La battaglia per la sopravvivenza e la libertà di espressione della comunità armena di Gerusalemme (Globalvoices 21.12.23)

Nel cuore della Città Vecchia di Gerusalemme la comunità armena, famosa per la sua resilienza e la sua preziosa e secolare eredità culturale, sta combattendo una dura lotta per la sopravvivenza. Con l’inasprimento delle tensioni a livello regionale, la comunità è alle prese con delle sfide che mettono in pericolo non solo la libertà di espressione dei suoi membri, ma anche il loro dialetto distintivo, unico a Gerusalemme e ora sull’orlo dell’estinzione, oltre alla loro ricca cultura ed esistenza stessa.

Nel luglio 2021, il Patriarcato armeno di Gerusalemme aveva firmato con discrezione un contratto di compravendita immobiliare, cedendo il 25 per cento del proprio quartiere a un colono e investitore israelo-australiano. Ciò ha gettato la comunità armena in crisi, portandola ad affrontare la minaccia imminente della perdita di una porzione significativa [en, come tutti i link successivi, salvo diversa indicazione] del proprio quartiere.

Mentre la comunità sospendeva temporaneamente i procedimenti avviati a seguito della scoperta di tale accordo, avvenuta nel maggio 2023, le ruspe, accompagnate da coloni israeliani armati, avevano già avviato lo scavo del parcheggio che circonda il monastero del Patriarcato apostolico armeno di Gerusalemme.

La minoranza etnolinguistica armena è presente [it] in Terra santa sin dal quarto secolo, con una storia che comprende l’aiuto prestato ai sopravvissuti al genocidio armeno del 1915. Dopo la guerra del 1948, la popolazione armena di Gerusalemme si è ridotta agli scarsi 2000 residenti attuali, che vivono per la maggior parte all’interno del quartiere armeno [it].

Il sito ospita il seminario teologico del Patriarcato, la confraternita di San Giacomo, antiche chiese, un museo, una biblioteca, un poliambulatorio e la scuola armena Sts. Tarkmanchatz, fondata nel 1929. In questa scuola, i bambini armeni non solo imparano la propria lingua, ma vengono anche coinvolti in attività all’interno del cortile: uno spazio di cruciale importanza, nel quale la comunità si riunisce, conversa nella propria lingua madre e salvaguarda la propria identità culturale.

Global Voices ha condotto un’intervista con un residente armeno di Gerusalemme, il quale ha scelto di restare anonimo per questioni di sicurezza legate alla guerra in corso a Gaza e alla minaccia affrontata dal quartiere armeno.

L’intervista approfondisce il clima politico e di sorveglianza a Gerusalemme, gettando luce su questioni quali discriminazione, discorso d’odio e le crescenti limitazioni alla libertà di espressione.

L’intervista, di cui il residente è co-autore e che è stata revisionata per maggiore chiarezza, offre un prezioso sguardo sulle sfide che la comunità armena si trova ad affrontare nel tentativo di preservare la propria lingua e identità culturale nella regione.

Mariam A. (MA): Come state affrontando la situazione di Gerusalemme e Gaza?

Armenian Resident (AR): È davvero difficile. La situazione attuale a Gerusalemme, il genocidio in corso a Gaza, e il fatto che ci sentiamo paralizzati e incapaci di fare qualcosa contribuisce ad accrescere questo schiacciante senso di impotenza.

Ciò che mette maggiormente in difficoltà gli abitanti non ebrei di Gerusalemme è il fatto che ci abbiano vietato di esprimere qualsiasi tipo di compassione o preoccupazione. Siamo testimoni di uno stato di sorveglianza completa, di una città militarizzata, con gran parte dei civili [ebrei] armati di fucile, e di un’aumentata presenza di agenti di polizia e soldati che pattugliano la città.

Si ha costantemente paura di essere fermati in qualunque momento, col rischio che ti prendano il telefono e che le forze di sicurezza analizzino i suoi contenuti.

Ho controllato la legge sullo stato di emergenza, e dice che le Forze di difesa israeliane (IDF – Israel Defense Forces) hanno il diritto di accedere a spazi privati, comprese le case, o di passare in rassegna i beni personali in caso di sospetti. Questa disposizione legale legittima tali azioni.

Essendone consapevoli, le persone stanno cercando di monitorare non solo le proprie parole, ma anche i propri pensieri, temendo di mettersi potenzialmente in pericolo qualora sappiano più di quanto viene giudicato accettabile sulla situazione attuale.

Direi che al momento siamo in uno stato di paranoia.

MA: Si sono verificati episodi in cui dei membri della comunità sono stati fermati e controllati, e durante i quali i loro telefoni sono stati confiscati? 

AR: Sì, ho assistito a vari episodi mentre camminavo in diverse parti della città. Fermano ragazzi perché sospettati di essere arabi, perquisendoli a fondo e controllando anche i loro telefoni.

So di casi particolari che hanno coinvolto giovani studenti, sia uomini che donne, ai quali sono stati presi i telefoni. Se vi trovavano messaggi o post sui social media che esprimevano compassione o preoccupazione per la situazione attuale, gli studenti venivano trattenuti.

MA: Credi che la comunità armena sia influenzata dalla mentalità della sorveglianza, o ti sembra che ne siate immuni? 

AR: Nessuno ne è immune. Ciò a cui abbiamo assistito, non solo durante questa guerra ma persino prima, è la tendenza ad enfatizzare il fatto che ci troviamo in una città esclusiva e in un paese esclusivo. Una marea di persone, soprattutto giovani, urlano con arroganza dei cori che parlano di uno stato soltanto ebreo, affermando che lo stato di Israele è questo.

La cosa triste è che questa ondata di fanatismo non riconosce la diversità; la pericolosità di tale pensiero consiste nel mancato riconoscimento degli individui non ebrei per quello che sono, focalizzandosi invece su ciò di cui non fanno parte. Non riconosce gli armeni, i cristiani, i palestinesi, che tipo di musulmani sono, hanno delle famiglie? Hanno degli animali domestici?

Questa tendenza classifica le persone come qualcosa che non appartiene a qualcos’altro. Quindi la loro identità non viene nemmeno vista come tale. Viene negata.

MA: Considerando questo scenario politico, come se la sta passando la libertà di espressione della comunità armena? Pensi che la comunità possa esprimere apertamente le proprie opinioni e identità? 

AR: Buffo che tu lo chieda. Abbiamo discusso molto di questa particolare questione all’interno della comunità armena. A partire dal genocidio del 1915, gli armeni sono stati una minoranza in diverse parti del mondo.

La cosa divertente è che gran parte degli armeni si fanno assimilare, evitando deliberatamente ciò che lo stato potrebbe percepire come “problematico,” restando alla larga dalla politica. Si adattano rapidamente, abbracciando nuove lingue, contribuendo con le proprie capacità e coesistendo armoniosamente con le società che li ospitano. Provano gratitudine nei confronti dei paesi che hanno offerto loro un rifugio dopo il genocidio, preservando al tempo stesso la lingua, il cibo e la cultura armeni. Sono sempre stati i benvenuti.

A Gerusalemme, ad esempio, nel 1833 gli armeni hanno fondato la prima tipografia e hanno introdotto la fotografia e la lavorazione a mano della ceramica nella regione.

Quindi per noi è strano vedere che persino gli armeni sono considerati una minoranza sgradita dagli israeliani.

Negli ultimi anni, molti israeliani hanno cominciato a sputare sulle figure religiose, a bestemmiarle e persino a spingerle nei vicoli. Prendono di mira quelle persone che giudicano incompatibili con la loro visione di uno stato soltanto ebreo.

Un video mostra il membro di una comunità di ebrei ultraortodossi che sputa su una suora cristiana nei pressi della Porta dei leoni a Gerusalemme.

C’è parecchio silenzio.

Le persone non esprimono ciò che pensano davvero; hanno troppa paura di esprimere la propria opinione o di criticare lo stato. Il sistema ci obbliga a tenere la bocca chiusa ed evitare problemi quanto più possibile.

Mi sto persino chiedendo se valga la pena avere questa conversazione o contribuire a questo articolo. Mi fa sentire impotente e codardo. Tuttavia, guardandomi attorno, mi rendo conto che la maggior parte delle persone è spaventata. Si autocensurano, tanto offline quanto online.

Questa mentalità esclusiva genera discriminazioni nei confronti degli arabi cristiani e degli armeni. Innanzitutto, non dovrebbe discriminare nessuno. Ma il fatto che prenda di mira delle minoranze la dice lunga sulla mentalità del paese in questo momento.

MA: A gennaio, dei coloni hanno inciso degli slogan incitanti all’odio sulle pareti del Patriarcato armeno di Gerusalemme, esortando alla vendetta e augurando la morte ad arabi, armeni e cristiani. Puoi fornirci maggiori dettagli su questi episodi e approfondire il modo in cui impattano la comunità?

AR: Ci sono stati molti episodi e sono anche in aumento.

Le pareti del convento armeno nel quartiere armeno di Gerusalemme sono state vandalizzate da frasi incitanti all’odio, riferisce il Comitato nazionale armeno di Gerusalemme.

Le frasi “Morte agli armeni, ai cristiani, agli arabi e ai gentili,” insieme ad esortazioni alla vendetta, sono state scritte sulle pareti.

Succede contro persone che hanno l’aspetto di religiosi e contro luoghi che non sono strettamente ebrei.

ULTIME NOTIZIE: degli estremisti israeliani hanno appena attaccato il Patriarcato armeno nei quartieri armeni di Gerusalemme, provando a rimuovere le bandiere dell’Armenia.

Un armeno è stato preso e trattenuto mentre proteggeva il Patriarcato.

Nel quartiere armeno, dei coloni sono stati visti sputare contro i locali armeni. Se qualcuno prova a difenderli o dice “hey, qual è il tuo problema?” deve vedersela con lo spray al peperoncino, se non con i fucili, cose che spesso restano impunite.

🇮🇱 Un colone israeliano è stato filmato dalla CCTV mentre sputava sui cancelli di una chiesa armena nella parte occupata della Gerusalemme orientale.

Questo genere di comportamento è esattamente ciò per cui si battono quegli invasori.

Chi viene a farci visita dall’Armenia si stupisce del nostro atteggiamento “remissivo”; ci chiedono “Come affrontate questo genere di attacchi radicali e sfrontati? Perché non reagite? Perché non fate niente al riguardo?”

Non capiscono che la gente non può fare molto perché lo stato può appropriarsi di documenti, rescindere concessioni edilizie, sfrattare residenti, confiscare proprietà o trattenere individui. Se le persone attaccate provassero a difendersi, questo giustificherebbe soltanto ulteriori attacchi.

MA: Tenendo conto dell’atmosfera attuale e delle numerose minacce, come i problemi di sicurezza, il discorso d’odio e le minacce alla vostra stessa esistenza, come preservate la vostra lingua e la vostra identità culturale? 

AR: Nel cortile della nostra comunità noi parliamo la nostra lingua e la manteniamo più che viva. Viene usata durante le nostre riunioni e nelle comunicazioni. Noi la amiamo e ci siamo legati, perché gioca un ruolo importante nel rafforzare il nostro senso di identità e comunità.

Il cortile rievoca i ricordi d’infanzia. Quando la città è sotto minaccia, la comunità armena si riunisce nel cortile. È sempre stato un paradiso sicuro.

Con la guerra in corso, armeni di varie parti del paese, come Yafa e Haifa, si sono temporaneamente trasferiti o hanno cominciato a portare i loro figli in cortile. È un posto bellissimo per i bambini, con i locali e la scuola. Quando cerchiamo un senso di unione, di solito è lì che lo troviamo.

Quando mio padre è venuto a mancare, ho vissuto in prima persona il potere della comunità. Quasi tutti hanno partecipato al funerale, arrivando in massa. È in quel momento che ho davvero compreso la forza della nostra comunità. Noi ci siamo l’uno per l’altro.

Spero che il monastero rimanga, anche se di questi tempi siamo cinici. Nonostante le nostre incertezze, di una cosa sono sicuro: la nostra è una bellissima comunità.

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La Russia aggiornerà la centrale nucleare di Metsamor in Armenia. Aumenta la dipendenza di Yerevan da Mosca (Scenarieconomici 21.12.23)

I lavori di ristrutturazione saranno eseguiti da Rustatom Service JSC, una filiale della società statale russa di energia nucleare Rosatom, e costeranno al governo armeno 65 milioni di dollari.

L’accordo è un altro promemoria della vasta influenza della Russia sulle infrastrutture e sull’economia armena, nonostante gli sforzi di Yerevan per prendere le distanze da Mosca.

Metsamor svolge un ruolo significativo nel panorama energetico dell’Armenia, contribuendo in media al 31% della produzione annuale di elettricità del Paese. Questo lo rende un impianto essenziale alla vita economica armena.

È l’unica centrale nucleare del Caucaso meridionale, situata a circa 30 chilometri a ovest di Yerevan. È composta da due unità, Metsamor-1 e Metsamor-2, attivate rispettivamente nel 1976 e nel 1980. Nel 1989, l’impianto è stato chiuso per problemi di sicurezza dopo il devastante terremoto di Spitak del dicembre 1988. Nel 1995, l’unità 2 è stata riattivata a causa della carenza di energia in Armenia e da allora è l’unica unità nucleare in funzione.

Nel 2021, Rosatom ha riparato e ammodernato la centrale nucleare per farla funzionare fino al 2026. L’ammodernamento è stato realizzato nell’ambito di un accordo di prestito firmato tra Armenia e Russia nel 2015.

In base al nuovo accordo, Rosatom contribuirà a prolungare la durata di vita dell’Unità-2 fino al 2036, dopodiché verrà disattivata definitivamente. Quindi ora Yereval ha 12 anni per trovare una soluzione energetica alternativa alla vecchia centrale.

Le operazioni di ammodernamento saranno finanziate sotto forma di “prestito di bilancio” concesso dal governo armeno verso l’iimpianto statale, che successivamente stipulerà un contratto con Rosatom. Nel periodo 2024-2026, Rosatom modernizzerà la centrale nucleare di Metsamor in stretta collaborazione con gli specialisti armeni.

Poiché il reattore sarà dismesso nel 2036, il governo armeno intende costruire una nuova unità nucleare a Metsamor. Secondo diverse stime, la costruzione di una nuova centrale o unità nucleare richiederà 6-10 anni, il che significa che i lavori di costruzione dovranno essere avviati nei prossimi due anni.

Sembra che i lavori di costruzione saranno realizzati da Rosatom, a giudicare dalla dichiarazione del vice primo ministro russo Alexey Overchuk del 15 dicembre, secondo cui erano in corso trattative per la costruzione di nuove unità nucleari.

La schiacciante dipendenza energetica dalla Russia

Il nuovo accordo Metsamor arriva in un momento complicato per le relazioni armeno-russe. Il risentimento nei confronti della Russia è alto in Armenia. L’Azerbaigian ha conquistato militarmente il Nagorno-Karabakh a settembre, apparentemente con la benedizione di Mosca.

Nonostante i continui sforzi per diversificare le sue alleanze politiche e costruire legami più stretti con l’Occidente, l’economia armena continua a dipendere in larga misura dalla Russia. La Russia è il principale partner commerciale dell’Armenia, che è membro dell’Unione Economica Eurasiatica (EAEU) e dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO) a guida russa.

Dal punto di vista energetico poi la dipendenza è quasi totale:  la Russia fornisce l’87,5% del gas dell’Armenia (il resto proviene dall’Iran) e Gazprom Armenia, la filiale locale dell’azienda statale russa del gas, possiede tutte le infrastrutture di distribuzione del gas del Paese.

L’Armenia afferma di generare il 98% dell’elettricità di cui ha bisogno, ma questa affermazione nasconde una dipendenza ancora maggiore.

L’elettricità è generata da centrali idroelettriche e termiche e dalla centrale nucleare di Metsamor. Metsamor è interamente alimentata da uranio importato dalla Russia, mentre le centrali termiche dipendono dal gas naturale (in gran parte russo).

Questo viene a limitare fortemente la reale indipendenza dell’Armenia, che, oggettivamente, non può sganciarsi completamente da Mosca.

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Nagorno Karabakh, una storia di mediazioni (Osservatorio Balcani e Caucaso 20.12.23)

La storia della mediazione nel conflitto intorno al Nagorno Karabakh è complessa, con l’alternarsi di momenti di negoziati multilaterali, trilaterali, bilaterali. Anche l’amministrazione Biden è stata attiva nella mediazione, in linea con un ruolo ereditato dalla scomparsa del Gruppo di Minsk

20/12/2023 –  Marilisa Lorusso

Il cessate il fuoco del 1994 è frutto di un tavolo trilaterale: Russia, Azerbaijan, armeni. È opportuno dire armeni e non Armenia, perché all’epoca furono coinvolti anche i secessionisti del Nagorno Karabakh come parte diretta e riconosciuta come belligerante. Per la risoluzione pacifica del conflitto si era poi pensato in seno all’OSCE a una conferenza estesa, la conferenza di Minsk. Al tavolo si sarebbero ipoteticamente trovati a sedere Bielorussia, Germania, Italia, Svezia, Finlandia e Turchia, più i tre co-presidenti del Gruppo di Minsk, quindi Stati Uniti, Francia e Russia, e ovviamente Armenia e Azerbaijan.

Il tutto era descritto come il processo di Minsk. Di fatto l’ipotesi di poter organizzare la conferenza di pace è poco alla volta naufragata sotto l’evidente difficoltà di trovare un punto di incontro fra posizioni sempre più divergenti ed inconciliabili fra le parti, per cui il Gruppo di Minsk è divenuto l’unico strumento di mediazione che per trent’anni ha viaggiato fra le capitali, cercando di creare i presupposti per una pace negoziata.

Questo strumento negoziale è entrato in profonda crisi con la guerra del 2020. L’Azerbaijan ha da subito reso noto che riteneva che il Gruppo avesse fallito e fosse divenuto ormai obsoleto ed inutile. Nei tre anni che hanno separato le due fasi della guerra di riconquista del Karabakh, Armenia e Karabakh hanno cercato di restituire un ruolo alla co-presidenza. Ma sia la guerra in Ucraina e quindi la difficoltà di cooperare con la Russia, sia la definitiva ripresa del Karabakh attraverso un’azione militare sono stati la pietra tombale di questo tentativo di diplomazia multilaterale  .

Il trilateralismo

Nel triennio 2020-2023 i tre co-presidenti Russia, Francia, Stati Uniti hanno cercato di mantenere attivo il proprio ruolo di mediatori.

La Russia – come nel 1994 – si è resa protagonista della mediazione di un cessate il fuoco e ha proceduto con dichiarazioni e accordi congiunti, mettendo cioè sempre la propria firma accanto a quella di Armenia e Azerbaijan. Il ruolo che quindi Mosca vuole svolgere non è solo quello di mediatore, ma di garante o co-segnatario con incarichi operativi e voce in capitolo sui contenuti dell’accordo.

La Francia ha intensificato i propri rapporti con l’Armenia, a scapito di quelli con l’Azerbaijan che diventano sempre più tesi. Ha cercato di rientrare in un formato multilaterale attraverso le iniziative di Bruxelles, estendendo il formato trilaterale Bruxelles-Yerevan-Baku a un quintetto che includesse Parigi e Berlino. Ma dopo un incontro esplorativo, Baku ha dato inequivocabili segni di non apprezzare l’iniziativa, al punto che non si è proprio più presentata ad alcuna iniziativa di mediazione europea.

Gli Stati Uniti hanno dato il via a un proprio formato trilaterale, chiarendo di considerarsi solo facilitatori degli incontri. Le due parti devono concordare la pace, e Washington offre loro strumenti, spazi e tempi per parlare. In questa veste ha lanciato anche un formato inusuale: per tre giorni, dal 27 al 29 giugno 2023 ha ospitato ad Arlington in Virginia, presso il George Schultz National Foreign Affairs Training Center i ministri degli Esteri di Armenia e Azerbaijan, perché dessero fondo a intensi negoziati, prevalentemente bilaterali. Nel formato trilaterale, gli Stati Uniti mettono a disposizione delle parti il Dipartimento di Stato. È infatti Antony Blinken a presiedere gli incontri.

A differenza del conflitto in Ucraina, in cui è il presidente Joe Biden a tenere aperta la linea con la presidenza ucraina, per il conflitto in Karabakh è Blinken a relazionarsi con le parti. Questo denota che nonostante l’amministrazione Biden abbia dedicato tempo e attenzione al conflitto armeno-azero, il livello di impegno è inferiore rispetto a quanto dimostrato dagli altri due ex co-presidenti, che nei rispettivi formati negoziali hanno visto in prima linea proprio i presidenti, sia quello francese che quello russo.

Il bilateralismo

La sorte dei format trilaterali è in bilico. Sia Mosca che Washington che Bruxelles non riescono più a portare al proprio tavolo negoziale le parti. Baku è galvanizzata dai propri successi, dal sicuro sostegno turco, e ritiene di poter massimizzare i propri risultati in via bilaterale. Yerevan è aperta ad un negoziato bilaterale per le questioni tecniche e umanitarie, che si tratti dei confini, del supporto reciproco funzionale a eventi vari, o allo scambio di prigionieri.

Ma teme il formato bilaterale per una risoluzione politica della guerra. In un trattato di pace senza l’intervento della comunità internazionale, solo frutto della capacità negoziale delle parti, potrebbe trovarsi a subire un testo che risente molto degli attuali rapporti di forza. Per questo sollecita di tornare al tavolo di Bruxelles o di Washington. Non menziona Mosca. Ma l’Azerbaijan, per ora, lascia poco spazio alla mediazione internazionale. Poco alla volta tutti i tavoli negoziali sono caduti in disgrazia.

Per Baku la causa, o il pretesto, per escludere Washington è stata l’attività di USAID e le misure e le parole adottate dal Congresso. L’​​Azerbaijan ha manifestato una completa insoddisfazione per i contenuti espressi e le misure adottate, avviando una campagna aggressiva contro USAID, mettendo in discussione il ruolo dell’organizzazione e – personalmente – la professionalità della presidente Samantha Power,  che era stata a Yerevan nei giorni seguenti il conflitto di settembre.

La sottocommissione del Comitato per gli Affari Esteri della Camera dei Rappresentanti ha tenuto un’audizione sul “Futuro del Nagorno Karabakh” durante la quale la questione è stata affrontata in termini molto espliciti verso l’Azerbaijan  . A metà novembre, il Senato ha approvato l’“Armenian Protection Act del  2023”.

Un incontro trilaterale fra le parti previsto per il 20 novembre è stato annullato. Gli USA rimangono a disposizione  , ma per il momento non è chiaro come si evolverà la negoziazione del conflitto, e di conseguenza quanto questa amministrazione potrà essere coinvolta nel ruolo di facilitatore, né come lo potranno essere gli altri, mediatori o garanti che vogliano essere.

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The Passenger – La comunità Armena (Radioroma 20.12.23)

The Passenger Andrea Candelaresi questa volta ci porta per mano alla scoperta della comunità armena del nostro Paese.

Sono circa 1200 gli armeni che vivono in Italia, un numero esiguo, anche se questa comunità straniera è una delle più antiche a Roma.

Il legame tra Yerevan e l’Urbe è infatti spirituale e religioso, essendo l’Armenia un Paese con una fortissima identità cristiana. Prima di affrontare questi discorsi è bene però aprire una parentesi storica con Paolo Battaglia che ci ricorda il genocidio che gli armeni hanno subito per mano turca nel 1915.

Un genocidio che segnerà per sempre la storia armena, dalla dominazione sovietica, fino ad un’indipendenza macchiata dal sangue versato per la guerra in Artsakh contro gli azeri. L’Armenia fatica a trovare la pace e il ruolo delle superpotenze mondiali in questo è negativamente decisivo.

A The Passenger ricordiamo il genocidio armeno

È bene ricordare e fare conoscere uno degli atti più riprovevoli della storia dell’uomo: il genocidio armeno. Nel 1915 un impero ottomano in decadenza trovò il capro espiatorio in questa pacifica popolazione del Caucaso per allontanare i problemi di un impero ormai disintegrato. Ciò costò la vita a milioni di persone che oggi sono quasi dimenticate nel mondo occidentale. In Turchia il genocidio armeno non è neanche riconosciuto, qualcosa in più per ricordare queste vittime innocenti si potrebbe fare. Tuttavia l’Armenia non è ricco di petrolio, gas o metalli preziosi e la Turchia fa parte della Nato. Coincidenze?

A proposito di guerra in Nagorno, intervistiamo un reduce, famoso in patria e oggi residente a Roma. Vi sveliamo l’incredibile testimonianza di Kevork Orfalian tra prigionia politica in Turchia, guerra, commercio di tessuti preziosi nel Golfo Persico e una vita da rockstar, tutto nel nome del ricordo del genocidio armeno.

Proseguiamo dunque il viaggio con Robert Attarian della Comunità Armena di Roma che ci racconta in che modo gli armeni sono presenti a Roma e come ricordano il loro passato in una città che spesso li dimentica.

A The Passenger poi Andrea Candelaresi e Marco Martino, esperto di storia cristiana, fanno una passeggiata nel centro di Roma alla scoperta dell’Armenia nascosta nel cuore della città eterna. Tra khachkar (le croci armene) nascoste nei vicoletti dei rioni, chiese e collegi armeni, il passato glorioso di questa comunità straniera si fonde ad un presente carico di speranza per il futuro.

Chiudiamo poi con’attuale situazione geopolitica dell’Armenia raccontata da Daniele Dell’Orco, giornalista e reporter che ha scritto anche un libro: Armenia Cristiana e fiera

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Nella città di Rustavi è stato aperto l’ufficio del primo console onorario dell’Armenia in Georgia (Notiziedaest 20.12.23)

La cerimonia di apertura dell’ufficio del primo console onorario dell’Armenia in Georgia nella città di Rustavi ha avuto luogo il 19 dicembre, secondo la pagina dell’Ambasciata armena in Georgia. All’evento hanno partecipato l’ambasciatore armeno in Georgia Ashot Smbatyan, il capo della diocesi georgiana della Chiesa apostolica armena Sua Eminenza il vescovo Davtyan, il direttore del dipartimento consolare del Ministero degli Esteri georgiano Georgiy Tabatadze e il neo console onorario Georgiy Misuradze .

 

L’ambasciatore Smbatyan ha sottolineato l’importanza dell’apertura dell’ufficio del primo consolato onorario dell’Armenia in Georgia, sottolineando l’importanza delle sue attività, soprattutto dal punto di vista del rafforzamento dei legami economici e dei contatti intersociali più attivi tra Armenia e Georgia.  All’evento hanno partecipato i rappresentanti del Ministero degli Affari Esteri della Georgia, del comune di Rustavi e della comunità armena georgiana. -0–

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Conflitto tra Armenia e Azerbaigian e gasdotti che lo attraversano (Serenoregis 20.12.23)

Date le vaste risorse energetiche del Paese, in particolare petrolio e gas naturale, i funzionari statunitensi hanno visto nel conflitto tra Armenia e Azerbaigian la chiave per la creazione di un Caucaso a guida statunitense.

I funzionari di Washington stanno raddoppiando gli sforzi per creare un nuovo corridoio energetico che attraversi il Caucaso, un’importante via di transito per il commercio e l’energia che collega Europa e Asia.

Concentrandosi sull’Armenia e sull’Azerbaigian, due Paesi in conflitto per questioni territoriali e storiche, i funzionari di Washington sperano di collegare i due Paesi con oleodotti energetici, nonostante la recente incursione dell’Azerbaigian nel Nagorno-Karabakh, che a settembre ha provocato la fuga di oltre 100.000 armeni dal territorio.

“Un corridoio di transito costruito con il coinvolgimento e il consenso dell’Armenia può essere un enorme vantaggio per gli Stati della regione e per i mercati globali”, ha dichiarato a novembre il funzionario del Dipartimento di Stato James O’Brien al Congresso.

Obiettivi degli Stati Uniti

Per decenni, i funzionari statunitensi hanno perseguito obiettivi geopolitici nel Caucaso. Considerando la regione come un’area strategicamente importante che collega l’Europa e l’Asia, hanno cercato di integrarla con l’Europa e di allontanarla dall’Iran e dalla Russia, che mantengono entrambi stretti legami con la regione.

“Il Caucaso è tremendamente importante come crocevia tra Europa, Asia e Medio Oriente”, ha dichiarato l’anno scorso il senatore James Risch (R-ID) in una nota. “Accordi commerciali, accordi energetici, infrastrutture e investimenti hanno tutti il potenziale per integrare meglio la regione nella comunità transatlantica”.

Al centro dei piani statunitensi c’è l’Azerbaigian. Date le vaste risorse energetiche del Paese, in particolare il petrolio e il gas naturale, i funzionari statunitensi hanno visto nell’Azerbaigian la chiave per creare un Caucaso guidato dagli Stati Uniti che aiuti l’Europa ad abbandonare la dipendenza dall’energia russa.

“Nell’ultimo decennio abbiamo lavorato duramente, insieme ai nostri colleghi europei, per aiutare l’Europa a liberarsi lentamente dalla dipendenza dal gas e dal petrolio russo”, ha spiegato il senatore Christopher Murphy (D-CT) durante un’audizione a settembre. “Parte di questa strategia è stata quella di fornire più gas e petrolio azero all’Europa”.

Un altro motivo per cui gli Stati Uniti si concentrano sull’Azerbaigian è la sua posizione. Con la Russia a nord, il Mar Caspio a est e l’Iran a sud, i funzionari statunitensi hanno visto il Paese come “l’epicentro della politica energetica dell’Eurasia“, come lo hanno descritto i diplomatici americani. Gli Stati Uniti hanno lavorato per posizionare l’Azerbaigian come punto di partenza di un corridoio energetico est-ovest che avvantaggia l’Occidente e scoraggia un corridoio nord-sud che andrebbe a vantaggio di Iran e Russia.

Per gli Stati Uniti e i suoi alleati europei, l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC) è una dimostrazione di queste possibilità. Dal 2006, l’oleodotto BTC trasporta il petrolio dall’Azerbaigian al Mar Mediterraneo, dove viene spedito ai mercati energetici globali. L’oleodotto è controllato da un consorzio di compagnie energetiche guidate da BP, il gigante petrolifero britannico.

“Ne abbiamo bisogno per continuare a funzionare”, ha dichiarato a settembre il funzionario del Dipartimento di Stato Yuri Kim al Congresso.

Dal punto di vista degli Stati Uniti, un altro importante risultato geopolitico è stato il Corridoio meridionale del gas. Il corridoio, che combina tre gasdotti separati, si estende dall’Azerbaigian fino all’Europa. Da quando ha iniziato a fornire gas naturale all’Europa nel 2020, il corridoio è stato di fondamentale importanza per mantenere l’approvvigionamento energetico dell’Europa durante la guerra in Ucraina.

“Il Corridoio meridionale del gas è estremamente importante per garantire una diversità energetica a Turchia, Grecia, Bulgaria, potenzialmente Albania e sicuramente Italia, e forse anche ai Balcani occidentali”, ha dichiarato Kim. “Non possiamo sottovalutare la sua importanza”.

Un nuovo percorso?

Mentre gli oleodotti trasportano petrolio e gas naturale dall’Azerbaigian all’Occidente, i funzionari statunitensi hanno cercato di rafforzare il corridoio est-ovest creando ulteriori oleodotti che attraversino l’Armenia. Non solo un oleodotto attraverso l’Armenia aggiungerebbe un’altra via al corridoio, ma allontanerebbe l’Armenia dalla Russia, che mantiene una presenza militare nel Paese e fornisce all’Armenia la maggior parte della sua energia.

Per decenni, una delle principali sfide ai piani statunitensi è stato il conflitto del Nagorno-Karabakh. Finché l’Armenia e l’Azerbaigian sono rimasti in contrasto sulla regione, i funzionari statunitensi hanno visto poche opzioni per integrare l’Armenia in un più ampio corridoio energetico est-ovest.

“Se non fosse stato per il conflitto congelato del Nagorno-Karabakh”, hanno riferito i diplomatici statunitensi nel 2009, “il gasdotto Baku-Tbilisi-Ceyhan avrebbe potuto passare attraverso l’Armenia, riducendo la distanza e i costi di costruzione e fornendo all’Armenia sia una fonte alternativa di gas che le necessarie tariffe di transito”.

Negli ultimi anni, tuttavia, le dinamiche regionali sono cambiate rapidamente. L’Azerbaigian, arricchitosi grazie alle sue operazioni come hub energetico per l’Occidente, ha iniziato a spendere di più in armi. Grazie alla vendita di armi sempre più sofisticate da parte di Israele e Turchia, l’Azerbaigian ha costruito un grande arsenale e ha acquisito un vantaggio sull’Armenia.

“Mentre le altre nazioni occidentali sono riluttanti a vendere sistemi di combattimento terrestre agli azeri per paura di incoraggiare l’Azerbaigian a ricorrere alla guerra per riconquistare [il Nagorno-Karabakh] e i territori occupati, Israele è libero di effettuare sostanziali vendite di armi e trae grandi benefici dagli accordi con il suo benestante cliente”, hanno riferito i diplomatici statunitensi nel 2009.

Incoraggiato dal suo crescente potere e dalla sua influenza, l’Azerbaigian ha fatto la sua mossa. Quando alla fine del settembre 2020 sono scoppiati i combattimenti tra Armenia e Azerbaigian, le forze militari azere hanno sfruttato gli armamenti avanzati di Israele e Turchia per conquistare i territori che circondano il Nagorno-Karabakh.

Prima che le forze militari dell’Azerbaigian potessero prendere il controllo del Nagorno-Karabakh, tuttavia, la Russia è intervenuta, mediando un cessate il fuoco e dispiegando circa 2.000 forze di pace nella regione. Sebbene diversi osservatori abbiano dipinto il risultato come una vittoria per la Russia, l’accordo non è durato a lungo.

Lo scorso settembre, l’Azerbaigian si è mosso per conquistare il resto del Nagorno-Karabakh, armato con ulteriori forniture di armi israeliane. In seguito all’incursione dell’Azerbaigian, più di 100.000 armeni sono fuggiti dal territorio per raggiungere l’Armenia, dove rimangono tuttora.

Ora che l’Azerbaigian ha preso il controllo del Nagorno-Karabakh, i funzionari statunitensi stanno rinnovando i loro sforzi per convincere l’Armenia e l’Azerbaigian a forgiare un accordo di pace che potrebbe essere la base per un nuovo corridoio energetico.

“C’è un affare da fare in questa regione”, ha dichiarato a novembre il funzionario del Dipartimento di Stato James O’Brien al Congresso.

Al Dipartimento Start, i funzionari hanno esaminato i piani finanziati dagli Stati Uniti per la costruzione del nuovo corridoio energetico. Come ha osservato O’Brien, “gli studi di fattibilità su questo corridoio di transito [sono] già stati fatti, finanziati [dall’Agenzia per lo Sviluppo Internazionale (AID)], quindi stiamo vedendo che tipo di futuro economico ci può essere”.

Gli ostacoli

Diversi ostacoli si frappongono ai piani statunitensi. Una possibilità è che un Azerbaigian sempre più forte invada l’Armenia e prenda il territorio che vuole per i nuovi oleodotti. Se l’Azerbaigian continuerà ad acquistare armi dalla Turchia e da Israele, potrebbe conquistare il territorio armeno con la forza, come ritengono i funzionari statunitensi.

“Da quello che ho sentito, gli armeni sono preoccupati e si sentono minacciati da quel corridoio e da ciò che potrebbe comportare un altro accaparramento di terre da parte dell’Azerbaigian”, ha detto il rappresentante James Costa (D-CA) durante l’udienza di novembre.

Una possibilità correlata è che l’Azerbaigian possa collaborare più strettamente con la Russia. Poiché la Russia mantiene forze militari in Azerbaigian, potrebbe facilitare una mossa dell’Azerbaigian per appropriarsi di terre armene per un corridoio energetico nord-sud che avvantaggi la Russia.

Sebbene la Russia mantenga un patto di sicurezza con l’Armenia, le relazioni si sono inasprite a causa della presa del Nagorno-Karabakh da parte dell’Azerbaigian, rendendo possibile che la Russia si schieri con l’Azerbaigian.

Un’altra sfida è rappresentata dal governo azero. Per anni, i critici hanno accusato il presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev di essere a capo di un regime corrotto e repressivo che ha accumulato le ricchezze del Paese lasciando la popolazione a soffrire.

Nei rapporti interni, i diplomatici statunitensi sono stati molto critici nei confronti di Aliyev. Non solo lo hanno paragonato ai mafiosi, ma hanno suggerito che il Paese “è gestito in modo simile al feudalesimo presente in Europa durante il Medioevo”.

Mentre i critici hanno chiesto a Washington di riconsiderare le relazioni degli Stati Uniti con l’Azerbaigian, alcuni membri del Congresso hanno iniziato a mettere in discussione la strategia statunitense, in particolare per quanto riguarda la partnership degli Stati Uniti con Aliyev.

Gli Stati Uniti potrebbero aver fatto “la scommessa sbagliata spostando più risorse azere in Europa”, ha dichiarato a settembre il senatore Murphy. “Questa strategia di dipendenza da un sistema e da una serie di dittature… potrebbe non essere necessariamente in grado di sostenere il gioco strategico che noi pensiamo”.

Altri membri del Congresso hanno messo in dubbio le affermazioni del Dipartimento di Stato secondo cui un nuovo corridoio energetico può portare la pace nella regione.

“Non mi sembra che il processo di pace stia andando così bene come alcune delle descrizioni che ho appena sentito”, ha detto il rappresentante Costa durante l’udienza di novembre. “È stata una pulizia etnica quella che si è verificata con la rimozione degli armeni dalla loro patria storica nel Nagorno-Karabakh”.

A prescindere da ciò, i funzionari del Dipartimento di Stato rimangono fiduciosi nei loro piani. Proseguendo negli sforzi per forgiare un accordo tra Armenia e Azerbaigian, rimangono fiduciosi di poter creare un nuovo corridoio energetico che attraversi l’Armenia, anche se ciò significa che gli armeni fuggiti dal Nagorno-Karabakh non potranno mai tornare alle loro case.

“Nel passaggio dal medio al lungo termine, si dovrà fare qualche sforzo per aiutare queste persone a integrarsi nella vita armena”, ha dichiarato a novembre Alexander Sokolowski, funzionario dell’AID, al Congresso. “Molti di loro sognano di tornare in Nagorno-Karabakh, ma per il momento sono orientati a costruirsi una vita in Armenia”.

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MACRON RINNOVA FINO AL 2029 COME SPONSOR TECNICO DELLA FEDERCALCIO ARMENA (Sperteconomy 18.12.23)

La Federcalcio Armena e Macron proseguono il percorso tecnico sportivo che li vede insieme fin dal 2018. La FFA e il brand italiano rinnovano ed estendono la partnership fino al 2029.  Una collaborazione che prevede la fornitura di kit gara e abbigliamento tecnico per le Nazionali maschili, femminili, il settore giovanile e la nazionale di Futsal.

La FFA è una Federazione ‘giovane’ nel panorama calcistico internazionale. Nata nel 1991, negli ultimi anni ha ottenuto buoni risultati, rappresentando al meglio la crescita del movimento calcistico armeno.

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Crisi nel Nagorno-Karabakh, Arvantis: “Rivedere relazioni con l’Azerbaigian”. (Sardegnagol 17.12.23)

Deve l’Ue rivedere i termini delle relazioni con l’Azerbaigian alla luce della crisi nel Nagorno-Karabakh, teatro negli ultimi mesi di una fuga di massa degli armeni verso la confinante Armenia? A chiederselo, recentemente, è stato l’eurodeputato del gruppo “la Sinistra” al Parlamento europeo, Konstantinos Arvanitis, intervenuto sull’operazione militare dell’Azerbaigian dello scorso 19-20 settembre, capace di provocare la perdita di vite umane e l’esodo di massa di oltre 100800 armeni del Karabakh, come rimarcato anche dall’Alto rappresentante dell’Ue, Josep Borrell.

“Gli eventi a cui abbiamo assistito nel Nagorno-Karabakh rappresentano un duro colpo per la stabilità, la pace, la sicurezza e i diritti umani nella regione. C’è grande preoccupazione, in particolare, per quanto riguarda la sicurezza degli armeni e il rispetto dei loro diritti fondamentali, poiché stanno fuggendo in massa dall’area in seguito alla recente operazione militare su larga scala da parte delle forze azere. I conflitti internazionali devono essere risolti senza intoppi e sempre attraverso un dialogo strutturato basato sul diritto internazionale, ponendo l’accento sulla necessità che i diritti delle popolazioni colpite, soprattutto dei civili, siano pienamente rispettati”.

Vista la modifica dei rapporti con la Russia, iniziata con il conflitto ucraino che ha portato milioni di cittadini/e ucraini/e a riparare nell’UE, per coerenza, secondo l’esponente parlamentare, andrebbe adottata la stessa metrica anche con l’Azerbaigian.

Per l’Alto Rappresentante dell’Ue, Josep Borrell i Fontelles, intervenuto in risposta all’interrogazione parlamentare, “una delle principali priorità dell’UE resta quella di promuovere la ripresa dei negoziati di pace tra Armenia e Azerbaigian, in vista della conclusione del trattato. A tal fine l’UE resta in stretto contatto con i governi dell’Azerbaigian e Armenia”. Tradotto, non agiremo contro l’Azerbaigian, ricordiamolo partner energetico importante dell’Ue.

“L’UE continua a chiedere all’Azerbaigian di garantire i diritti e la sicurezza degli armeni del Karabakh, compreso il diritto al ritorno per tutti gli sfollati”, conclude Borrell.

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Nuovi assetti geopolitici nel Caucaso. Di Emanuele Aliprandi (Storiaverità.org 16.12.23)

Nello scorso mese di settembre[1] avevamo documentato su Storia Verità la drammatica situazione nella piccola repubblica armena del Nagorno Karabakh (Artsakh) piegata dal blocco imposto dal dicembre 2022 dall’Azerbaigian con il progressivo peggioramento delle condizioni di vita della popolazione sull’orlo di una crisi umanitaria senza più cibo, medicine, carburante e qualsiasi genere di prima necessità. Proprio in quei giorni di settembre si intravedevano tuttavia i primi segnali di speranza per un allentamento dell’assedio con il transito dei primi aiuti umanitari.

 

Tuttavia, nel volgere di poco tempo la situazione è drasticamente peggiorata: il 19 settembre, le forze armate dell’Azerbaigian hanno sferrato un altro violento attacco militare al residuo territorio armeno della regione e nell’arco di poco più di 24 ore hanno imposto la resa le autorità di Stepanakert costrette a smantellare l’esercito di difesa, consegnare tutte le armi e di fatto sciogliere lo Stato.[2] La popolazione, in preda al panico, ha abbandonato tutto quello che aveva per fuggire in Armenia; oltre centomila persone si sono incolonnate nel corridoio di Lachin e hanno impiegato fino a 40 ore per percorrere l’ottantina di chilometri che separa Stepanakert al confine.[3] Un impressionante esodo di massa di un popolo rimasto per mesi senza cibo e medicine, sfiancato da un assedio intorno al quale le istituzioni internazionali hanno speso molte parole di condanna ma senza alcuna azione concreta per farlo cessare. Dai primi giorni di ottobre la repubblica di Artsakh non esiste più, la regione si è completamente svuotata e, secondo i dati disponibili, sono rimaste non più di una ventina di persone per lo più anziani e disabili che non possono o non vogliono muoversi. Alcuni esponenti politici sono stati arrestati dagli azeri prima che potessero lasciare il Paese e sono detenuti a Baku unitamente a un numero imprecisato di soldati ancora prigionieri dalla guerra del 2020.[4] Il presidente azero Aliyev ha festeggiato la vittoria con una parata militare in una deserta Stepanakert. Invero, lungi dall’accontentarsi del trionfo l’autocrate leader di Baku ha rinnovato le proprie attenzioni verso la confinante Armenia[5] puntando a tre diversi obiettivi:

  1. Rafforzare le posizioni strategiche lungo l’incerta linea di confine tra i due Stati[6];
  2. Riprendere possesso delle exclavi sovietiche in territorio armeno[7];
  3. Conquistare il Syunik, Armenia del sud, al confine con l’Iran per dar vita al cosiddetto “Corridoio di Zangezur” e collegare il Nakhjivan con il resto dell’Azerbaigian[8].

Parallelamente si assiste a un timido dialogo negoziale tra le parti per raggiungere un accordo definitivo di pace; non facile anche perché temi e interessi contrastanti complicano ulteriormente il quadro politico regionale.

Sintetizzando:

  1. L’Armenia si sta progressivamente spostando verso Ovest contemporaneamente a un disimpegno russo che ha abbandonato lo storico alleato a favore di una stringente partnership economica e politica con l’Azerbaigian legata anche al conflitto in Ucraina. Stati Uniti e Unione Europea si stanno attivamente muovendo per avvicinare Yerevan la cui leadership sembra aver già preso una chiara decisione al riguardo;
  2. USA e UE vorrebbero gestire la trattativa fra le parti su una propria piattaforma negoziale mentre l’Azerbaigian, d’intesa con Russia e Turchia, opta per il formato di Mosca o in alternativa il Gruppo 3+3[9] o un Paese terzo (la Georgia);
  3. L’Armenia sta, di fatto lasciando la CSTO, ha ritirato il proprio ambasciatore, non ha partecipato alle ultime riunioni dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva anche in polemica con l’organizzazione per il mancato intervento in occasione degli attacchi azeri;
  4. La Francia ha avviato per la prima volta una fornitura di armi all’Armenia;[10]
  5. Alla riunione europea del partenariato orientale (Bruxelles, 11 dicembre) il ministro degli Esteri armeno Mirzoyan ha dichiarato che nulla osta per l’Armenia che la UE avvii negoziati di adesione con Moldavia e Ucraina e di concedere lo status di candidato alla Georgia.[11] L’Unione Europea, nel frattempo, ha annunciato che aumenterà il numero degli osservatori in Armenia (missione EUMA) da 138 a 209.

Questo riposizionamento politico nel Caucaso meridionale non può certamente essere confinato nel limitato confine regionale ed è pleonastico sottolineare come le implicazioni politiche internazionali, i mutati assetti politici e le future conseguenze degli stessi interessino da vicino anche il nostro Paese e i rapporti con le nazioni dell’area. Anche se vi sono timidi incoraggianti segnali di dialogo (da ultimo lo scambio di alcuni prigionieri)[12] la situazione rimane tesa, il rischio di una recrudescenza delle azioni belliche è sempre elevato e una serie di veti incrociati e pressioni internazionali da parte dei principali attori impedisce una rapida pacifica conclusione del contenzioso.

 


[1] 5 e 13 settembre, “Nagorno Karabakh: su una guerra infinita l’ombra di un nuovo genocidio” (parte I e II)

[2] Per tutte le vicende legate alla regione, compresi gli ultimi sviluppi di settembre, si veda ALIPRANDI, “LA GUERRA PER IL NAGORNO KARABAKH”, MATTIOLI 1885 (2023, pagg. 186)

[3] La marcia verso la vita è costata almeno una sessantina di morti a causa delle condizioni di salute di molti sfollati. Poco dopo l’attacco azero, inoltre, una violenta esplosione di un deposito di carburante intorno al quale centinaia di persone cercavano di rifornirsi per fuggire in auto, ha provocato 220 morti e centinaia di feriti. L’azione militare azera ha invece causato 230 vittime armene (compresi 19 civili); sconosciuto il numero di caduti azeri che dovrebbe comunque oscillare fra i 200 e i 300. [4] Fra gli arrestati ci sono tre ex presidenti della repubblica (Ghukasyan, Sahakyan e Harutyunyan), ex ministri degli Esteri e della Difesa.

[5] Ricordiamo che a più riprese (maggio e novembre 2021, settembre 2022) le forze armate azere hanno occupato circa 200 km2 di territorio dell’Armenia lungo la linea di confine. [6] Sono in corso trattative per tramite di una commissione istituita ad hoc ma non c’è accordo su quali mappe utilizzare: l’Armenia propone quelle del 1975, l’Azerbaigian non si è pronunciato al riguardo. [7] Si tratta di comunità che in epoca sovietica erano state lasciate all’interno degli Stati. L’Armenia aveva Artsvashen in territorio azero, mentre la RSS Azera ne aveva tre nel territorio armeno (nella regione di Tavush, Yuxari Askipara/Voskepar e Barxudarli più Karki quasi al confine con il Nakhjivan.

[8] Il progetto di conquista sembrerebbe abbandonato stante la ferma opposizione dell’Iran alla modifica della frontiera con l’Armenia e i chiari segnali di contrarietà da parte di Unione Europea e Stati Uniti. [9] Attivato su iniziativa di Erdogan: Armenia, Azerbaigian, Turchia, Iran, Russia e Georgia. Quest’ultima, tuttavia, in contrasto con Mosca, non ha partecipato all’ultimo incontro di Teheran a ottobre.

[10] 26 veicoli blindati leggeri Bastion (se ne aggiungeranno a breve altri 24) oltre a tre radar Thales Ground Master 200 (Gm 200) e ha firmato un protocollo di accordo per la fornitura di un sistema di difesa antiaerea Mistral. Dall’India l’Armenia ha acquisito recentemente obici semoventi MArG 155, il sistema missilistico terra-aria Akash di Bharat Dynamics Limited, obici ATAGS trainati da 155 mm, sistemi Zen Anti-Drone, granate da 30 mm e 40 mm, proiettili calibro 7,62 mm, lanciarazzi multi-canna PINAKA, munizioni anticarro. L’Azerbaigian continua a rifornirsi sul mercato turco, serbo e soprattutto israeliano (da ultimo il sistema missilistico Barak per 1,2 miliardi di dollari).

[11] Secondo molti osservatori, la dichiarazione di Mirzoyan è una sorta di implicita e prossima autocandidatura armena all’Unione Europea.

[12] Il 7 dicembre, a sorpresa, l’Ufficio del Primo ministro di Armenia e quello del presidente dell’Azerbaigian hanno rilasciato una dichiarazione congiunta con la quale si conveniva che per motivi umanitari venivano scambiati 32 soldati armeni (catturati per lo più a ridosso del conflitto del 2020) con due soldati azeri che nei mesi precedenti si erano infiltrati in Armenia. Nell’accordo risulta anche il via libera di Yerevan alla candidatura di Baku per la conferenza mondiale sul clima COP29 in programma a novembre 2024.

Mappa del conflitto.

Appendice.

Breve profilo storico dell’Armenia.

Nell’antichità il nome originario dell’Armenia era Hayq, divenuto più tardi Hayastan, traducibile come “la terra di Haik (-stan è un suffisso persiano che sta a indicare un territorio) ”. Secondo la leggenda, Haik era un discendente di Noè (essendo figlio di Togarmah, che era nato da Gomer, generato a sua volta da Yafet figlio di Noè). Per la tradizione cristiana, Haik, progenitore di tutti gli armeni, si sarebbe stabilito con le sue genti ai piedi del monte Ararat per poi andare ad assistere alla costruzione della Torre di Babele. Rientrato in patria, egli avrebbe sconfitto presso il lago di Van il re assiro Nimrod. Il termine Armenia, coniato dai popoli confinanti che lo trassero dal nome della più potente tribù presente sul territorio, quella armena appunto, deriva da Armenak (o Aram), un discendente di Haik, divenuto in seguito un grande condottiero del suo popolo. Fonti precristiane, soprattutto greche, sostengono invece che il nome derivi dal termine Nairi, cioè “terra dei fiumi”, come appunto gli ellenici chiamavano questa regione montuosa. La storia del popolo armeno ha dunque radici molto antiche (e mitiche) e l’Armenia come regione ha sempre rappresentato il punto di incrocio delle più importanti vie di comunicazione tra Oriente ed Occidente, suscitando gli appetiti delle maggiori potenze economiche e militari dell’era antica, moderna e contemporanea. Gli armeni intesi come etnia discendono da una commistione avvenuta in tempi remoti tra elementi indoeuropei (gli armenoi che sia Erodoto sia Eudossio collegano ai frigi) ed elementi asiatici o anatolici, cioè quelle popolazioni che in tempi remoti abitavano la parte orientale della penisola anatolica e che non appartengono in senso stretto né al ceppo semita né a quello indoeuropeo. Regno indipendente dal X all’VII secolo a.C. sotto la civiltà autoctona urartu o ararat, l’Armenia conobbe l’influenza della popolazione hurrita per poi subire le invasioni di cimmeri, sciti, medi e assiri. Il popolo dei chaldi si stabilì nella regione verso il 1000 a.C., dominandola fino all’arrivo dei persiani di Dario I (520 a.C.) che piegarono la dinastia degli Ervandunì, dividendo il territorio in due satrapie che governarono fino al 330 a. C. Ai persiani achemenidi subentrarono poi i macedoni di Alessandro Magno e successivamente i parti. Verso il 190 a.C. si impose la dinastia degli Artassidi e, sotto la guida di Artashes I, l’armeno divenne lingua comune. Quando, combattendo contro Mitridate, i romani misero piede in Armenia vi trovarono un regno indipendente governato dal sovrano Tigrane che, in cambio dell’accettazione dell’amicizia capitolina, venne lasciato sul trono da Pompeo. Nel 114 d.C., sotto Traiano, gli armeni conobbero l’annessione a Roma. E nel 301 d.C., in concomitanza con l’inizio della decadenza dell’impero d’Occidente, il popolo armeno abbracciò il cristianesimo. Dopo essere passata sotto il dominio dei parti (428), la regione venne inglobata nell’impero bizantino per poi essere occupata dagli arabi. Nell’XI secolo il sopraggiungere da oriente dei turchi selgiuchidi mise in ginocchio la porzione orientale del paese (la “Grande Armenia”), costringendo buona parte della popolazione ad emigrare in Cilicia o “Piccola Armenia”, regno creato nel 1080 dal principe Ruben, che nel 1375 venne però sottomesso dai Mamelucchi d’Egitto. A partire dal XIV secolo fino ad arrivare al 1918, i turchi rimarranno padroni quasi incontrastati dell’Armenia, anche se in seguito alla guerra con la Russia del 1828-1829, essi dovranno cedere agli zar un piccola parte di questo territorio. Nel 1453, Mehmed II aveva conquistato Costantinopoli, abbattendo definitivamente l’impero bizantino, trasformando la città nella capitale dell’impero ottomano e invitando l’arcivescovo cristiano armeno a stabilire un patriarcato a Costantinopoli. La comunità armena di Costantinopoli — ma anche quelle residenti in altre città anatoliche — crebbe rapidamente sotto il profilo numerico, diventando ben presto una delle componenti etnico-religiose più ricche e progredite della Mezzaluna musulmana e contribuendo in maniera determinante alla sopravvivenza dell’impero, almeno fino all’ultimo scorcio del XIX, quando con la nomina a sultano di Abdul Hamid II le cose cambiarono.

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Azerbaijan – Dice di volere la pace ma si arma e non ritira le truppe (Assadakah 15.12.23)

Letizia Leonardi e Talal Khrais (Assadakah News Agency) – L’Azerbaijan annuncia la risposta all’accordo di pace presentato dalla Repubblica d’Armenia ma Baku non accenna il ritiro delle sue truppe dal confine con l’Armenia. Il premier Nikol Pashinyan ha ribadito i tre principi, in base ai quali l’accordo dovrebbe avvenire, nel corso della riunione ministeriale dei Paesi in via di sviluppo senza sbocco sul mare.

Il primo verte sul principio di sovranità, giurisdizione, uguaglianza e reciprocità dei Paesi.

Il secondo è il riconoscimento reciproco dell’integrità territoriale (29.800 kmq per l’Armenia e 86.600 kmq quelli dell’Azerbaijan). Il terzo principio è che il processo di delimitazione tra Armenia e Azerbaijan dovrebbe avvenire sulla base della Dichiarazione di Alma-Ati del 1991. Un documento che stabilisce che l’URSS non esiste più e che le 12 repubbliche, che hanno firmato la suddetta dichiarazione, ottengono l’indipendenza lungo i confini amministrativi dell’URSS, quindi i confini amministrativi si trasformano in confini statali e gli Stati riconoscono reciprocamente l’integrità territoriale sulla base di questi frontiere. Questi principi sono stati confermati negli incontri tenutisi a Bruxelles il 14 maggio e il 15 luglio tra il presidente dell’UE Charles Michel, il presidente dell’Azerbaijan e il primo ministro della Repubblica d’Armenia.

Intanto, il 13 dicembre, si è svolto lo scambio reciproco dei militari arrestati e detenuti nei due Paesi. Baku ha restituito 32 militari al confine armeno-azero della regione di Gazakh e Yerevan ha restituito due militari azeri.

Soddisfazione, per l’intenzione di Baku di arrivare ad un accordo con Yerevan, è stata espressa da Washington, dal governo francese, dal presidente del Consiglio Europeo Charles Michel e dal ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani.

Tuttavia, voli cargo militari continuano a rifornire di armi l’Azerbaijan, provenienti da Israele, Serbia e Turchia. Come mai Baku che parla di pace prepara la guerra?

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