto per aver partecipato alle manifestazioni della Federazione Rivoluzionaria Armena – Dashnaktsutyun (ARF-D) per deporre Pashinyan e ostacolare la normalizzazione dei rapporti armeno-azeri nel 2022.

Il suo coinvolgimento ha sollevato dubbi sulla separazione tra Chiesa e Stato in Armenia. “Un religioso non può pronunciare un testo politico senza il permesso o le istruzioni del Catholicos di tutti gli armeni”, ha affermato Pashinyan in un’intervista televisiva in diretta il 7 maggio. “È ovvio che il leader del processo è il Catholicos di tutti gli armeni, e il beneficiario è [l’ex presidente] Robert Kocharyan”.

Intervenendo alla manifestazione, il carismatico e populista sacerdote ha solo accennato al processo di delimitazione e demarcazione, chiedendo invece le dimissioni di Pashinyan entro un’ora, aggiungendo poi una proroga di 15 minuti caduta nel vuoto.

Galstanyan ha poi incontrato i rappresentanti dei blocchi parlamentari di opposizione Hayastan di Kocharyan e Pativ Unem di Serzh Sargsyan, costituiti principalmente da Dashnaktsutyun e dal Partito della Repubblica, per discutere i prossimi passi.

I partiti hanno concordato di chiedere nuovamente un voto di sfiducia nei confronti di Pashinyan in Parlamento, anche se per farlo hanno bisogno di 36 deputati. Il blocco di Kocharyan e Sargsyan ha solo 35 seggi su 107.

Nel frattempo, la seconda manifestazione indetta da Galstanyan ha attirato molti meno partecipanti, stimati intorno agli 11.000. La terza, tenutasi domenica, ha attirato appena 9.000 persone. Con la notevole diminuzione delle presenze in così poco tempo, le manifestazioni sono state interrotte e i suoi sostenitori ora si incontreranno ogni giorno in una chiesa vicina. Galstanyan, tuttavia, ha chiesto la ripresa della campagna di disobbedienza civile nella città a partire da lunedì. A mezzogiorno, 151 persone erano state arrestate dalla polizia.

Molti osservatori ritengono che, nonostante la novità iniziale di una marcia e manifestazione guidata da sacerdoti, la sua associazione con partiti vicini all’ex presidente Robert Kocharyan e al Catholicos armeno abbia già danneggiato il nascente movimento. Galstanyan continua però a chiedere la cacciata di Pashinyan. “Abbiamo bisogno di un nuovo governo, un governo del popolo, un governo attento e paziente, un governo di riconciliazione”, ha detto ai manifestanti.

Venerdì, anche l’ex ministro degli Esteri di Kocharyan, Vardan Oskanyan, ha sorpreso molti dicendo che il primo ministro di tale governo potrebbe essere lo stesso Galstanyan, che però non è idoneo in quanto ha anche la cittadinanza canadese. Ciò, tuttavia, non sembra averlo scoraggiato.

“Se il popolo lo vuole e il patriarca armeno lo benedirà, chi sono io per dire di no?”, ha detto Galstanyan ai media. Considerando i numeri, tuttavia, ciò sembra improbabile anche se l’opposizione riuscisse a mettere sotto accusa Pashinyan, il cui partito del Contratto Civile detiene ancora la maggioranza in Parlamento.

Il governo continua a sostenere che le proteste sono coordinate da Kocharyan e Sargsyan, figure ampiamente impopolari in Armenia, anche se il rating di Pashinyan è peggiorato. Galstanyan sostiene di non essere contrario alla pace o alla demarcazione, ma la retorica delle azioni di protesta manda un messaggio diverso.

Gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno accolto con favore l’accordo sui confini e lunedì il Ministero degli Esteri francese ha esortato le parti a proseguire il processo. Domenica, un gruppo di ex diplomatici allineati a Galstanyan ha affermato che basare la demarcazione sulla dichiarazione di Almaty del 1991, come concordato, è “illegale” e porterà ripercussioni “penali”.

Il giorno successivo, il ministro degli Esteri armeno Ararat Mirzoyan non si è trattenuto nella sua risposta. “Minando la dichiarazione di Almaty e il processo di pace basato su di essa, queste persone continuano […] a minare la sovranità, lo stato e l’integrità territoriale dell’Armenia: nella migliore interpretazione, senza rendersene conto, [ma] nella peggiore, sotto dettatura diretta di un altro Paese”, ha detto con un velato riferimento, molto probabilmente, alla Russia.

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“Una famiglia armena”, al Castello d’Aquino l’attrice Laura Ephrikian (Avellinotoday 14.05.24)

Prosegue il Cartellone di eventi del Comune di Grottaminarda “Incontriamoci con la Cultura”, una finestra sul patrimonio locale e sull’attualità nel mondo.

Sabato 18 maggio, alle ore 16:30, il Castello d’Aquino ospiterà l’attrice Laura Ephrikian che presenterà il suo libro: “Una famiglia armena”, iniziativa a cura dell’Associazione psico-socio culturale “Il Quarzo Rosa”, con il patrocinio del Comune di Grottaminarda.

Laura Ephrikian è nota al grande pubblico per i “Musicarelli” e per il matrimonio con Gianni Morandi, in realtà è un’intellettuale a tutto tondo, oltre ad essere un’attrice di teatro, di cinema, di televisione, è anche una pittrice e scrittrice e da 20 anni si occupa del Kenya come volontaria.

Nel libro che vede la prefazione di Valter Veltroni, Laura Ephrikian, racconta le sue origini armene. Seppur nata a Treviso, infatti, i suoi antenati erano armeni, e non ha mai cancellato queste sue origini; rileggendo le lettere che suo nonno, Akop, diventato italiano dopo la guerra, scriveva a nonna Laura, ha deciso di scrivere il libro. Un libro sull’orgoglio delle proprie radici, ma anche sulla storia di un popolo vittima di genocidio.

L’incontro moderato dalla Presidente de “Il Quarzo Rosa” Nadia Ianniciello, vedrà i saluti del Sindaco, Marcantonio Spera, e dell’Assessora alla Cultura, Marilisa Grillo, gli interventi di Angelo Nenna e Giuliana Caputo e le conclusioni dell’autrice.

109° Anniversario del Genocidio Armeno- Armenia: il boato di una bimba (Tricolore 13.05.24)

Tricolore-agenzia-stampa-n33288-130524 Regina Elena Armeni

Proteste di piazza in Armenia e Georgia: che succede nel Caucaso? (IlPrimatoNazionale 13.05.24)

Roma, 13 mag – Nelle ultime settimane proteste in piazza sia a Tblisi che Yerevan, le capitali di Georgia e Armenia, le due nazioni del Caucaso strette tra l’ingombrante vicino russo e l’aspirazione occidentale. Due nazioni in uno scacchiere fondamentale, quello del Caucaso, sia perché limes tra Occidente e Oriente e tra Islam e Cristianesimo, sia perché da esso dipende anche la sicurezza energetica dell’Europa: dalla Georgia passano l’oledotto e il gasdotto che collegano l’Azerbaijan al Mar Nero e alla Turchia.

Georgia e Armenia, il retroscena delle proteste

Dietro le proteste di piazza in Georgia e Armenia vicende diverse, ma entrambe legate all’attrito tra Occidente e Russia e che riportano le due nazioni al centro delle cronache internazionali. Prima la Georgia con le proteste di piazza contro la nuova legislazione di stampo russo sugli agenti stranieri: una legge che prevede che le organizzazioni non governative che ricevono almeno il 20 % delle loro sovvenzioni dall’estero vengano iscritte in un apposito registro come “Agenti stranieri”.

Con la scusa della trasparenza e della tutela degli interessi nazionali un modo per monitorare ed eventualmente sopprimere qualunque realtà che possa essere percepita come anti-nazionale, dalle semplice associazioni di volontariato fino al mondo dell’informazione. Una legislazione simile ha infatti permesso alla Russia di Putin di effettuare un giro di vite contro tutte quelle realtà che per aver ricevuto sovvenzioni estere e potevano ricadere nella definizione di agente straniero.

Una legislazione che era stata già proposta in Georgia lo scorso anno e poi ritirata per le proteste popolari e fortemente stigmatizzata dall’Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell. Eppure il partito Sogno Georgiano, che guida le coalizioni governative da una decina d’anni e che è anche affiliato al Partito Socialista Europeo come osservatore, ha ritenuto opportuno riproporre la legge, nella faticosa ricerca di un equilibrio tra Unione Europea e Russia. La Georgia non solo confina con l’orso russo ma ha anche due regioni separatiste, l’Abcasia e l’Ossezia del Sud, autoproclamatesi indipendenti e considerate dalla Georgia come territorio occupato. E per cui nel 2008 era stata combattuta una breve guerra, una situazione, seppur su scala inferiore, non diversa da quella del Donbass.

E infatti la Georgia aveva assecondato le sanzioni occidentali alla Russia del 2014 per l’annessione della Crimea. Ma nel 2022 pur avviando la richiesta formale per l’adesione all’Unione Europea la Georgia ha optato per un approccio molto più sfumato nelle sue relazioni con la Russia: non aderendo alle sanzioni occidentali, né fornendo aiuto militare all’Ucraina. E allo stesso modo garantendo accesso e possibilità di lavoro ai cittadini russi anche in assenza di visto fino ad un anno di permanenza.

Sogno Georgiano e Mosca

Elementi ritenuti da analisti e dai politici europei come un riassetto del partito Sogno Georgiano nell’orbita russa. Per il momento, al netto delle proteste contro la legge contro gli agenti stranieri ritenuta filo-russa (ma che pure potrebbe essere usata dalla Georgia anche in chiave anti-russa) la situazione resta comunque stabile e il rischio di una nuova rivoluzione colorata appare piuttosto remota. Troppo recente la memoria intorno agli scandali dell’ex presidenza Saakashvili e al suo partito filo-occidentale Movimento Nazionale Unito al governo per dieci anni dopo la rivoluzione delle rose alla fine del 2003.

Più complessa la situazione dell’Armenia, reduce dalla sconfitte militari con l’Azerbaijan nel 2020 e 2023 in merito alla questione del Nagorno Karabakh, l’ex-enclave armena in territorio azero. Una vicenda che risale alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, quando tra il 1992 e il 1994 si era combattuta tra Armenia e Azerbaijan la prima guerra del Nagorno Karabakh a tutela della popolazione cristiana all’interno dei territori dell’Azerbaijan e che aveva visto allora la vittoria armena.

Situazione ribaltata con la seconda guerra del 2020 e una prima vittoria azera con la riconquista di parte dei territori e infine la dissoluzione della Repubblica dell’Artsakh (denominazione ufficiale del Nagorno Karabakh armeno) dopo l’ultima offensiva azera del 2023. Offensiva che ha portato l’esodo di circa 100.000 armeni dalla regione contesa e alla definizione di nuovi confini.

L’oggetto delle proteste di massa in Armenia di questi giorni è proprio il passaggio di 4 villaggi Baghanis Ayrum, Asagi Eskipara, Heyrimli e Kizilhacili all’Azerbaijan. Villaggi che non si trovano nella fu regione contesa, bensì più a nord nella regione di Gazakh ma che erano stati occupati (rispetto ai confini delle repubbliche sovietiche) in seguito alla guerra dei primi anni ’90. Passaggio di questi villaggi fortemente voluto dal governo armeno come primo passo con una vera normalizzazione con l’Azerbaijan.

Ma che pure porta con se diverse incognite. Innanzitutto il ritiro delle truppe russe arrivate nel 2020 su richiesta armena come forza di peacekeeping e tutela dei propri confini. L’Armenia, a differenza delle Georgia, è infatti parte del CSTO, Collective Security Treaty Organization, l’alleanza militare di cui fanno parte alcune delle fu repubbliche sovietiche: Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan.

Se pure l’interposizione russa ha certamente contribuito a normalizzare la situazione dopo la guerra del 2020, per una parte dell’opinione pubblica armena la Russia non ha fatto abbastanza per la tutela dei loro confini. Valutazione fatta propria anche dal governo Pashynian. Un elemento che Mosca percepisce come narrazione anti-russa e filo-occidentale. Ma se l’Armenia cerca di trovare un equilibrio tra Russia e Occidente, deve fare i conti con la sua geografia. L’Armenia è una nazione che non ha sbocchi sul mare circondata da Azerbaijan, Turchia, Georgia e Iran. A differenza della Georgia che gode di uno sbocco sul mar Nero e ha una bilancia commerciale più varia il principale partner commerciale dell’Armenia è proprio l’Orso russo e altro partner rilevante è l’Iran, due nazioni invise al blocco Occidentale.

Prospettive?

La geografia e i confini sono quelli. Ma negli ultimi mesi il governo armeno ha cercato sempre più sponde a occidente, vedi la visita a novembre, del Ministro degli Esteri Ararat Mirzoyan a Londra, o le recenti interviste del primo ministro Nikol Pashinyan ai giornali britannici in cui rivendicava la scelta della cessione dei 4 villaggi all’Azerbaijan come modo per normalizzare le relazioni con la nazione vicina e cercare di svincolarsi dall’alleanza militare con la Russia.

Scelta di comunicazione che avrà rassicurato i politici europei, ma non certo l’opinione pubblica armena. Opinione pubblica che si è presentata in piazza a Yerevan, la capitale, proprio per protestare contro il governo. Governo considerato il vero colpevole dalle decine di migliaia di persone in piazza della mancata tutela dei confini nazionali. Una protesta che ha visto in prima linea anche le autorità religiose. Per il momento la protesta sembra aver motivato più i cittadini delle aree di confine, che temono che i quattro villaggi possano essere non l’inizio di una normalizzazione con l’Azerbaijan, bensì di un’erosione dei confini anche visto l’abbandono delle forze interposizione russe. Se anche gli abitanti della capitale Yerevan (che da sè fa un terzo della popolazione) si dovessero unire alla protesta, Pashynian potrebbe essere costretto alle dimissioni.

Pure al governo Pashynian non è mancato un certo pragmatismo nelle relazioni armeno-russe. A dicembre è stato firmato un contratto con l’agenzia nucleare russa Rosatom per mantenere in servizio la vecchia centrale sovietica di Metsamor, situata a 16 km dal confine turco, fino al 2036.

Centrale che provvede fino al 40 % dell’elettricità nazionale e dai destini incerti. L’impianto era stato chiuso nel 1988 dalla stessa URSS per precauzione in seguito a un terremoto, e poi parzialmente riattivata con un solo reattore dopo l’indipendenza nel 1995 per i problemi di approvvigionamento energetico.

Nel 2011 e nel 2021 l’AIEA, Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, l’aveva dichiarata sicura, ed era stata prorogata la sua attività fino al 2026. Ma il destino restava incerto con l’Unione Europea, la Turchia e il bollettino degli Scienziati Atomici (quelli dell’orologio dell’Apocalisse) a fare il tifo per la chiusura della centrale. Ventilando persino la possibilità di realizzare una nuova centrale con tecnologia statunitense. Un evidente segnale dello zio Sam per cercare di svincolare la nazione del Caucaso dall’Orso russo. Vedremo se il governo di Nikol Pashynian riuscirà a bilanciare le diverse spinte, o soccomberà di fronte alla questione dei confini settentrionali.

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Più di 150 persone sono state arrestate in Armenia durante le proteste contro il trasferimento dei villaggi di confine all’Azerbaigian (Qwertymag)

“Lavoro migrante”: Vardan Galstyan. (Gazzetta dell’Emilia 12.05.24)

Senza la ricerca la vita si ferma.” Lo dice con gli occhi mobili della curiosità intellettuale, prima che con le parole. E’ un fisico di formazione e di professione, Vardan Galstyan. Armeno, italiano di adozione. Si è laureato e ha conseguito il dottorato di ricerca presso la più importante Università di Erevan, capitale dell’Armenia. Fisica dei semiconduttori e microelettronica, questa la sua specializzazione. Dallo scorso anno lavora a Parma, all’Imem-CNR, Istituto dei materiali per l’elettronica e il magnetismo. Dopo Brescia e Trieste, capolinea della sua prima migrazione. Accolto dalla comunità scientifica del Ictp, International Centre of Theoretical Physics.

A Trieste, le relazioni sono vivaci e multiculturali. La ricerca è un comune denominatore capace di mettere insieme provenienze territoriali diverse.  “Il mio rapporto con l’Italia comincia a nord est, al confine. Trieste è una città bellissima. L’Ictp aveva una partnership culturale e di ricerca con l’Università armena nella quale ho completato il ciclo di studi universitari e dove ho fatto il dottorato di ricerca. Ho vinto un fellowship per un training e ho trascorso più di un mese a Trieste. Il gruppo di ricerca era composto da colleghi di provenienze diverse. Sono stati loro a dirmi che a Brescia avrei potuto trovare ricercatori interessati a me come studioso, perché stavano sviluppando ricerche nel mio stesso ambito: lo studio dei materiali per semiconduttori”.

E’ il la d’inizio del dialogo tra il ricercatore e l’Italia. A facilitarlo è la comunità scientifica triestina. “Sei giovane, devi fare un’esperienza all’estero. Così mi hanno detto. Allora, ho deciso di visitare il laboratorio dell’Università di Brescia.” Dalla visita alla decisione di lavorare e rimanere in Italia il passo non è breve. “Lo stesso messaggio della comunità triestina arrivava anche dalla città lombarda. Ero indeciso. Io vengo dalla capitale dell’Armenia, dove ho studiato e vissuto. Mi piace Erevan, la mia città. Ho pensato di tornare in Armenia e di fare qualche collaborazione. Non volevo andarmene dal mio Paese.

Il richiamo dell’Armenia è forte, ma Trieste è contagiosa e la bora spinge allo spostamento. “Una donna ucraina conosciuta all’Ictp di Trieste era coniugata con un ricercatore impegnato professionalmente a Londra. Lei viveva per sei mesi in un Paese e per sei mesi in un altro. Ho pensato parecchio al loro stile di vita. E alla mia possibilità di trasferimento. Ma io volevo ritornare nella mia città.”

Erevan, Armenia, 2008: Vardan Galstyan ritorna. Un’assenza breve eppure il clima è cambiato. “In quel periodo sembrava che l’Armenia avesse innestato la retromarcia. Sembrava che il Governo di allora non fosse interessato alle persone intelligenti. Ho detto a me stesso: no, se è così allora io vado via. Mi sono ritornati alla mente i suggerimenti dei colleghi. Ho ripensato alla signora ucraina, alle sue andate e ai suoi ritorni. Avevano detto bene, gli italiani. Avevano ragione. Per me era arrivato il tempo di fare un’esperienza in un altro Paese. E ho scritto al Professore Giorgio Sbreveglieri, docente all’Università di Brescia e titolare della cattedra e referente del filone di ricerca vicino ai miei interessi scientifici. Trenta minuti di attesa e la mia mail aveva già ricevuto risposta. Sono partito per l’Italia, di nuovo.”

I documenti, la lingua, le relazioni sociali, la stabilità. Una migrazione supportata da un gruppo di ricerca che lo attendeva. Ma sempre una migrazione. “Il primo contratto di lavoro era di breve durata: due settimane. Poi ho vinto un concorso. Il mio primo significativo contratto in Italia era di un anno e mezzo.” E la relazione del ricercatore armeno con l’Italia mette radici. “Il Professore mi chiedeva: ti piace il Paese? Ho paura che tu te ne vada.

L’inglese è la lingua del lavoro, per la comunità scientifica, a Trieste e a Brescia e nei centri di ricerca del mondo. Ma la lingua italiana è necessaria per la socialità fuori dal lavoro e anche al lavoro. “Siamo usciti per fare i documenti necessari alla permanenza in Italia e io ho pensato che mai avrei imparato l’italiano. Mi sembrava difficile. Una lingua articolata e complessa. Ho sempre creduto di avere predisposizione per le discipline scientifiche, di potere studiare e capire la fisica e la matematica. Ho sempre temuto di non riuscire a imparare dignitosamente una lingua, soprattutto l’italiano. Anche se ho sempre guardato i film in lingua italiana e – sorride – naturalmente ho sempre ascoltato le canzoni famosissime di Toto Cutugno.”

Invece l’italiano diventa uno strumento di comunicazione privilegiato per il ricercatore. Per due giorni alla settimana, di sera, si affida a un docente in pensione, che tiene un corso di lingua rivolto ad adulti migranti, dalle cinque del pomeriggio fino alle sei e mezza. “Il mio insegnante Mauro era molto bravo. A lui devo l’italiano che parlo oggi. Livello A1, poi il livello A2. Quindi, la conversazione. Quando ho cominciato a capire la lingua ho cominciato a sentirmi a casa in Italia.” Che cosa faceva sentire a casa il ricercatore Vastan Galstyan? Il sorriso si trasforma in una risata trattenuta. “Tutto mi faceva sentire a casa. Anche la burocrazia. E’ un po’ strano da dire. I miei amici e i miei colleghi mi dicevano: hai imparato molto bene anche a gestire i documenti a fare richieste agli uffici. Non ho imparato, ribattevo.  Anche da noi è così. Per raggiungere un punto B da un punto A non puoi tracciare una retta: il percorso è tortuoso. Mi sentivo bene in Italia. Quando il Professore mi ha proposto la proroga io sono rimasto. Poi c’è stata una trasformazione organizzativa. E ho cominciato a collaborare con il dipartimento di Ingegneria dell’Informazione. Intanto conoscevo la città. A Brescia, al sabato e alla domenica visitavo le Chiese, i luoghi culturali per purificare il cervello, la testa. Ogni giorno puoi trovare qualche cosa di molto bello.

L’italiano è la lingua della relazione sociale e l’inglese è la lingua del lavoro. “Scrivo articoli e progetti in inglese. Non sono madrelingua. L’italiano lo leggo e faccio esercizio ogni giorno, ma non sono mai soddisfatto. Penso che lo dovrei parlare molto meglio.

 

 

La lingua ha permesso di tessere un fitto ordito di contatti. “Torno in Armenia ogni anno. Quando sono in Italia mi manca l’Armenia. E quando mi trovo in Armenia mi manca molto l’Italia. Come lavoratore sono cresciuto in Italia. Dopo il dottorato ho cominciato qui il mio primo lavoro. Ormai conosco più persone in Italia che in Armenia.”

Quali sono state le difficoltà di integrazione? “Mai ho avuto la sensazione di essere uno straniero

Forse è l’effetto dell’accoglienza della comunità scientifica, nel nome della ricerca e di un interesse culturale alto. “Prima del trasferimento a Brescia, qualcuno mi aveva detto del tratto caratteriale di chiusura dei bresciani. Non l’ho riscontrato. Forse lo hanno nascosto molto bene! Quando andavamo da qualche parte, io dicevo: vado io per primo e se dicono qualche cosa io dirò: io sono straniero! E tutti ridevano della mia battuta. Ho avuto una possibilità di andare negli Stati Uniti. Ma non sono andato. Mia sorella abita a Rennes, in Francia. Quando ho una vacanza lunga vado in Armenia e quando ho una vacanza breve vado da mia sorella. La mia difficoltà di integrazione è stata soprattutto all’inizio. Quando capivo poco la lingua. Non capivo le battute. Impossibile trascorrere tempo in compagnia in modo leggero.”

A Brescia fino allo scorso anno. Dove avrebbe potuto anche insegnare. “Io prediligo la ricerca. Ho bisogno di fare ricerca. Per questo motivo ho cercato una possibilità presso il Cnr. L’Imem) di Parma, Istituto per i materiali elettronici e del magnetismo (in capo al Consiglio Nazionale delle Ricerche, ndr) è molto vicino al mio campo di studi.”

Da Erevan a Parma, dalla capitale armena a un capoluogo di provincia emiliano. “Parma è una città vivace. L’Università è più importante di quella di Brescia. Ma è difficile attraversare la città: non c’è la metropolitana. Sarebbe molto utile. Io viaggio molto e mi rendo conto di quanto siano importanti i mezzi di trasporto pubblico, agili e frequenti. Lo penso ogni volta che torno a Erevan oppure a Brescia.”

Erevan e la storia del Paese sono presenti e vivi nella memoria del giovane studioso. “La storia del Paese è travagliata. A partire dall’inizio del secolo scorso. Le date periodizzanti raccontano parzialmente gli eventi. Il genocidio degli armeni è datato 1915. Ma è stato anticipato largamente da diverse ondate di eventi. Che si sono alternati e più di una volta con sfumature diverse rispetto a come sono state raccontate le cose. I rapporti degli ambasciatori descrivono la dinamica della successione degli eventi in modo più realistico rispetto alla narrazione proposta successivamente. L’Armenia è un Paese che conta un alto numero di suoi cittadini residenti in altri Paesi. Intorno, un groviglio di confini amministrativi definiti a tavolino durante il regime comunista.  Verso la fine del regime sovietico, io ricordo la tensione all’autonomia dei territori d’intorno. Anche se io sono cresciuto in una parte della città dove c’era tutto. Ho fatto diversi tipi di sport. Negli anni Novanta l’Armenia non era un Paese molto ricco ma per me la vita è stata normale. Per molte altre persone la vita, invece, è stata difficile.

La comunità armena in America conta due milioni di persone, in Francia forse un milione.

Fuori dall’Armenia vivono circa dieci milioni di armeni, mentre in Armenia la popolazione è di tre milioni e duecentomila persone.

L’Armenia è un Paese che ha sempre avuto forti collegamenti con gli Stati Uniti e con l’Europa. Quasi tutte le famiglie avevano un componente fuori dai confini. Anche in Libano e in Siria vivono comunità armene. Abbiamo sempre avuto contatti molto diretti con molti Paesi del mondo. Altre persone si sono trasferite in Russia. In Russia ci si sente molto bene. E’ un Paese molto sviluppato. Quando parli con la gente, capisci che il Governo è una cosa e il popolo è un’altra.

Un’abitudine culturale radicata alle relazioni sociali fuori dai confini. “Solo ora capisco che non siamo mai stati sovietici fino in fondo. Perché non sono mai sbiaditi i rapporti culturali con chi sta fuori dai confini.”

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Il difficile cammino verso la pace fra Armenia e Azerbaigian, fra proteste e raduni (Scenarieconomici 12.05.24)

Ieri si sono conclusi i negoziati tra Ararat Mirzoyan, Ministro degli Affari Esteri della Repubblica di Armenia, e Jeyhun Bayramov, Ministro degli Affari Esteri della Repubblica di Azerbaigian, ad Almaty, in Kazakistan.

I Ministri hanno accolto con favore i progressi sulla delimitazione e gli accordi raggiunti a questo proposito. I Ministri e le loro delegazioni hanno proseguito le discussioni sulle disposizioni del progetto di Accordo bilaterale sull’istituzione della pace e delle relazioni interstatali tra l’Armenia e l’Azerbaigian. Le parti hanno concordato di continuare i negoziati sulle questioni aperte in cui esistono ancora delle differenze.

Trattive armeno-azere

Quindi tutto bene, ma solo in apparenza: i colloqui, che comportano anche l’abbandono di alcuni villaggi al confine fra Armenia e Azerbaigian, oltre che l’addio a ogni pretesa sul Nagorno Karabakh, ha provocato delle profonde proteste. A Yerevan molte persone si sono radunate per potestare contro gli accordi. La polizia ha operato 41 arresti di manifestanti, mentre ha dovuto stabilire un cordone protettivo attorno al Parlamento. La manifestazione si basa soprattutto su un invito alla disobbedienza civile.

I manifestanti chiedono le dimissioni del primo ministro Nikol Pashinyan attraverso un voto di sfiducia, proprio per il suo atteggiamento, giudicato rinunciatario, nelle trattative con l’Azerbaigian.

Uno dei leader della protesta pare essere il vescovo Bagrat Galstanyan che ha tenuto un discorso ai manifestanti in Piazza della Repubblica a Yerevan, elencando la sequenza di obiettivi dei partecipanti al movimento.

L’arcivescono Bagrat Galstanyan parla alla folla

Se avete a cuore la vostra patria, la statualità, il sangue e le vite dei nostri figli caduti, non importa quanto siano difficili questi 2-3 giorni, dovremo passare attraverso queste sofferenze per ottenere la vittoria attraverso queste sofferenze. Non ci sarà altro modo.

Di conseguenza, dal momento che vi ha ignorato e non ha risposto, ha escluso coloro che lo hanno eletto, e questa richiesta è la richiesta dell’intera nazione, non solo di coloro che si sono riuniti in piazza, ma dell’intera Armenia e della Diaspora, che hanno separato: ci sono famiglie che non si parlano.

Lo costringeremo a farlo. Il primo passo che faremo sarà un voto di sfiducia all’Assemblea Nazionale e la sua rimozione. Discuteremo con le tre fazioni dell’Assemblea Nazionale per organizzare questo processo, come e quanto ne discuteremo. Se la risposta continuerà ad essere il silenzio, intraprenderemo atti pacifici di disobbedienza”.

Oggi sono attese colonne di manifestanti da altre città dell’Armenia che si uniranno a quelli già presenti per chiedere la sfiducia al governo Pashinyan. Auguriamoci che tutto questo comunque avvenga in modo pacifico e, comunque, allo stato attuale non sembra che l’Armenia abbia molte alternative alle trattative.

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MONDO Armenia: fra tensioni interne e nuovi venti di guerra (RSI 11.05.24)

La sconfitta dell’Armenia nel Blitzkrieg del 2023 con l’Azerbaigian ha innescato da un lato nuove tensioni interne nella piccola repubblica del Caucaso, dall’altro – insieme con il processo di pacificazione che va a rilento – ha lasciato aperta la porta a nuovi venti di guerra. Le tensioni tra le due repubbliche ex sovietiche del Caucaso, che dalla caduta dell’URSS si sono scontrate militarmente quattro volte, proseguono concretamente sulla lunga linea di confine, circa 1’000 km, e soprattutto nelle varie exclavi createsi nel corso degli anni su entrambi i lati. Lo scorso aprile i due paesi comunque si sono accordati – dopo la ripresa del controllo azerbaigiano sul Nagorno Karabakh, regione a maggioranza armena al centro del conflitto lo scorso anno – al ritorno dei confini stabiliti con gli accordi di Alma Ata del 1991.

La pace difficile

La road map verso il rispetto delle intese è però densa di ostacoli, poiché da una parte in Armenia le forze nazionaliste e di opposizione sono restie nel sostenere il governo del premier Nikol Pashinyan, accusato di essere troppo accondiscendente verso la controparte azerbaigiana. Sull’altro versante il presidente azerbaigiano Ilham Aliyev ha accentuato a sua volta la retorica patriottica e militarista, suscitando preoccupazione anche nella comunità internazionale per il pericolo di una nuova escalation che possa coinvolgere le potenze limitrofe: dalla Russia, storica alleata dell’Armenia, alla Turchia, partner strategico dell’Azerbaigian.

Le difficoltà interne dell’Armenia

Le recenti proteste a Erevan contro il governo e il premier Pashinyan sono solo le ultime di una lunga serie che ha scosso la fragile democrazia caucasica negli ultimi anni. L’Armenia è il più povero degli stati ex sovietici del Caucaso ed è sempre stata molto dipendente economicamente dalla Russia, sia nei rapporti commerciali che energetici. Inoltre Mosca, che ha una base militare a Gyumri, nel nord del paese, ha assunto negli scorsi decenni il ruolo di mediatore nelle diatribe con l’Azerbaigian, inviando vari contingenti di peacekeeping nell’ambito di missioni internazionali. Dal 2018, con l’elezione di Pashinyan, le relazioni con la Russia sono però peggiorate e allo stesso tempo, dopo le sconfitte nelle guerre del 2020 e del 2023, il Paese ha dovuto affrontare crescenti turbolenze. Il premier, nonostante l’indebolimento su entrambi i fronti, è riuscito a rimanere in sella, anche a causa del fatto che la disunita opposizione non ha mai rinserrato le fila e non ha proposto alternative credibili. Il conflitto più recente, con la perdita del Nagorno Karabkh e la questione dei confini, stanno però mettendo in pericolo la già precaria stabilità.

Il ruolo della Chiesa

Le grandi manifestazioni di piazza a Erevan, guidate dall’arcivescovo Bagrat Galstanian, capo della diocesi della chiesa ortodossa armena di Tavush, al confine con l’Azerbaigian, hanno acceso il confronto politico, che ora ha appunto un nuovo protagonista. La decisione tattica da parte del governo armeno di cedere all’Azerbaigian, unilateralmente, quattro villaggi di confine, sarebbe dovuta servire secondo Pashinyan a gettare acqua sul fuoco. Ma parte della popolazione armena ha visto nel primo ministro una sorta di traditore e si è riunita dietro Galstanian, che sta incarnando l’anima religiosa e nazionalista di una buona fetta di armeni. Il governo ha invece accusato l’arcivescovo di essere al soldo della Russia e voler provocare un’altra guerra. Pashinyan da parte sua mercoledì scorso era a Mosca, dove ha incontrato Vladimir Putin, che ha confermato il ritiro di alcuni contingenti russi dal paese, mentre truppe del Cremlino rimarranno comunque per sorvegliare il confine meridionale, quello con l’Azerbaigian e l’Iran.

Il disimpegno russo

I difficili rapporti tra Putin e Pashinyan, che sta tentando di allontanare il paese dall’orbita del Cremlino, e il fatto che Mosca è comunque impegnata sullo scacchiere ucraino, stanno conducendo a un progressivo e almeno temporaneo disimpegno russo nel Caucaso. Il problema per l’Armenia è che così il Paese rimane più esposto alle tensioni con l’Azerbaigian e con la Turchia, mentre gli attori occidentali, UE e Stati Uniti, rimangono di fatto alla finestra. Concretamente il doppio rischio è quello della crescente stabilità interna e di nuove fiammate di guerra, con l’asse tra Baku ed Ankara che preme per aprire un corridoio nel sud dell’Armenia, collegando direttamente i due paesi.

Civitavecchia – Carlo Verdone all’importante incontro sull’Armenia (Assadakah 11.05.24)

Assadakah News – L’Armenia e uno dei suoi più grandi poeti Yeghishe Charents saranno l’oggetto dell’eccezionale incontro che si terrà a Civitavecchia, giovedì 16 maggio alle ore 17,30 al Teatro della Fondazione Ca.Ri.Civ in piazza Verdi. L’evento “Della mia dolce Armenia – Un poeta nel dramma degli Armeni – Yeghishe Charents”, è organizzato dall’Associazione Spazio Libero, presieduta dal dottor Fabrizio Barbaranelli, ex sindaco della città di Civitavecchia. Parteciperanno all’incontro l’Ambasciatore della Repubblica d’Armenia in Italia Tsovinar Hambardzumyan che, in questo suo mandato sta svolgendo un’attività diplomatica molto attiva; l’attore e regista Carlo Verdone e la giornalista e scrittrice Letizia Leonardi, autrice del libro-biografia “Yeghishe Charents – Vita inquieta di un poeta”.

 

A moderare l’incontro sarà l’ex docente universitario Nicola Porro. Le letture saranno a cura del professore Ettore Falzetti. Sono previsti i saluti del Sindaco di Civitavecchia Ernesto Tedesco e della Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Civitavecchia Gabriella Sarracco.


 

Armenia, massicce proteste contro il premier Pashinyan per un accordo con l’Azerbaijan (Euronews 10.05.24)

I manifestanti chiedono le dimissioni immediate del primo ministro per aver ceduto alcuni villaggi nel delineare la linea di confine con il vicino e rivale Azerbaijan. A guidare il movimento “Tavush for motherland” l’arcivescovo Bagrat Galstanyan

Decine di migliaia di persone si sono riunite giovedì nel centro di Yerevan, la capitale dell’Armenia, per protestare contro un accordo di demarcazione dei confini con l’Azerbaijan firmato dal primo ministro Nikol Pashinyan.

I manifestanti chiedono al premier di dimettersi per la decisione del suo governo di cedere il controllo di alcuni villaggi di confine con il Paese rivale. Molti di loro hanno percorso una distanza di circa 160 chilometri, arrivando da questi villaggi, solo per essere in piazza.

A guidare il movimento “Tavush for the motherland” (Tavush è la provincia orientale di cui l’Armenia sarebbe pronta a cedere ampie porzioni) è un ecclestiastico di alto livello della Chiesa apostolica armena, l’arcivescovo Bagrat Galstanyan della Diocesi di Tavush, che dal palco di piazza della Repubblica ha più volte incitato la folla a “una nuova visione, una nuova narrazione, un nuovo corteo, una nuova vittoria”.

Ci sarebbero stati anche una serie di episodi di disobbedienza civile pacifica, come il blocco stradale degli ingressi alla città e l’astensione dalle lezioni nell’Università statale di Yerevan.

Armenia e Azerbaijian hanno combattuto due guerre dal crollo dell’Unione sovietica. Lo scorso settembre, con un’operazione militare lampo, Baku ha preso il controllo definitivo del Nagorno-Karabakh, una regione interna al territorio azero ma maggioranza etnica armena contesa tra i due Paesi per oltre trenta anni.