Haut-Karabakh: un’eredità cristiana in pericolo (Culturacattolica 09.02.22)
Nel giorno in cui l’Europa regala due miliardi agli azeri questi annunciano la distruzione delle chiese armene. Intanto nessuno ha più visto i mosaici bizantini a Santa Sofia

Da diversi mesi la Regione Auvergne-Rhône-Alpes, in diverse occasioni, ha avuto l’opportunità di affermare il suo sostegno all’Armenia, e in particolare al Nagorno-Karabakh (Artsakh) e alle loro popolazioni nella guerra che li oppone all’Azerbaigian. Ha inoltre adottato e rinnovato un piano regionale a favore dei cristiani d’Oriente, al fine di aiutare le popolazioni perseguitate.
L’Œuvre d’Orient, un’associazione partner di questo progetto, è coinvolta da oltre 160 anni con i cristiani orientali in Armenia. Per presentarne l’inestimabile patrimonio è stata allestita una mostra fotografica itinerante, intitolata “Nagorno-Karabakh: un’eredità cristiana in pericolo”, al fine di sensibilizzare il grande pubblico sull’eredità cristiana armena e rendere omaggio all’Artsakh e alla sua popolazione.
La situazione politica
La guerra del Nagorno-Karabakh dell’autunno 2022 si è conclusa con un cessate il fuoco il 10 novembre 2020 a favore dell’Azerbaigian, privando il Nagorno-Karabakh di parte del suo territorio e della sua capitale storica, Shushi.
Artsakh è storicamente una regione della “Grande Armenia”, il primo regno cristiano. Il suo patrimonio religioso è una testimonianza inestimabile della civiltà cristiana armena. Gli edifici religiosi furono bombardati dalle truppe azere durante questa guerra. Questi monumenti, chiese e khachkar (croci di pietra), sono tuttavia testimoni della antica cultura cristiana del Caucaso.
Cancellare le tracce del cristianesimo armeno dal Nagorno-Karabakh è un modo per riscrivere la storia, per cancellare una secolare tradizione religiosa e da ultimo per giustificare le rivendicazioni politiche dell’Azerbaigian. Il cessate il fuoco concluso, sotto l’egida della Russia, è stato ben lontano dal risolvere i problemi della regione. Il patrimonio religioso e civile è così diventato campo di battaglia perché segno della lunga presenza culturale armena e cristiana. È forte la tentazione di cancellare le tracce di questa presenza per riscrivere il passato per controllare meglio il futuro.
La conservazione e il mantenimento del patrimonio storico sono a questo punto, non solo di natura conservativa storico-artistica, ma soprattutto politica. La storia è ricca di esempi in cui l’archeologia lascia la sfera strettamente scientifica per entrare nel regno della politica. È il caso dell’Artsakh (o Nagorno Karabakh) dove l’eredità armena si trova al centro delle tensioni con il nuovo occupante del territorio.
Un antico regno e le sue contraddizioni
Albania caucasica è il nome dell’antica regione, così anticamente chiamata per il candore delle sue cime innevate (Albania da albis, bianco in latino) e non ha nulla a che vedere con l’Albania balcanica. L’Albania caucasica è un antico regno cristiano il cui territorio si sovrapponeva a quello di Armenia, Georgia e Azerbaigian, in particolare sulle pianure della sponda sinistra del fiume Kur e lungo la costa del Daghestan da sud. La sua popolazione era di origini eterogenee e parlava una varietà di lingue, principalmente caucasica nord-orientale e iraniana.
La storia dell’Armenia e dell’Albania caucasica è stata strettamente collegata dalla cristianizzazione dei due paesi avvenuta all’inizio del IV secolo e dall’invenzione delle loro scritture all’inizio del V secolo dallo studioso armeno Mesrop Mashtots. Tuttavia, a differenza dell’Armenia montuosa, l’Albania caucasica, che si estendeva sulle pianure a est dell’Artsakh, fu in gran parte islamizzata dagli arabi nell’VIII secolo. Successivamente, la lingua albanese svanì piano piano, poiché l’armeno divenne la lingua dominante per tutti i cristiani rimasti ancora nell’ex territorio dell’Albania, fossero di origine armena, albanese o di altre popolazioni di origini caucasiche e iraniane. Quando verso la fine del X secolo le prime tribù turkmene e turche iniziarono a penetrare nel Caucaso meridionale, con ogni probabilità non incontrarono più abitanti che parlassero ancora albanese. Gli scambi tra turchi e armeni furono invece intensi, come dimostrano i prestiti armeni in azerbaigiano e turco. La teoria secondo cui il popolo dell’Azerbaigian trae le sue origini dagli albanesi caucasici è stata sviluppata in epoca sovietica, in un contesto sociale e culturale a sé stante. Mentre alle nazioni che componevano l’Unione Sovietica era proibito dare una dimensione politica alle loro identità, queste nazioni potevano, a determinate condizioni, esplorare il loro passato, in particolare l’archeologia, l’architettura, le lingue e il folclore. A volte tali popoli erano persino incoraggiati a riscoprire il passato delle rispettive repubbliche. Il loro passato doveva tuttavia essere molto distinto: esisteva quindi un’archeologia armena, un’archeologia georgiana, un’archeologia azerbaigiana, un’archeologia turkmena… Mentre le storiografie dell’Armenia e della Georgia erano in competizione tra loro, confrontandosi con narrazioni contrastanti risalenti all’antichità e all’inizio del primo millennio prima della nostra era, l’Azerbaigian di lingua turca, un’entità politica recente, ha cercato di sviluppare una storiografia basata sul postulato che discendesse direttamente dall’antica Albania caucasica. La sfida qui era politica: si trattava di creare una storia iniziata prima del X secolo e dell’arrivo delle popolazioni turche per poter beneficiare di una profondità storica almeno pari a quella dei georgiani e degli armeni. Definirsi e considerarsi gli eredi del regno dell’Albania caucasica era un modo per giustificare un’esistenza politica. L’archeologia si poneva al servizio di una causa che non aveva più nulla a che vedere con la scienza.
Il patrimonio artistico
Le chiese più antiche che si trovano nell’Artsakh recano comunque iscrizioni e simboli armeni poiché la regione fu cristianizzata almeno quattro secoli prima dell’arrivo dell’Islam.
La comunità internazionale teme per la sopravvivenza di un ricco e antico patrimonio religioso e civile. Monasteri, chiese antiche, cimiteri, molti dei quali classificati patrimonio dell’UNESCO, potrebbero essere distrutti, cancellati o riqualificati. La recente trasformazione della cattedrale di Santa Sofia in moschea fa temere che nella regione siano in corso progetti simili. Quindici anni fa, le lapidi del cimitero armeno di Baku furono utilizzate per la costruzione di un’autostrada. Diverse personalità azere si sono rivolte ai media per dire che vogliono “verificare” l’autenticità storica dei monumenti armeni. C’è da temere che questa “verifica” porti alla distruzione o alla cancellazione per cancellare il passato.
L’Unesco ha annunciato la volontà di inviare una missione di esperti nella regione al fine di effettuare un inventario dei beni culturali e religiosi per garantirne la protezione. Il direttore generale dell’organizzazione, Audrey Azoulay, ha parlato del ruolo della missione in un comunicato stampa: Preparare un inventario preliminare dei beni culturali più significativi [al fine di garantire] un’efficace protezione del patrimonio della regione. La questione del patrimonio è estremamente delicata, perché legata a quella dell’identità con cui ogni nazione cerca di relazionarsi e cerca di costruire attorno al regno dell’Albania caucasica. La Francia si è detta favorevole all’apertura di questa missione, così come gli Stati Uniti e la Russia. Non resta che metterlo in atto rapidamente per evitare distruzioni che potrebbero essere irreparabili. Si può anche sperare: è questo un pio desiderio? — che il patrimonio storico può fungere da denominatore comune ed essere preservato per creare un terreno comune e, in definitiva, la pace nella regione. Ne siamo per il momento molto lontani e l’urgenza è preservare questi capolavori in pericolo.
L’Hôtel de Région de Lyon ospita la mostra fotografica dal 3 al 18 febbraio 2022.
Aperta dal lunedì al venerdì, dalle 9.00 alle 16.30, ingresso libero.
La politica anti-armenadi #Cancelculture dei noottomani (notiziegeopolitiche.net 09.02.22)
di Grigor Ghazaryan * –
Terroristi o no? Durante il suo primo viaggio nei territori armeni occupati dalle forze turco-azere a seguito dell’aggressione del 2020, la consorte del presidente turco, Emine Erdogan consiglia al presidente azero di restituire lentamente, uno per uno, i prigionieri di guerra armeni. Lentamente, per mantenere il più a lungo possibile la sofferenza delle famiglie armene, e per richiedere in cambio, come hanno fatto anche recentemente, diversi oggetti di valore. Un chiaro modus operandi terroristico: scambiare vite umane, o spesso anche cadaveri torturati, con oggetti richiesti.
Dopo la dichiarazione rilasciata davanti ai media dal presidente azero, secondo cui la questione dei prigionieri di guerra sarebbe stata chiusa come se l’Azerbaijan li avesse “restituiti tutti”, la sua dittatura, dopo l’intervento dell’Ue, ironicamente, rilascia ancora 10 prigionieri di guerra armeni nel mese di dicembre 2021 e ancora altri 8 il 7 febbraio 2022. Allora, alcuni prigionieri di guerra si trovano ancora, fino ad oggi, nelle prigioni di Baku. Conclusione: il “dittatore” dell’Azerbaijan dice bugie, le sue dichiarazioni non meritano fede.
Ma da un aspetto macro: il problema sta nel fatto che l’Azerbaijan è una dittatura, uno stato sempre agli ultimissimi posti nelle classifiche mondiali e più autorevoli sui diritti umani.
Da questo punto di vista sono demoralizzanti le rivendicazioni verbali o non-verbali da parte di chi, senza pudore o vergogna, si batte ancora per difendere il regime draconiano di un prersidente che fino ad oggi rilascia ordini di attaccare le postazioni armene al confine armeno-azero, giocando con le vite dei giovani sia azeri che armeni.
Chi fa propaganda. Fare propaganda, da come viene usata oggi, significa sostenere e promuovere qualcosa di profondamente ingiusto. Ragioniamo su questa base: è ingiusto che gli armeni abitino in Artsakh (Nagorno Karabakh, ndr) o che non vogliano vivere sotto il giogo della dittatura azera? Come sappiamo, non sempre i confini geografici corrispondono con quelli statali. L’Artsakh, il territorio dell’odierna Repubblica autoproclamata, è da sempre stato abitato maggiormente da armeni. Restano ancora sotto occupazione turco-azera intere regioni storicamente armene come Karvaciar (foneticamente è stata distorta dai turchi a diventare “Kyalbajar”), Hadrout, Shoushi (da shoush, che significa “bel germoglio” nel dialetto armeno dell’Artsakh), Shahumyan e centinaia di villaggi armeni come Artsvashen.
Appare quindi che l’autodeterminazione come principio del diritto internazionale funzioni per altri popoli del mondo, ma non per gli armeni dell’Artsakh. Abbiamo cancellato il concetto di secessione come ultimo rimedio? Se le risposte sono No e No, allora questo discorso non è una propaganda. Il fatto è che durante il secolo scorso, l’intero periodo della sua esistenza come uno stato sulla mappa del mondo, l’Azerbaijan non abbia mai offerto alcun modello di convivenza con la minoranza armena. E’ sempre stata la colpa della minoranza? E’ una colpa la voglia di essere liberi o quella di poter conservare la propria identità culturale?
Nel 2020 due nazioni, l’Azerbaijan e la Turchia, con oltre 94 millioni di abitanti e sostenuti da forze palesemente terroristiche hanno aggredito una nazione di 3 millioni di persone. Colpa sempre dei 3 millioni che “occupano” i territori dei loro antenati armeni? Li hanno “occupati”, a proposito, fin dai tempi quando il nome “turc’” era ancora riscontrabile soltanto nell’Asia Centrale.
Gli armeni sono un popolo autoctono, originario dell’Altopiano Armeno (oggi noto con il termine tautologico “Anatolia Orientale” – “oriente orientale”). Che gli armeni non siano stati gli abitanti dell’Altopiano Armeno, che comprendeva i territori di Utiq e Artsakh, è una constatazione che sembra seguire ciecamente il consiglio di Joseph Goebbels, “Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”.
Eredi dei Pogrom. Forse pochi sanno che l’omogeneizzazione demografica (da entrambe le parti) è avvenuta sulla spinta delle azioni provocatorie dell’Azerbaijan, con un picco drammatico materializzatosi negli orrendi pogrom di Sumgayit e Baku contro la minoranza armena. Fin da quei giorni del 1988 le manifestazioni di odio razziale antiarmeno erano così spiccate che portarono all’espulsione delle comunità armene dall’Azerbaijan. Dopo la prima guerra dell’Artsakh quei sentimenti avrebbero costituito la base per una politica armenofoba a livello statale. Ciò si manifesta anche oggi nella fomentazione dell’odio, nella creazione di un’immagine del “nemico armeno” che ha sempre torto, è “brutto, maleducato, barbaro”, insomma con tutti gli epiteti negativi che, secondo il regime dittatoriale azero, riguardano solo e sempre gli armeni. Questa visione di per sé porta all’aggravarsi di un complesso d’inferiorità nazionale che sembra già aver contagiato abbastanza i rapporti tra i due popoli. Ricordiamoci che le tradizioni di derubare ricchi e nobili armeni si sono istituite fin dai tempi del Genocidio armeno, ripetutesi durante i pogrom di Sumgayit e di Baku (1988-90) e si rispecchiano pure nei conflitti transfrontalieri di oggi. Il piano delle uccisioni di massa di civili armeni, residenti di Sumgayit e di Baku, rispecchiava chiaramente gli scenari e i metodi del Genocidio armeno del 1915, fino ad oggi non riconosciuto dagli stessi neoottomani.
Excursus storico: gli azeri hanno riconosciuto l’Artsakh come terra armena. Mi sento in dovere di ribadire e sottolineare che il 30 novembre 1920 il Revcom dell’Azerbaigian (Comitato Rivoluzionario – il principale strumento di potere bolscevico a quel tempo) fece una dichiarazione che riconosceva i territori sui quali l’Azerbaigian aveva rivendicazioni, tra cui Nagorno-Karabakh, Zangezour e Nakhijevan, come parti inseparabili dell’Armenia.
Il Consiglio nazionale della Repubblica Socialista Sovietica Azera, sulla base dell’accordo tra il Revcom dell’Azerbaigian, i governi della Repubblica Socialista Sovietica Azera e della Repubblica Socialista Sovietica Armena, con la Dichiarazione del 12 giugno 1921, proclamò il Nagorno-Karabakh parte integrante della Repubblica Socialista Sovietica Armena. Sulla base della dichiarazione riguardante la rinuncia dell’Azerbaigian al Nagorno-Karabakh, Zangezour e Nakhichevan e dell’accordo tra i governi dell RSS armena e RSS azera del giugno 1921, anche l’Armenia, a sua volta, dichiarò il Nagorno-Karabakh sua parte integrante. Il testo del decreto emesso dal governo armeno è stato pubblicato dai media sia armeni che azeri (“Lavoratore di Baku” del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Azerbaigian, 22 giugno 1921). Così ebbe luogo una conferma legale dell’unificazione del Nagorno-Karabakh all’Armenia.
Nonostante le due ordinanze della Corte Internazionale di Giustizia. Vergognarsi e odiare se stessi, perché sulle mappe storiche non si trova il nome “Azerbaijan”, odiare la cultura armena vedendo le chiese armene medievali in Artsakh e cercare di deturparle, nascondendosi dalla propria storia di soli 104 anni. Purtroppo tutti questi sono fenomeni che si verificano nelle azioni della dittatura azera.
Il 7 dicembre 2021 la Corte Internazionale di Giustizia, avendo rilevato che vi è un rischio imminente di danno irreparabile ai diritti degli armeni ai sensi della “Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale”, ha ordinato all’Azerbaijan attraverso due ordinanze ben chiare di “Proteggere dalla violenza e dalle lesioni personali tutte le persone catturate e rimaste in detenzione in relazione al conflitto militare del 2020, nonché garantirne la sicurezza e l’uguaglianza davanti alla legge”; di “Adottare tutte le misure necessarie per prevenire l’incitamento e la promozione dell’odio razziale e della discriminazione, anche da parte dei suoi funzionari e delle istituzioni pubbliche, nei confronti di persone di origine etnica o nazionale armena”; di “Adottare tutte le misure necessarie per prevenire e punire atti di vandalismo e profanazione nei confronti del patrimonio culturale armeno, compresi chiese e altri luoghi di culto, monumenti, punti di riferimento, cimiteri e manufatti”.
E comunque, in barba alle suddette ordinanze della CIG, il 4 febbraio 2022 le autorità azere hanno preso la decisione di formare un gruppo impegnato a promuovere l’ideologia di damnatio memoriae antiarmena, ossia l’annientamento delle tracce storiche-architettoniche, prendendo di mira tutte le iscrizioni in armeno classico, le incisioni di pietra di carattere/stile armeno delle chiese e di altri monumenti che oggi testimoniano in modo indiscutibile l’origine armena di quei monumenti storici e di conseguenza, dimostrano il fatto della presenza plurisecolare del popolo armeno sui territori dell’Artsakh. Queste programmazioni di atti di vandalismo ci ricordano la prassi dei terroristi nazijihadisti che nel 2015 distrussero i tesori archeologici di Palmira.
La politica anti-armena di #CancelCulture adottata dal regime dittatoriale azero si appresta a compiere il crimine prima che le organizzazioni internazionali di tutela del patrimonio culturale possano arrivare nei territori riconquistati dalle forze turco-azere.
E’ certo che i monumenti storico-architettonici armeni non possano essere riportati ad altre origini. E comunque in un contesto del tutto armenofobo, diventa “naturale” che, secondo la logica/ipotesi degenerata dei dittatori, qualsiasi artefatto di bellezza e di arte debba essere creato sempre da nazioni-X, non-armene, anche dai marziani, se volete, ma solo non dagli armeni cristiani.
Va notato che la furia distruttrice turco-azera, che si verifica con carattere ricorrente, si è accanita non solo sul patrimonio dell’Artsakh e dell’Armena, ma su un patrimonio culturale che appartiene all’intera umanità.
* PhD, professore associato – Università Statale di Yerevan.
Artsakh – Gli armeni denunciano un genocidio culturale (Assadakah 08.02.22)
Letizia Leonardi (Assadakah News Roma) Artsakh – Nei territori passati sotto il controllo dell’Arzerbaijan, a seguito della guerra lampo del 2020, le chiese armene continuano ad essere vandalizzate e rase al suolo. Un’evidente e annunciata operazione di pulizia etnica culturale, senza che né l’UNESCO né qualsiasi altra istituzione culturale o politica internazionale stia intervenendo per salvare questo importante e prezioso patrimonio storico. Già, subito dopo la firma del cessate il fuoco lo splendido monastero armeno di Dadivank, vicinissimo al confine controllato dai militari di Baku, era stato subito spacciato per chiesa azera.
Appare ormai chiaro l’intento dell’Azerbaijan di “dearmenizzare” le chiese armene attribuendogli un’origine albana. E ciò che non è stato distrutto completamente dalle bombe, ma solo danneggiato, è stato restaurato facendo sparire tutto ciò che che poteva essere ricondotto agli armeni del Nagorno Karabakh. L’Azerbaijan ha raso al suolo chiese storiche armene a Sushi e a Mekhavan. La cattedrale Ghazanchetsots di Shushi è stata danneggiata, evidentemente di proposito, durante la guerra per giustificare un’opera di eliminazione di tutte le testimonianze armene. Il Ministero della Cultura azero, e lo stesso Presidente Aliyev, hanno dichiarato pubblicamente che da ogni monumento civile o religioso nei territori, ora sotto controllo azero, andava rimossa qualsiasi iscrizione o riferimento armeno e che tutti i monumenti dovranno essere restaurati sulla base di documenti storici e materiali d’archivio, nel rispetto del suo aspetto artistico ed estetico originario. Ferite che colpiscono ancora di più gli armeni dell’autoproclamata repubblica d’Artsakh. È stato rimosso tutto ciò che poteva essere ricondotto a una identità armena. Alla cattedrale di Shushi è stata tolta la cupola e tutte le iscrizioni armene.
La giustificazione a questa azione di “dearmenizzazione” si basa sulla teoria dello storico Azerbajjano Ziya Buniyatov che definiva le chiese armene una eredità dell’Albania caucasica, un antico regno in quello che adesso è territorio dell’Azerbaijan e accolta dall’attuale governo di Baku.
Teoria che gli armeni respingono al mittente con delle valide argomentazioni. In primo luogo, dicono, come mai, se gli azeri si considerano discendenti degli Albani caucasici cristiani hanno utilizzato miliziani jihadisti che, durante la guerra del 2020, hanno vandalizzato siti cristiani e sgozzato soldati e civili armeni che definivano infedeli? E inoltre, se le chiese armene sarebbero albani perché per decenni gli Azeri le hanno distrutte e hanno fatto la medesima cosa alle croci medievali di pietra (katchkar) di Julfa? Come può inoltre rivendicare un’eredità culturale e religiosa di un patrimonio antico di secoli uno Stato che esiste dal 1918?
il Ministro della Cultura azero, Anar Karimov, in questi giorni, ha affermato, che sarà istituito un gruppo di lavoro per identificare ciò che ha definito “falsificazione armena” nelle chiese e il governo di Baku ha annunciato ufficialmente che intende cancellare le iscrizioni e tracce armene sui siti religiosi presenti sul territorio.
A condannare tale progetto è stata l’Associazione Armenia-Grecia dell’Amicizia (AGFA) ma la comunità internazionale sta, come al solito, a guardare. Non solo: tutti stringono accordi con l’Arzerbaijan per le forniture di gas. Addirittura l’Unione Europa stanzia 2 miliardi di Euro per il governo di Baku da destinare per investimenti economici. Purtroppo, con la crisi economica ed energetica, difficilmente potrà arrivare un appoggio concreto e un intervento dall’UE e soprattutto dall’Italia che, anzi a tratti lancia appelli, tramite politici o giornalisti disinformati o pagati, per fare da cassa di risonanza del dittatore azero Aliyev sui media nazionali.
Azerbaigian: Tchilingirian (Università Oxford) su cristianesimo in Karabakh, sforzi per riscrivere la storia non sono nuovi (Agenzia Nova 08.02.22)
Roma, 08 feb 11:02 – (Agenzia Nova) – Nonostante la mancanza di somiglianze linguistiche e culturali, la storiografia azerbaigiana ha costruito una “connessione albanese” nell’etnogenesi della nazione azerbaigiana. È quanto si legge nell’articolo del professor Hratch Tchilingirian “Cristianesimo in Karabakh: gli sforzi dell’Azerbaigian per riscrivere la storia non sono nuovi”. “Secondo questa narrazione, l’Albania caucasica storica (che non è correlata all’Albania balcanica) è presentata come il predecessore sociale, culturale e territoriale dell’Azerbaigian contemporaneo; quindi, confutando le pretese armene sul Karabakh. Negli ultimi anni, i riferimenti agli armeni nelle fonti storiche primarie nelle nuove edizioni delle prime cronache sul Karabakh pubblicate in Azerbaigian sono stati cancellati o modificati”, ha spiegato Tchilingirian. “Sebbene l’etnogenesi degli azerbaigiani sia oggetto di dibattito accademico, la maggior parte degli studiosi concorda sul fatto che l’Azerbaigian, come entità nazionale, sia emerso dopo il 1918. Il dibattito su come chiamare gli azerbaigiani risale alla fine del XIX secolo; la popolazione dell’Azerbaigian, precedentemente classificata come “turca” o “tatara transcaucasica” è stata formalmente reidentificata come “azerbaigiana” nel 1937. In effetti, il fondatore della prima Repubblica dell’Azerbaigian, Mohammad Amin Rasulzadeh, ha ammesso che nominare la nuova repubblica Azerbaigian “era stato un errore”. Nel giugno del 2000, ‘Nezavisimaja Gazeta’ ha citato Vafa Guluzade, un importante consigliere del presidente dell’Azerbaigian, affermando che ‘il concetto stesso di ‘Azerbaigian’ è un anacronismo del periodo sovietico. La nostra lingua è il turco e per nazionalità siamo turchi’”, prosegue il docente dell’Istituto orientale dell’università di Oxford.
Nel contesto del conflitto armeno-azerbaigiano, spiega Tchilingirian, “il ‘collegamento albanese’ è diventato una questione politicizzata di irredentismo. Gli storici azeri, stabilendo un collegamento tra gli odierni azeri e gli albanesi caucasici, oltre a fornire una storia nazionale comune, sostengono l’idea di continuità etnica e presenza nel Karabakh e ‘dimostrano’ che gli armeni del Karabakh sono immigrati relativamente recenti nella regione e quindi un popolo “non indigeno” che vive nelle antiche terre dell’Azerbaigian”. “Gli autori azerbaigiani moderni omettono i riferimenti agli armeni che abitavano nel Karabakh prima delle invasioni turche della regione. Ad esempio, la nuova edizione del cronista del IXX secolo Mirza Jamal Javanshir’s Tarikh-e Karabakh ha cancellato le affermazioni secondo cui ‘nei tempi antichi (il Karabakh) era popolato da armeni e altri non musulmani’ e la maggior parte degli altri riferimenti alla presenza armena in Karabakh”, ha proseguito l’accademico. Nel corso dei decenni, gli storici in Armenia si sono impegnati a confutare le affermazioni storiche dell’Azerbaigian, spiega Tchilingirian, “soprattutto dall’intensificarsi del conflitto armeno-azerbaigiano alla fine degli anni Ottanta, utilizzando prove di periodi preistorici, fonti medievali primarie e studi moderni sulla regione. Ma gli armeni del Karabakh che vivono sulla terra, piuttosto che nei libri di storia, indicano centinaia di monumenti antichi, rovine di edifici religiosi, chiese e monasteri come ‘testimoni viventi’ della presenza armena in Karabakh”. Secondo l’accademico, quindi, “la storia del cristianesimo e la presenza della Chiesa armena nell’odierno Karabakh è registrata da numerosi storici a partire dal medioevo fino ai giorni nostri”.
Azerbaigian: Tchilingirian (Università Oxford) su cristianesimo in Karabakh, sforzi per riscrivere la storia non sono nuovi (Agenzia Nova 08.02.22)
Roma, 08 feb 11:02 – (Agenzia Nova) – Nonostante la mancanza di somiglianze linguistiche e culturali, la storiografia azerbaigiana ha costruito una “connessione albanese” nell’etnogenesi della nazione azerbaigiana. È quanto si legge nell’articolo del professor Hratch Tchilingirian “Cristianesimo in Karabakh: gli sforzi dell’Azerbaigian per riscrivere la storia non sono nuovi”. “Secondo questa narrazione, l’Albania caucasica storica (che non è correlata all’Albania balcanica) è presentata come il predecessore sociale, culturale e territoriale dell’Azerbaigian contemporaneo; quindi, confutando le pretese armene sul Karabakh. Negli ultimi anni, i riferimenti agli armeni nelle fonti storiche primarie nelle nuove edizioni delle prime cronache sul Karabakh pubblicate in Azerbaigian sono stati cancellati o modificati”, ha spiegato Tchilingirian. “Sebbene l’etnogenesi degli azerbaigiani sia oggetto di dibattito accademico, la maggior parte degli studiosi concorda sul fatto che l’Azerbaigian, come entità nazionale, sia emerso dopo il 1918. Il dibattito su come chiamare gli azerbaigiani risale alla fine del XIX secolo; la popolazione dell’Azerbaigian, precedentemente classificata come “turca” o “tatara transcaucasica” è stata formalmente reidentificata come “azerbaigiana” nel 1937. In effetti, il fondatore della prima Repubblica dell’Azerbaigian, Mohammad Amin Rasulzadeh, ha ammesso che nominare la nuova repubblica Azerbaigian “era stato un errore”. Nel giugno del 2000, ‘Nezavisimaja Gazeta’ ha citato Vafa Guluzade, un importante consigliere del presidente dell’Azerbaigian, affermando che ‘il concetto stesso di ‘Azerbaigian’ è un anacronismo del periodo sovietico. La nostra lingua è il turco e per nazionalità siamo turchi’”, prosegue il docente dell’Istituto orientale dell’università di Oxford.
Nel contesto del conflitto armeno-azerbaigiano, spiega Tchilingirian, “il ‘collegamento albanese’ è diventato una questione politicizzata di irredentismo. Gli storici azeri, stabilendo un collegamento tra gli odierni azeri e gli albanesi caucasici, oltre a fornire una storia nazionale comune, sostengono l’idea di continuità etnica e presenza nel Karabakh e ‘dimostrano’ che gli armeni del Karabakh sono immigrati relativamente recenti nella regione e quindi un popolo “non indigeno” che vive nelle antiche terre dell’Azerbaigian”. “Gli autori azerbaigiani moderni omettono i riferimenti agli armeni che abitavano nel Karabakh prima delle invasioni turche della regione. Ad esempio, la nuova edizione del cronista del IXX secolo Mirza Jamal Javanshir’s Tarikh-e Karabakh ha cancellato le affermazioni secondo cui ‘nei tempi antichi (il Karabakh) era popolato da armeni e altri non musulmani’ e la maggior parte degli altri riferimenti alla presenza armena in Karabakh”, ha proseguito l’accademico. Nel corso dei decenni, gli storici in Armenia si sono impegnati a confutare le affermazioni storiche dell’Azerbaigian, spiega Tchilingirian, “soprattutto dall’intensificarsi del conflitto armeno-azerbaigiano alla fine degli anni Ottanta, utilizzando prove di periodi preistorici, fonti medievali primarie e studi moderni sulla regione. Ma gli armeni del Karabakh che vivono sulla terra, piuttosto che nei libri di storia, indicano centinaia di monumenti antichi, rovine di edifici religiosi, chiese e monasteri come ‘testimoni viventi’ della presenza armena in Karabakh”. Secondo l’accademico, quindi, “la storia del cristianesimo e la presenza della Chiesa armena nell’odierno Karabakh è registrata da numerosi storici a partire dal medioevo fino ai giorni nostri”. (Res)
© Agenzia Nova – Riproduzione riservata
La lavanderia dell’Azerbaigian. Una storia di petrolio, guerra, soldi sporchi e politica (Greenreport 07.02.22)
Il 31 gennaio, Transparency International UK ha accolto con favore la sentenza per la confisca di 5,6 milioni di sterline di fondi sospetti provenienti da conti bancari del Regno Unito che sono passati attraverso l’”Azerbaijan Laundromat”, una colossale operazione di riciclaggio di denaro e fondi neri utilizzati per spostare 2,2 miliardi di sterline fuori dall’Azerbaigian. I fondi neri confiscati grazie a un’indagine della National Crime Agency (NCA) appartenevano alla famiglia di Jevanshir Feyziyev, presidente del Working Group for Great Britain del Milli Majlis, il Parlamento dell’Azerbaigian. In realtà gli investigatori puntavano a recuperare 15,3 milioni di sterline, ma sono riusciti a convincere il giudice John Zani della Westminster Magistrates Court che molto più di un terzo della cifra proveniva da attività criminali. I soldi sporchi hanno raggiunto le banche britanniche grazie a società di copertura anonime del Regno Unito che hanno operato tramite conti bancari in Lettonia ed Estonia.
Secondo Steve Goodrich, capo ricerca e investigazione a Transparency International UK, «Questa sentenza è indicativa dell’attuale performance delle forze dell’ordine nell’affrontare la ricchezza sospetta nel Regno Unito: segni promettenti di progresso, ma ancora molta strada da fare. Anche se una vittoria parziale è meglio di una sconfitta, sono sicuro che l’NCA cercherà di ottenere risultati sempre migliori nei casi futuri. Se il governo mettesse i suoi soldi al posto giusto e investisse di più nella lotta alla criminalità finanziaria, potremmo vedere il Regno Unito mettersi al passo con gli Stati Uniti quando si tratta di combattere la corruzione e la cleptocrazia. Al centro di questo caso c’era l’abuso delle società di comodo del Regno Unito che sono state utilizzate per riciclare fondi sospetti dall’Azerbaigian. Il governo ha promesso da anni di riformare la Companies House in modo che questo genere di cose non si ripetesse e quest’anno si è finalmente impegnato a mandare avanti la legislazione. Se i ministri dovessero fare resistenza e non annunciassero l’Economic Crime Bill nel prossimo discorso della regina, sembrerebbe che stiano allentando la presa sulla grave criminalità finanziaria».
E qualche sospetto che il Partito Conservatore possa puntare i piedi c’è. Infatti, tirando un filo della matassa dell’”Azerbaijan Laundromat”, l’ONG openDemocracy è subito arrivata al parlamentare conservatore di Harrow East, Bob Blackman, a capo dell’Azerbaijan All-Party Parliamentary Group (APPG) e che ha ammesso tranquillamente: «Ho espresso regolarmente posizioni a nome dei nostri buoni amici in Azerbaigian». Blackman non è un deputato qualsiasi: è il segretario esecutivo dell’influente 1922 Committee conservatore e dal 2011, insieme al suo staff, ha effettuato 7 viaggi gratuiti, per un valore di 23.000 sterline, nella repubblica petrolifera dell’Azerbaigian. I tre viaggi più recenti sono stati pagati dal parlamento azero o dall’Ambasciata dell’Azarbaigian a Londra. Goodrich denuncia: «Consentire a parlamentari e Lord di fare viaggi interamente pagati da governi stranieri è una ricetta per il disastro e dovrebbe essere bloccato. La vicinanza con cui i regimi corrotti e repressivi possono lavorare a fianco dei parlamentari britannici al fine di rifarsi una reputazione è profondamente inquietante».
Blackman, che è in Parlamento dal 2010, ha persino ospitato Feyziyev alla Camera dei Comuni quando c’erano già sospetti che il parlamentare azero fosse coinvolto in affari con fondi sospetti. Blackman non ha voluto rispondere alle ripetute richieste di commento da parte di openDemocracy, invece Feyziyev ha dichiarato: «Tutti i fondi detenuti nei conti bancari del Regno Unito provengono da una fonte completamente legittima. In qualità di azionista di una delle più grandi aziende farmaceutiche dell’Azerbaigian, ho guadagnato questi fondi come dividendi. Il meccanismo di trasferimento di denaro utilizzato per ritirare questi fondi legittimi dal Paese – con cui né io né la mia famiglia avevamo nulla a che fare e su cui non avevamo alcun controllo – è stato oggetto delle indagini dell’ANC e, in definitiva, dell’ordine di confisca del tribunale».
Ma, anche se a Feyziyev e alla sua famiglia non sono stati contestati illeciti personali, la recente sentenza ha rilevato che «Ci sono stati legami malsani e corrotti tra l’élite al potere dell’Azerbaigian e chi guida la Avromed LLC», una company fondata da Feyziyev.
Il regime azero è accusato di corruzione ed autoritarismo ma – grazie al gas e al petrolio – ha buoni rapporti con l’Unione europea, gli Usa e gli altri paesi occidentali che hanno appoggiato o tollerato la sua rivendicazione sul Nagorno-Karabakh, un territorio che al tempo dell’Urss era stato assegnato a Baku ma popolato in maggioranza di Armeni che nel 1991 avevano proclamato la Repubblica indipendente dell’Artsakhun che, di fatto, era annessa all’Armenia. Tra il settembre e il novembre 2020, con una sanguinosa guerra durata 44 giorni, le forze militari azere appoggiate dalla Turchia hanno riconquistato gran parte del Nagorno-Karabakh, provocando una lunga crisi politica in Armenia che il 23 gennaio ha portato alle dimissioni del presidente Armen Sargsyan in polemica con il premier filorusso Nikol Pashinyan per come ha gestito il conflitto. Il conflitto ha provocato la morte di migliaia di persone e entrambe le parti avrebbero commesso crimini di guerra
Nel 2020 Blackman aveva esortato l’allora ministro degli Esteri, Dominic Raab, a schierarsi con l’Azerbaigian nella sanguinosa disputa territoriale per il Nagorno-Karabakh. Blackman ha ricevuto di informazioni da importanti esponenti del regime azero, compreso Feyziyev. OpenDemocracy rivela che «Oltre a scrivere a Raab, dal luglio 2020 Blackman ha presentato 4 mozioni pro-regime alla Camera dei Comuni e ha scritto al successore di Raab, Liz Truss, esortandola a rafforzare i legami con l’Azerbaigian. A parte in un caso, il parlamentare non ha menzionato di aver accettato l’ospitalità dello Stato azero nell’anno precedente».
Un ministro degli Esteri Raab aveva criticato la mozione di Blackman perché voleva «attribuire la colpa nel conflitto all’Armenia». E Goodrich commenta: «Il fatto che ci sia una relazione così stretta tra un APPG e con qualcuno al centro di un caso di recupero di beni nel Regno Unito la dice lunga. E’ piuttosto scioccante se i parlamentari vengono essenzialmente informati da ambasciate straniere e poi forniscono contributi alla Camera sulla base di ciò che è stato loro consigliato di dire».
Nel luglio 2020, Blackman ha detto candidamente al podcast Eye To Eye: «Una delle cose che accadono, temo, in questi tipi di conflitti è che […] chiunque ottiene la migliore propaganda tende a prendersi l’attenzione degli ascoltatori e degli spettatori. E a questo proposito ho ricevuto le informazioni attraverso l’ambasciata dell’Azerbaigian nel Regno Unito, quindi sono stati molto, molto utili, molto, molto proattivi dall’inizio delle ostilità». E ha aggiunto che, quando le ostilità sono iniziate il 12 luglio, «Ricevevo informazioni immediatamente, ed è per questo che ho presentato la mozione all’inizio della giornata e perché abbiamo fatto più pressione mediatica possibile».
OpenDemocracy rivela che «Il rapporto di lavoro di Blackman con Javanshir Feyziyev risale almeno al 2016, quando il parlamentare accolse il politico azero alla Camera dei Comuni, insieme all’allora ambasciatore azero, per un incontro dell’APPG per discutere del Nagorno-Karabakh».
Nel 2017, l’Organized Crime and Corruption Reporting Project pubblicò due articoli che accusavano Feyziyev di essere implicato nel riciclaggio di denaro illegale e nella corruzione di politici europei. Feyziyev ha respinto le accuse e nel 2018 ha presentato una denuncia per diffamazione all’High Court di Londra, un caso che alla fine si è risolto con un accordo tra le parti. Ma in una testimonianza firmata depositata nel 2019 Feyziyev ammetteva di aver «costruito notevoli legami» con dei parlamentari britannici e la scorsa settimana ha dichiarato a openDemocracy che le relazioni tra il parlamento azero e quello britannico sono «amichevoli e reciprocamente vantaggiose» e che i gruppi interparlamentari hanno svolto un «ruolo importante nel difendere l’Azerbaigian all’estero e per apprendere le migliori pratiche parlamentari dalle democrazie più mature. Ho incontrato regolarmente parlamentari britannici per discutere di questioni di reciproco interesse. Tutte le mie interazioni e i miei impegni con i politici del Regno Unito sono stati e saranno condotti in conformità con tutte le norme di trasparenza pertinenti».
Ma Feyziyev non ha risposto alle domande di openDemocracy sulla sua relazione con Blackman che ha ospitato il parlamentare azero in una seconda riunione dell’APPG nel febbraio 2019, quando l’ANC aveva già ottenuto ordini di congelamento dei conti bancari detenuti dal figlio e dal nipote di Feyziyev dopo un’indagine approfondita.
OpenDemocracy evidenzia che «Feyziyev ha quindi preso parte a molteplici briefing con Blackman e l’APPG dell’Azerbaigian, durante un periodo di intensificazione delle ostilità tra l’Azerbaigian e l’Armenia che è culminato in una guerra di 6 settimane nell’autunno 2020. Il 13 luglio 2020, Blackman ha presieduto una riunione virtuale dell’APPG dell’Azerbaigian. L’APPG ha ascoltato un briefing sugli scontri al confine di Feyziyev, insieme all’allora ambasciatore dell’Azerbaigian nel Regno Unito, Tahir Taghizadeh, che si è unito al meeting».
Lo stesso giorno Blackman presentò una mozione parlamentare nella quale accusava l’Armenia di «atti di aggressione» e invitava il governo conservatore del Regno Unito a «Condannare le recenti azioni [dell’Armenia]» e a «Esortare il ritiro delle forze militari armene dai territori occupati dell’Azerbaigian, come affermato in Risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu adottate nel 1993». Una mozione presentata 5 mesi dopo che l’Azerbaigian lo aveva pagato per visitare il Paese come osservatore delle elezioni parlamentari del febbraio 2020, stravinte ancora una volta dal Yeni Azərbaycan Partiyası del presidente Ilham Aliyev, succeduto nel 2003 al padre Heydar Aliyev, l’ex capo del KGB azero che dal 1993 aveva governato col pugno di ferro l’Azerbaigian indipendente dopo averlo fatto come segretario del Partito Comunista al tempo dell’Urss. Alla chiusura delle urne Blackman disse che nelle elezioni azere del 2020 «Non c’è stato niente di spiacevole che ho potuto vedere durante il processo di voto». Ma il Foreign and Commonwealth Office del Regno Unito lo smentì con una nota ufficiale: «Le elezioni parlamentari dell’Azerbaigian non hanno soddisfatto gli standard democratici internazionali» e l’OCSE confermò che «La legislazione restrittiva e l’ambiente politico hanno impedito una vera concorrenza. Nel giugno 2020, la European Platform for Democratic Elections finanziata dall’Unione europea scrisse al presidente della Camera dei Comuni britannica accusando Blackman di puntare a «Disinformare l’opinione pubblica dell’Azerbaigian sulla reale percezione internazionale del processo elettorale con valutazioni pubbliche straordinariamente positive delle elezioni».
Non contento, il primo ottobre 2020 Blackman presentò una seconda mozione parlamentare che chiedeva al governo del Regno Unito di «condannare l’Armenia per aver palesemente violato il regime di cessate il fuoco» e lo stesso o giorno pose una domanda sul Nagorno-Karabakh al question time alla Camera dei Comuni. La settimana dopo, Blackman scrisse a Raab, chiedendogli di incontrare l’APPG per discutere del conflitto del Nagorno-Karabakh. La lettera ripeteva, parola per parola, diversi paragrafi di una dichiarazione rilasciata settimane prima dal consigliere per la politica estera di Aliyev, Hikmat Hajiyev, che affermava: «La responsabilità della situazione attuale e degli sviluppi futuri ricade direttamente sulla leadership politico-militare dell’Armenia». Non sembra che Blackman abbia informato l’allora ministro degli esteri della fonte delle sue affermazioni.
Prima, durante e dopo la guerra azero-armena Blackman ha continuato a mantenere stretti contatti con l’ambasciata dell’Azerbaigian a Londra, che ha tenuto conferenze stampa regolari e briefing per parlamentari e giornalisti. L’allora ambasciatore dell’Azerbaigian Tahir Taghizadeh, disse all’agenzia di stampa russa Interfax che aveva mantenuto un «regime permanente di consultazioni telefoniche e video» con i parlamentari britannici durante tutte le 6 settimane di guerra. E Feyziyev sembra aver svolto un ruolo chiave negli sforzi di sensibilizzazione dell’ambasciata, incluso un briefing online tenuto con Blackman sull’accordo di pace mediato dalla Russia che ha posto fine al conflitto all’inizio di novembre. Open Democracy rivela che «Nessun altro sembra essere stato presente al briefinfg online del 10 novembre oltre a Blackman, Feyziyev, Taghizadeh e un funzionario dell’ambasciata azera».
Il giorno dopo, Blackman presentò subito una terza mozione sull’accordo di pace nella quale esprimeva il desiderio di «mostrare solidarietà al popolo azero che è stato resiliente dimostrando pubblicamente in così grande numero il sostegno del loro diritto a vivere in pace nelle loro terre storiche». Il giorno successivo l’APPG dell’Azerbaigian avrebbe dovuto incontrarsi con il Foreign and Commonwealth Office, ma non è chiaro se questo incontro sia davvero avvenuto o sia stato più probabilmente annullato.
Il 25 febbraio 2021, Blackman ha presieduto l’assemblea generale annuale dell’APPG dell’Azerbaigian alla quale hanno partecipato online l’allora ambasciatore azerbaigiano Taghizade, Feyziyev e il vicecapo del dipartimento delle relazioni internazionali del Milli Majlis. Babek Agayev. Secondo un comunicato stampa ufficiale dell’Azerbaigian, in quell’occasione , Feyziyev ha invitato tutti i parlamentari dell’APPG a visitare il Azerbaigian, promettendo «Informazioni di prima mano sullo stato delle cose nei territori liberati», cioè le aree del Nagorno-Karabakh riconquistate dall’esercito azero. E nel novembre scorso Blackman ha guidato una delegazione di parlamentari britannici in un viaggio nella capitale dell’Azerbaigian, Baku, dove hanno incontrato il presidente Aliyev e altri alti esponenti del regime. La delegazione, che comprendeva il parlamentare conservatore scozzese David Duguid e Lord Kilclooney, un politico della destra unionista nord-irlandese, ha anche potuto visitare la città di Shusha, nel Nagorno-Karabakh, che è stata teatro di feroci combattimenti durante la guerra. Tutte le spese della “gita” di Blackman, del suo staff e i viaggi di Duguid e Kilclooney sono state pagati dal governo azero.
OpenDemocracy è anche entrata in possesso di una lettera inviata nel dicembre 2021 da Blackman alla attuale ministro degli esteri Truss sulla sua visita in Azerbaigian e nel Nagorno-Karabakh nel novembre 2021 e nella quale il parlamentare conservatore esorta la sua collega di Partito Truss ad aggiornare l’APPG dell’Azerbaigian «Su quali passi sta compiendo il governo per rafforzare i legami commerciali, economici e politici con l’Azerbaigian». Per Blackman, «L’intensificazione degli scambi ministeriali, parlamentari e di affari tra il Regno Unito e l’Azerbaigian […] servirà all’obiettivo di avvicinare ancora di più i nostri due Paesi» e ha chiesto di «Accelerare i colloqui su un futuro accordo commerciale Regno Unito-Azerbaigian». Naturalmente il parlamentare nella lettera non ha menzionato il fatto che il suo viaggio nelle zone di guerra era stato pagato e organizzato dal parlamento azero.
Qualche giorno prima, Blackman aveva presentato un’altra mozione parlamentare sulle relazioni tra Azerbaigian e Armenia che esprimeva «sostegno alle compagnie britanniche coinvolte nella ricostruzione delle terre liberate nella regione del Nagorno-Karabakh».
Verrebbe da dire che il rapporto incestuoso tra i politici conservatori e il business britannici e il petro-regime azero non poteva essere spiegato meglio.
Azerbaigian: Comunità armena condanna falsificazioni storiche su fede cristiana (Agenzianova 07.02.22)
(Res)
Amalfi, l’opera umanitaria di Mons. Angelo Maria Dolci e Mons. Andrea Cesarano al tempo del genocidio degli armeni in Turchia (Positanonews 07.02.22)
Riportiamo l’interessante racconto del giornalista amalfitano Sigismondo Nastri sulla figura di due rappresentanti della chiesa amalfitana in Turchia nell’opera umanitaria di Mons. Angelo Maria Dolci e e Mons. Andrea Cesarano al tempo del genocidio degli armeni: «Si sa che i nostri antenati si stabilirono fin dal VII secolo a Costantinopoli, rafforzando poi i loro insediamenti, per ovvie ragioni commerciali, a partire dal X secolo. Costruendo chiese, ospedali, istituendo ordini religiosi e cavallereschi. Ma non è questo che m’incuriosisce. Il mio interesse si rivolge a due personaggi: monsignor Angelo Maria Dolci (Civitella di Agliano, 12.7.1867 – 13.9. 1939), arcivescovo di Amalfi dal 1911 al 1914, quando si dimise per assumere l’incarico di delegato apostolico della Santa Sede in Costantinopoli, e monsignor Andrea Cesarano (del quale pure ho scritto), all’epoca canonico della cattedrale amalfitana, che lo accompagnò nella delicata missione in qualità di segretario.
Louis Pelâtre, vicario apostolico di Istanbul, in un articolo pubblicato nel 2006 sull’Osservatore Romano in occasione del viaggio apostolico di Benedetto XVI in Turchia, racconta la vicenda storica di quel vicariato, fino ai nostri giorni. Quanto a mons. Dolci e mons. Cesarano, bisogna dire che essi vi giunsero in un momento estremamente delicato. Si stava avviando allo sfaldamento l’impero ottomano, ma si stava anche consumando il feroce genocidio degli Armeni. “Nel 1914 la situazione armena peggiora irrimediabilmente. In quell’anno infatti il governo turco decide di entrare in guerra a fianco degli imperi centrali e subito si lancia alla conquista dei territori azeri “irredenti”. La Terza Armata turca, impreparata, male equipaggiata, mandata allo sbaraglio in condizioni climatiche ostili, viene presto sbaragliata a Sarikamish nel gennaio 1915 dalle forze sovietiche. L’esercito turco indica i responsabili della disfatta negli armeni che, allo scoppio della guerra avevano comunque assicurato il proprio sostegno all’impresa turca. Il clima si fa sempre più teso e, tra il dicembre del ’14 ed il febbraio del ’15, il Comitato Centrale del partito Unione e Progresso, diretto dai medici Nazim e Behaeddine Chakir, decide la soppressione totale degli armeni. Vengono creati speciali battaglioni irregolari, detti tchété, in cui militano molti detenuti comuni appositamente liberati; essi hanno addirittura autorità sui governi ed i prefetti locali e quindi godono di un potere pressoché assoluto. L’eliminazione sistematica prende l’avvio nel 1915, quando i battaglioni regolari armeni vengono disarmati, riuniti in gruppi di lavoro ed eliminati di nascosto. Il piano turco, pensato e diretto dal Ministro dell’Interno Talaat, prosegue poi con la soppressione della comunità di Costantinopoli ed in particolare della ricca ed operosa borghesia armena: tra il 24, che resta a segnare la data commemorativa del genocidio, ed il 25 aprile, 2345 notabili armeni sono arrestati mentre tra il maggio ed il luglio del 1915 gli armeni delle province orientali di Erzerum, Bitlis, Van, Diyarbakir, Trebisonda, Sivas e Kharput vengono sterminati. Solo i residenti della provincia di Van riescono a riparare in Russia grazie ad una provvidenziale avanzata dell’esercito sovietico. Nelle città viene diffuso un bando che intima alla popolazione armena di prepararsi per essere deportata; si formano così grandi colonne nelle quali gli uomini validi vengono raggruppati, portati al di fuori delle città e qui sterminati. Il resto della popolazione viene indirizzato verso Aleppo ma la città verrà raggiunta solo da pochi superstiti: i nomadi curdi, l’ostilità della popolazione turca, i tchété e le inumane condizioni a cui sono sottoposti fanno sì che i deportati periscano in gran numero lungo il cammino. Dopo la conclusione delle operazioni neppure un armeno era rimasto in vita in queste province.
La seconda parte del piano prevedeva il genocidio della popolazione armena restante, sparsa su tutto il resto del territorio. Tra l’agosto del 1915 ed il luglio del 1916 gli armeni catturati vengono riuniti in carovane e, malgrado le condizioni inumane cui vengono costretti, riescono a raggiungere quasi integre Aleppo mentre un’altra parte di deportati viene diretta verso Deir es-Zor, in Mesopotamia. Lungo il cammino, i prigionieri, lasciati senza cibo, acqua e scorta, muoiono a migliaia. Per i pochi sopravvissuti la sorte non sarà migliore: periranno di stenti nel deserto o bruciati vivi rinchiusi in caverne.
A queste atrocità scamperanno solo gli armeni di Costantinopoli, vicini alle ambasciate europee, quelli di Smirne, protetti dal generale tedesco Liman Von Sanders, gli armeni del Libano e quelli palestinesi.
Il consuntivo numerico di questo piano criminale risulta alla fine:
– da 1.000.000 a1.500.000 di armeni vengono eliminati nelle maniere più atroci. In pratica i due terzi della popolazione armena residente nell’Impero Ottomano è stata soppressa e, regioni per millenni abitate da armeni, non vedranno più, in futuro, nemmeno uno di essi.
– circa 100.000 bambini vengono prelevati da famiglie turche o curde e da esse allevati smarrendo così la propria fede e la propria lingua.
– considerando tutti gli armeni scampati al massacro il loro numero non supera le 600.000″.
Monsignor Dolci, il 5 giugno 1916, lanciò questo appello al ministro degli esteri ottomano. “Tutta la stampa europea e americana, dopo aver dato grande spazio all’annientamento della razza armena, si leva con indignazione contro la Santa Sede e contro l’augusta persona di Sua Santità il Papa che, dall’inizio di questa persecuzione contro i cristiani di Siria e soprattutto del Libano, non ha protestato, attraverso un atto pubblico ufficiale, di fronte al mondo civilizzato.
La stampa stessa espone nelle colonne dei giornali i tristi dettagli dei massacri di tanti cristiani, di numerosi preti e di una quarantina di vescovi armeni, di cui cinque cattolici; si indigna anche contro il rifiuto delle autorità di mandare un prete ai sopravvissuti per il servizio religioso, rifiutato anche ai moribondi, e si lamenta amaramente delle procedure del governo ottomano contro i suoi soggetti cristiani di Siria e Libano. […] Ho delle istruzioni dei miei superiori da sottoporre all’alta intelligenza di sua eccellenza il ministro degli Esteri e al suo spirito illuminato di uomo di Stato, la situazione dolorosa e penosa che questa persecuzione contro i cristiani di Siria e Libano creerebbe alla Santa Sede davanti all’opinione pubblica che non cessa di reclamare energicamente una protesta ufficiale di fronte al mondo civilizzato, arrivando fino ad accusarlo di mancare ai suoi sacri doveri, non difendendo la vita e gli interessi della cristianità.
Sua eccellenza mi permetta di far notare rispettosamente che queste procedure delle autorità del vilayet della Siria e soprattutto del governatore del Libano (di costringere i cristiani alla conversione all’Islam), cercando di spegnare il culto cattolico, sollevano grida di indignazione nel mondo intero, e che allo stesso tempo sono contrari ai reali interessi dell’Impero ottomano che, soprattutto in questa guerra e dopo l’abrogazione delle capitolazioni, deve affrettarsi a testimoniare al mondo che il culto cristiano non ha bisogno della protezione delle Potenze straniere, che il suo protettore naturale è il governo ottomano” [Archivio segreto vaticano, Delegazione Apost. di Turchia, Mgr Angelo Maria Dolci, fasc. “Persecuzione e massacri contro gli armeni”, vol. II, 93, s.p. In: Raymond Kévorkian (a cura di), Revue d’Histoire arménienne contemporaine (tome II), numero monografico sui campi di raccolta in Siria-Mesopotamia (pubblicazione della Bibliothèque Noubar, Paris 1998]. “La guerra non era ancora finita – scrive Rinaldo Marmara, storico ufficiale del vicariato apostolico di Istanbul, in un altro articolo, pure uscito sull’Osservatore Romano – che già Monsignor Dolci, Delegato Apostolico della Santa Sede in Costantinopoli, aveva preso l’iniziativa, in segno di riconoscenza, di erigere un monumento al ‘Papa della Pace’ Benedetto XV”. Per l’opera da lui svolta a favore della nazione ottomana: intervento presso il governo francese per i prigionieri turchi, ospedale per i feriti turchi, doni ai soldati per la festa religiosa del Bayram, visita dei prigionieri turchi arrivati dalla Russia. Mons. Dolci fece conoscere il suo progetto attraverso una lettera circolare, che tendeva anche a raccogliere i finanziamenti necessari. Ci riuscì. Manara riporta una serie di notizie interessanti trovate nel Chronicon della Delegazione Apostolica di Costantinopoli: «Monsignor Dolci avendo durante la guerra e l’armistizio lavorato tanto per aiutare tutte le miserie, seguite necessarie della guerra, coll’aiuto di armeni, greci, ebrei, musulmani e altri venne in aiuto con un’opera detta ‘Lacrime nascoste’ a famiglie intiere rovinate dalla catastrofe della guerra. Onde fece fare teatri, lotterie, kermesse, a favore della sua opera e il sacerdote Mussulu Giovanni Natale di Smirne fu incaricato spesso in queste opere. Sempre agendo come rappresentante del Papa benedetto XV volle ancora immortalare la memoria benefica di questo gran Papa che da vero Pastore et Padre ebbe l’intuizione dei bisogni di tutti senza distinzione di religione e di razza e a cui provvide quanto glielo permisero le facoltà e le circostanze. A questo scopo fece erigere la statua che si trova attualmente nel cortile della Cattedrale. A questa opera in segno di riconoscenza vi contribuirono greci, armeni, turchi, protestanti ed ebrei: Monumento di riconoscenza degli eterodossi al Papato Cattedra di Pace e di Bontà, come lo dicono le quattro lastre sullo zoccolo della statua, in francese e in italiano. Le due lastre laterali le fece mettere Monsignor Cesarano dopo la partenza di Monsignor Dolci. Prima statua in Turchia, presieduta dal figlio del sultano Abdul Hamid». Quando il 13 marzo 1933 mons. Dolci fu fatto cardinale da Pio XI, mons. Cesarano svolse le funzioni di segretario della Delegazione apostolica. La sua opera – nota Matteo Di Turi nel suo sito “Sacro e profano” – “fu considerevole, delicata e meritoria, poiché non trascurò mai gli aspetti umanitari che la Santa Sede intendeva innanzitutto perseguirvi. Don Andrea Cesarano salvò da sicura strage moltissimi Armeni: un popolo sterminato in passato da Ottomani e da Curdi, e ancora perseguitato dai Giovani Turchi di Kemal Atatürk, nel 1922. Da diplomatico, egli mostrò un cospicuo talento, affinatosi nel tempo in un crescendo inarrestabile con l’esperienza acquisita; e da sacerdote mai trascurò di esercitarvi la necessaria carità. Non poche conversioni lo ripagarono per tutto questo. Un giorno gli giunse il premio per le meritate benemerenze acquisite. Ad Istanbul, il 15 agosto 1931, nella cattedrale di Santo Spirito, con la nomina conferitagli da Pio XI di arcivescovo di Manfredonia, monsignor Cesarano venne consacrato dagli arcivescovi: Margotti, delegato apostolico in Turchia; Roncalli, visitatore apostolico di Bulgaria; e Filippucci, della Chiesa latina d’Atene, presenti numerose autorità dei diversi paesi accreditati in Turchia”.
Nella foto, del 1957: Mons. Cesarano e Sigismondo Nastri
La campagna azera contro le chiese armene in Artsakh. In Occidente tutti troppo preoccupati a richiedere il gas azero. L’Unione Europa stanzia 2 miliardi di Euro di assistenza all’Azerbajgian (Korazym 07.02.22)
L’Unione Europea ha stanziato un pacchetto di 2 miliardi di Euro di assistenza all’Azerbajgian per investimenti economici, ha detto il Commissario europeo per l’allargamento e la politica di vicinato, l’Ungherese Olivér Várhely. Un regalo al dittatore Aliyev dopo la guerra in Artsakh e l’attacco all’Armenia. Comprerà altre armi… Nel contempo l’Azerbajgian ha dato avvio ad una vergognosa campagna di pulizia etnica artistica e religiosa nell’indifferenza dell’Europa (interessata solo al gas…). La riflessione dell’Iniziativa italiana per l’Artsakh.
Le prime avvisaglie si erano avute già all’indomani della fine della guerra del 2020 allorché lo splendido monastero armeno di Dadivank (foto di copertina) – rimasto sia pure per una manciata di chilometri nel territorio controllato dai militari dell’Azerbajgian – era finito nelle mire della propaganda del Ministero della Cultura [QUI].
Subito ribattezzato con il nome di Khudavang, da Baku erano giunti proclami sulla identità azerbajgiana del sito e il 4 dicembre 2020 un rappresentante della minuscola comunità Udi vi aveva officiato una liturgia accompagnato. da uno stuolo di funzionari governativi e militari azeri.
Fu subito chiaro che l’indirizzo politico di Baku dopo il conflitto era quello di “dearmenizzare” le chiese armene e ricondurre le stesse all’origine albana. Le chiese erano viste, giustamente, come un simbolo dell’armenità della regione e pertanto doveva essere attuata una doppia strategia: quello che non era stato distrutto durante o subito dopo il conflitto andava adeguatamente “restaurato” eliminando ogni traccia di armenità alle stesse.
Un esempio lampante di questa politica è dato dalla cattedrale del Santissimo Salvatore/Ghazanchetsots di Shushi, intenzionalmente colpita dai missili azeri durante la guerra, oggetto di vandalismi a fine conflitto e poi ingabbiata in lavori di manutenzione. Basta soffermarsi su quanto riporta il sito del Ministero della Cultura azero per capire le finalità di questo restauro: «Come tutti gli altri monumenti storici e culturali dell’Azerbajgian, la Chiesa di Gazanchy sarà restaurata sulla base di documenti storici e materiali d’archivio, nel rispetto del suo aspetto artistico ed estetico originario; è un’attività scientifico-pratica-di ricerca e comprende un’analisi completa del monumento e lo studio delle caratteristiche architettoniche e storiche. Il progetto di restauro consentirà di riportare il monumento all’aspetto originario, come era nell’Ottocento» [L’Armenia deplora i cosiddetti “lavori di restauro” alla cattedrale Ghazanchetsots di Sushi nell’Artsakh occupato dall’Azerbajgian – 4 maggio 2021].
In parole semplici, verranno eliminati tutti gli elementi che in qualche modo possano riportare all’identità armena della chiesa, a cominciare dalla cupola (subito rimossa) e qualsiasi altra iscrizione. Naturalmente i “documenti storici” custoditi a Baku avranno un grado di attendibilità elevatissimo…

A marzo 2021 era stato poi il Presidente Aliyev a dichiarare pubblicamente, nel corso di un suo tour ad Hadrut, che da ogni monumento civile o religioso nei territori ora sotto controllo azero andava rimossa qualsiasi iscrizione o riferimento armeno. Un’operazione di pulizia etnica culturale, con arroganza annunciata pubblicamente senza che né l’UNESCO né qualsiasi altra istituzione culturale o politica internazionale sentisse il dovere di criticarlo.
Ora, pochi giorni fa, il 3 febbraio 2022, è partita ufficialmente la campagna di “dearmenizzazione”: il Ministro della Cultura, Anar Karimov, ha affermato che sarà istituito un gruppo di lavoro per identificare ciò che ha definito “falsificazione armena” nelle chiese, mettendo in pratica una teoria pseudoscientifica che nega l’origine armena delle chiese. Di fatto, il governo dell’Azerbajgian annuncia ufficialmente che intende cancellare le iscrizioni armene sui siti religiosi nel territorio che ha rivendicato nella guerra del 2020 con l’Armenia; anzi, rimuovere «le tracce fittizie scritte dagli Armeni sui templi religiosi albanesi».
La giustificazione di tale condotta si basa sulla teoria (sviluppata per la prima volta negli anni ’50 dallo storico Azerbajgiano Ziya Buniyatov) che le chiese armene in realtà erano originariamente l’eredità dell’Albania caucasica, un antico regno un tempo situato in quello che oggi è l’Azerbajgian. La teoria, che non è supportata dagli storici tradizionali, è stata a lungo propagata dagli storici nazionalisti azerbajgiani ed è stata accolta dall’attuale governo di Baku.
Ora, tale vergognoso oltraggio all’arte, all’architettura e alla religione, oltre a meritare una decisa presa di posizione internazionale (ma son tutti troppo preoccupati a richiedere il gas azero per far fronte alla crisi ucraina…) ci induce ad alcune considerazioni:
Come può rivendicare un’eredità culturale e religiosa uno Stato che esiste dal 1918?
Se le chiese e i manufatti armeni altro non erano che sovrapposizioni di chiese e manufatti “albani”, perché per decenni gli Azeri li hanno distrutti? Perché si sono accaniti sulle migliaia di croci di pietra medioevali (katchkar) di Julfa o hanno distrutto centinaia di chiese nel Nakchivan?
Se gli azeri si dichiarano “eredi” degli Albani caucasici cristiani, perché hanno mandato in guerra contro gli Armeni migliaia di miliziani jihadisti che hanno compiuto atti di sacrilegio nei siti religiosi cristiani e hanno sgozzato come “infedeli” numerosi soldati e civili armeni?
Purtroppo, per le note congiunture economiche ed energetiche, difficilmente potrà arrivare una qualche solidarietà dalla politica europea e italiana in particolare.
La cui attiva lobby – qualche politico che “lancia appelli”, qualche giornalista di terza fascia, qualche ex professorino a pagamento – si è già attivata con interventi sui media nazionali per fare da cassa di risonanza e provare a fornire un qualche supporto storico all’ennesima porcata del dittatore Aliyev [Armenia-Azerbajgian, il rischio che la storia del genocidio armeno si ripeta – 31 gennaio 2022].
Naturalmente l’unico supporto che hanno è quello dei soldi…


