Nelle ombre della Turchia il genocidio degli armeni (italiaitaly.eu 24.04.19)

Il 24 aprile si commemora il primo genocidio del XX secolo, che ha avuto come vittime un milione e mezzo di armeni, ma la Turchia non ha mai ammesso gli orrori delle “marce della morte”. Nel 1915, in piena guerra mondiale, nell’Impero Ottomano si scatenò una spietata violenza contro gli armeni presenti in Anatolia, una comunità cristiana con aspirazioni anche indipendentiste, temuta per il pericolo che si alleasse con i russi in guerra contro i turchi. Si consumò così il primo genocidio del XX secolo con circa un milione e mezzo di vittime e una storia che la Turchia continua a negare, nonostante le dure reazioni internazionali anche negli …

ultimi anni. Il genocidio degli armeni, che nella lingua locale è chiamato “grande crimine”, è conosciuto anche come “olocausto degli armeni” o “massacro degli armeni” e rientra nella campagna contro gli armeni condotta dal sultano ottomano Abdul-Hamid II.

Nella notte fra il 23 e 24 aprile 1915 si scatenò la prima ondata di repressioni. A Costantinopoli furono arrestati gli esponenti più in vista della comunità armena e nel giro di un mese oltre mille intellettuali armeni, giornalisti e scrittori, poeti e anche delegati la Parlamento furono arrestati e poi trucidati lungo la strada verso l’Anatolia. Seguirono poi massacri e “marce della morte” con innumerevoli vittime e l’eccidio si protrasse anche per tutto il 1916.

Il “caso armeno” è tornato in primo piano con le parole pronunciate da Papa Francesco nella commemorazione delle vittime un secolo dopo il grande eccidio. «La nostra umanità – ha detto – ha vissuto nel secolo scorso tre grandi tragedie inaudite: la prima, che generalmente viene considerata come il primo genocidio del XX secolo, ha colpito il popolo armeno, prima nazione cristiana». Già nel 2001 papa Giovanni Paolo II e Karekin II, Catholicos della Chiesa armena, avevano parlato di genocidio a proposito del massacro di circa un milione e mezzo di cristiani armeni, ma per il governo di Ankara le parole del Pontefice «sono inaccettabili, lontane dalla realtà storica». Una realtà storica che non è possibile disconoscere, perché stragi e deportazioni di armeni ci furono davvero nei tragici anni della Prima guerra mondiale. In una ventina di Paesi, fra cui Italia, Germania, Svezia, Olanda, Russia, c’è stato un riconoscimento ufficiale del genocidio degli armeni; in Svizzera, Francia e Slovacchia sono previste anche pene per i negazionisti.

I fatti sono tragici e raccapriccianti, con numerosi morti per esecuzioni sommarie, fame, assideramento, malattie. In pieno clima bellico la Turchia temeva che gli armeni presenti in Anatolia, alla ricerca da tempo di indipendenza e anche perché cristiani, potessero allearsi con i nemici russi. Le persecuzioni avvennero soprattutto per iniziativa dei Giovani Turchi, che secondo molti storici miravano alla creazione di uno stato turco omogeneo etnicamente, mentre alcuni milioni di cittadini erano armeni e cristiani. Perciò anche in uno studio pubblicato nel 2012 (Völkermord an den Armeniern) lo studioso tedesco Michael Hesemann sostiene che sarebbe più esatto parlare di genocidio cristiano.

La strage del popolo armeno è storia e non può essere negata per motivazioni politico-ideologiche. L’Italia è tra i paesi europei che hanno definito il massacro un “genocidio”. Il Parlamento Europeo in una risoluzione ha riconosciuto il genocidio degli armeni, ha deplorato ogni tentativo di negazionismo, ha reso omaggio alle vittime e proposto l’istituzione di una giornata europea del ricordo. Ha anche invitato il Governo turco a “continuare nei suoi sforzi per il riconoscimento del genocidio armeno e ad aprire gli archivi per accettare il passato”. La Turchia ha però reagito con sdegno, respingendo la mozione e accusando l’Europa di complotto.

La nuova Europa, aperta al futuro e alle cui porte bussa anche la Turchia, non può rinunciare ai propri valori fondamentali, basati sulla tolleranza e sulla legalità, ma anche sul riconoscimento dei propri errori. Lo ha fatto la Germania, dopo i tragici eventi del secolo scorso; lo ha fatto l’Italia, voltando pagina dopo il ventennio fascista; lo ha fatto la Spagna dopo il lungo periodo franchista. Non sembra voglia farlo la Turchia, dopo la dura reazione del suo Governo alle dichiarazioni di Papa Francesco e le ricorrenti polemiche internazionali. La dura reazione del presidente Erdogan e la svolta autoritaria del governo turco gettano ombre anche sull’ingresso di quello stato nella nuova Europa. L’Unione Europea ha valori fondamentali condivisi e riconosce gli errori del passato proprio per costruire un futuro migliore. Anche la Turchia deve fare i conti con la storia e il riconoscimento del genocidio degli armeni è ritenuto fondamentale anche per l’ipotetico e sempre più discusso ingresso di quel Paese nell’Unione Europea. (F.d’A.)

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Genocidio armeno. Ricordare sempre. (macotosatti.com 24.04.19)

Centoquattro anni fa a Costantinopoli cominciava il genocidio degli Armeni. Oggi nelle chiese armene di tutto il mondo, sia della Chiesa apostolica che della chiesa Armeno-cattolica si celebrano liturgie in memoria delle vittime del genocidio armeno compiuto dal governo turco dell’epoca e la cui realtà è ancora oggi recisamente negata dal governo di Ankara.

Proprio in questi giorni, in questi mesi, si attua, in molti Paesi del mondo, il genocidio dei cristiani. In Sri Lanka, in Nigeria, in Pakistan e in molti altri luoghi ancora, anche di quella che una volta era l’Europa cristiana, e oramai è sempre più terra di conquista dell’islam, nelle sue molte facce, da quelle più suadenti a quelle violente, il cristianesimo, i suoi seguaci, i suoi luoghi sacri le sue feste sono sotto attacco.

Un genocidio si può compiere solo con la silente complicità di chi avrebbe il potere di fermarlo. Vediamo che il nome di “cristiani” si è trasformato (Hillary Clinton, Obama) in “Easter worshippers” “Veneratori della Pasqua”! Vediamo che chi dovrebbe indignarsi per lo sterminio del gregge a lui affidato riesce a esprimere generiche condanne, senza osar chiamare con il suo nome la radice funesta di queste tragedie, come ebbe il coraggio e la lucidità di fare Benedetto XVI. Assistiamo a ogni sorta di vergognoso funambolismo da parte di certa gente di chiesa per evitare di chiamare le cose con il loro nome, tante volte che dire la verità portasse più voti a Salvini e Meloni e mettesse ancora più in crisi il (una volta) florido business dell’accoglienza.

In quella che è l’attuale Turchia all’inizio del secolo scorso viveva quella che era la più ricca, numerosa e fiorente comunità cristiana. Chiedete quanti sono ora i cristiani in quelle terre, e come vivono, e per quanto ancora ne troveremo.

Voglio proporvi, questo 24 aprile, un breve saggio che avevo presentato anni fa alla Casa della Memoria di Roma, in un convegno-dibattito intitolato: Storie senza Storia: gli Armeni. Il mio    contributo era una relazione fra Shoah e Genocidio Armeno.  Ci sono tante forme di Shoah, e ci sono forme di nazismo non facilmente riconoscibili, e apparentemente opposte, come la cappa opprimente di una religione totalizzante e totalitaria, e il controllo del pensiero e delle espressioni esercitato dal Politically Correct del cosiddetto “progressismo”. I cristiani, e il loro attuale genocidio, si collocano in questa morsa.

 

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 Hitler, genocidio armeno e Shoah

“Chi parla ancora oggi dell’annientamento degli armeni?” (Wer redet noch heute von der Vernichtung der Armenier?). Non è possibile parlare di genocidio armeno e di Shoah senza citare questa famosa frase, attribuita ad Adolf Hitler, trasmessa nel 1939 da Louis Lochner, capo dell’ufficio berlinese dell’Associated Press ad alcuni diplomatici britannici in servizio a Berlino, e contenuta in un rapporto trasmesso a Londra, il 25 agosto del 1939 dall’ambasciatore britannico sir Nevil Henderson. Il documento riassumeva uno o due discorsi pronunciati da Hitler davanti ai comandanti in capo dell’esercito a Obersalzberg, il 22 agosto del 1939, in vista dell’imminente invasione della Polonia. “Siate duri, siate spietati, agite più in fretta e più brutalmente degli altri”, raccomandò Hitler.

Hitler citò Gengis Khan “che ha mandato a morte milioni di donne e bambini, pienamente consapevole e a cuor leggero”, per ridisegnare il mondo secondo la sua volontà. Hitler concludeva con un riferimento esplicito allo sterminio degli Armeni, affermando che era servito a un fine analogo, e il mondo non solo l’ha dimenticato, ma l’ha accettato “perché il mondo crede soltanto al successo”. Di questa frase esistono cinque versioni; naturalmente i negazionisti turchi cercano di scalfirne la credibilità.

Ma purtroppo per loro un articolo dello storico Winfried Baumgart rivela che otto anni prima, nel giugno del 1931, Hitler in un’intervista al Leipziger Neueste aveva detto, parlando di deportazioni di massa e della rovina delle popolazioni coinvolte: “Ovunque i popoli attendono un nuovo ordine mondiale. Noi abbiamo intenzione d’introdurre una grande politica di ripopolamento…Pensi alle deportazioni bibliche e ai massacri del Medioevo…e si ricordi dello sterminio degli Armeni (erinnern Sie sich an de Ausrottung Armeniens). All’altro capo dell’intervista c’era Richard Breiting, un redattore molto potente, a cui Hitler aveva concesso di prendere appunti scritti (un caso raro, per il dittatore tedesco), La Gestapo di Lipsia fu mobilitata per anni per recuperare quegli appunti; Breiting morì in circostanze misteriose dopo aver incontrato due agenti della Gestapo, che aveva cercato di convincere di aver distrutto gli appunti, che furono invece resi pubblici da sua sorella dopo la fine della guerra.(Ohne Maske, E.Calic, 1968)

Hitler in questo documento sosteneva che sebbene i suoi motivi per distruggere gli ebrei fossero diversi da quelli dei gerarchi turchi per compiere la stessa operazione sugli armeni, le nazioni vittime rispondevano entrambe a un presupposto centrale: quello di essere estremamente indesiderate. Tanto che mise l’accento sulla necessità di “proteggere il sangue tedesco dalla contaminazione, non soltanto del sangue ebreo ma anche di quello armeno”. (Henry Picker, Hitlers Tigespraeche in Fuehrerhauptquartier, Stoccarda 1977). Per Alfred Rosenberg, l’ideologo della razza , Armeni ed Ebrei erano simili, in quanto “popoli di bricconi” (Rosenberg, Der Mythus des zwanzigsten Jahrhuderts).

Opinione peraltro condivisa anche dal Comando Supremo tedesco, che in una sua dichiarazione affermò che “gli armeni sono anche peggiori degli ebrei” (Robert Cecil The Myth of the Master Race, Londra 1972). Secondo molti storici la relativa facilità con cui il genocidio armeno fu compiuto, e l’impunità sostanziale concessa ai suoi autori convinse Hitler e i suoi complici della possibilità di ripetere l’operazione verso la “razza inferiore” che avevano in casa, e nei territori di conquista. Sachar nel suo The emergence of the Middle East scrive: “Il Fuehrer citò il genocidio approvandolo, vent’anni dopo che era stato perpetrato; egli considerava la soluzione armena come un precedente istruttivo”.

Come aveva saputo

Daremo per scontate molte cose, in questo nostro intervento. E’ da ricordare comunque che la Turchia entrò nella Prima Guerra Mondiale al fianco della Germania del Kaiser, e che all’interno dei confini di quello che allora era l’Impero Ottomano agivano centinaia di ufficiali tedeschi, a tutti i livelli, compreso un numero rilevante inserito nei gangli più segreti e sensibili della macchina militare e politica turca, governata dal “triumvirato” dell’Ittihad, il partito dell’unità, responsabile del progetto di una Turchia per i soli turchi, e dell’eliminazione delle razze “altre” armeni, siriaci, greci. I tedeschi furono testimoni – e non solo testimoni– delle deportazioni e dei massacri; alcuni di loro – come Armin Wegner , e altri – li denunciarono, o tentarono di farlo, a dispetto della censura esercitata dal governo sull’opinione pubblica del loro paese.

Ufficiali e soldati, tornando, certamente raccontarono. Hitler e i suoi sodali certamente sentirono questi racconti. Ma una persona in particolare può aver fornito al futuro dittatore tedesco qualche cosa di più. Vogliamo parlare di Erwin von Schneuber-Richter. Questo ufficiale fu viceconsole a Erzurum – uno dei luoghi in cui si consumò il genocidio – e poi vicecomandante di un corpo di spedizione turco-tedesco. Fu personalmente testimone di massacri di armeni compiuti nella provincia di Bitlis, e li descrisse, in un rapporto inviato al cancelliere Hottwleg (Botschaft Kostantinopel K174.) Schneuber-Richter inviò ai suoi superiori, fra il 30 aprile 1915 e il 5 novembre dello stesso anno, quindici rapporti ai suoi superiori sui dettagli delle deportazioni e dei massacri compiuti. Al cancelliere scriveva: “a eccezione di alcune centinaia di migliaia di sopravvissuti a Costantinopoli e nelle grandi città, gli Armeni di Turchia sono stati, per così dire, completamente sterminati”.

Possiamo aggiungere qui che la pubblicazione recente delle memorie di Talaat Pascià, l’ingegnere del genocidio, contenenti le cifre scritte di suo pugno di cui disponeva sull’andamento del genocidio, confermano pienamente quanto scriveva Richter. Talaat calcolava che il numero degli armeni sterminati, nella prima fase dell’operazione, era di poco inferiore al milione. (Su un totale di circa un milione e trecentomila). Ma Schneuber non si limitò ai dettagli: informò il cancelliere sul progetto dell’Ittihad di rendere omogenea razzialmente la Turchia, e sui metodi per realizzare il progetto: pretesti, scuse e menzogne relative a mettere in atto le deportazioni, tecniche per rassicurare gli armeni e di conseguenza renderli inoffensivi; sull’uso di bande di criminali comuni – liberati dalle prigioni – per massacri e saccheggi, e infine sul coinvolgimento della struttura del partito dell’Ittihad. Insomma, vediamo negli scritti di Schneuber l’intero paesaggio genocidale: motivi, organizzazione, logistica e infine il compimento del genocidio, con l’ultimo fondamentale capitolo, quello della negazione. Che purtroppo vediamo ancora svolgersi sotto i nostri occhi, adesso.

“Die Zeit” (Amburgo, Dossier, 1984) sostiene che Hitler era “senza ombra di dubbio perfettamente al corrente” di tutto ciò; e questo perché “uno dei suoi più stretti collaboratori all’inizio del movimento nazionalsocialista era il dott. Max Erwin von Schneuber-Richter, l’ex console di Germania a Erzurum, di cui sono stati conservati i terribili rapporti sul massacro degli Armeni”. Fu Alfred Rosemberg a presentare Schneuber a Hitler, a Monaco nel 1920. Sappiamo bene chi era Rosemberg, l’ideologo del nazismo. Schneuber e sua moglie aderirono al partito nazista il 22 novembre del 1920. E l’ufficiale scriveva, contro “il complotto giudaico internazionale di dominio mondiale”, invitando a mettere in atto una campagna “spietata e implacabile”contro gli elementi non ariani, per compiere “l’inesorabile purificazione della Germania”.

Schneuber in uno dei suoi rapporti di guerra, aveva definito gli Armeni: “questi Ebrei dell’Oriente, questi scaltri commercianti”. (Turkei 183/39, A 28584). Un’osservazione soppressa nella versione a stampa del Ministero degli esteri tedesco, pubblicata da Lepsius. Schneuber-Richter salì nella gerarchia del partito, e l’amicizia con Hitler (a cui fra l’altro garantì grandi somme di denaro, grazie ai suoi rapporti con gli industriali tedeschi) si intensificò. Nel 1923, durante il fallito putsch di Monaco, Schneuber-Richter marciava fisicamente, non metaforicamente, a braccetto con Hitler nel tentativo di rovesciare il governo bavarese, quando un proiettile della polizia locale pose fine a una promettente carriera di gerarca. Non senza però che nel frattempo egli avesse dato un contributo impressionante alle basi ideologiche, politiche e pratiche del futuro genocidio hitleriano. Norimberga, e la “Norimberga” mancata dopo la Prima Guerra Mondiale

Se, come è stato detto anche di recente da un parlamentare israeliano, che sente molto profondamente il problema del riconoscimento internazionale del genocidio armeno, al di là della violenta opera di negazionismo messa in atto dal governo di Ankara, con la complicità e l’acquiescenza di alcuni governi suoi alleati, un genocidio non punito genera altri genocidi, è interessante chiedersi se un atteggiamento più deciso da parte dei vincitori del primo conflitto mondiale avrebbe potuto evitare, o almeno ridurre l’entità della tragedia avvenuta decenni più tardi. Vahakn Dadrian, grande specialista della materia, pone la questione in due domande distinte: 1) l’impunità concessa agli esecutori del genocidio armeno era di natura tale da influenza le tendenze e la mentalità dei nazisti, soprattutto di Adolf Hitler, e di facilitare quindi l’adozione di un piano genocidario simile a quello che era stato adottato contro gli Armeni? 2) In quale misura l’istituzione del tribunale di Norimberga da parte degli Alleati subito dopo la seconda guerra mondiale fu il risultato anche della netta percezione che forse esisteva un legame fra il genocidio armeno e l’olocausto ebraico e che, di conseguenza bisogna punire assolutamente i responsabili di un genocidio per impedire che questo crimine sia commesso nuovamente?

Io credo che gli indizi che abbiamo presentato, e che certamente non esauriscono la materia tendono a fare rispondere di sì, sia in un caso che nell’altro. E lo studio che non si più arrestato sui meccanismi genocidali, questo frutto avvelenato e tremendo della modernità (e dell’uso distorto in campo sociologico di teorie scientifiche, quali il concetto di evoluzione) contribuisce, a mio modesto parere, a confermare l’assunto secondo cui è la speranza dell’impunità uno degli elementi fondamentali dell’orrore. Un mese dopo l’inizio del genocidio, il 24 maggio del 1915 gli Alleati in una dichiarazione congiunta mettevano al corrente la Sublime Porta “che essi riterranno personalmente responsabili tutti i membri del governo turco e i funzionari che avranno partecipato a questi massacri”, e parlavano di “crimine contro l’umanità e la civiltà”.

Penso che si possa leggere in queste righe, oltre all’introduzione del concetto di crimine contro l’umanità, anche la base giuridica fondamentale di Norimberga. Purtroppo alla fine della Prima Guerra Mondiale i vincitori non ebbero la forza di essere nei fatti all’altezza delle loro dichiarazioni. Come si diventa possibili vittime Le cronache dell’orrore sono sempre diverse, e sempre eguali. Volutamente in questa esposizione ho voluto toccare il meno possibile le corde dell’emotività, anche se dalle testimonianze stesse degli ufficiali e dei soldati tedeschi (ottocento ufficiali, e dodicimila soldati) durante la prima guerra mondiale si ha un campionario di crudeltà difficile da eguagliare, dalla perversione di un ufficiale turco il “maniscalco” che faceva applicare ferri da cavallo ai piedi degli armeni, all’uccisione di bambini, a centinaia, schiacciati fra due tavole di legno e poi bruciati vivi.

Ci interessa più di questo esaminare, sia pure brevemente, le vie che conducono al genocidio. Esistono similarità impressionanti fra genocidio armeno e Shoah anche nella fase che precedette l’attuazione pratica. Uno degli elementi comuni era lo status di inferiorità a cui erano assoggettati per lungo tempo sia l’uno che l’altro popolo; che ha conseguenze pratiche – per esempio la proibizione all’accesso a certi uffici di potere, o la possibilità di armarsi – ma causa anche una forma di indebolimento della psiche collettiva della popolazione oggetto della discriminazione. Essere trattati come un diverso, e inferiore, fa sì che uno si senta diverso e inferiore. La proibizione a compiere certe carriere ha indirizzato Armeni ed Ebrei di successo verso commercio e industria; il che li rendeva ancora una volta”diversi” , invidiati e vulnerabili. Poi c’è la componente delle circostanze.

Non è un caso che sia l’uno che l’altro genocidio sia avvenuto nel corso di un conflitto di proporzioni gigantesche. E’ quella che si chiama la “struttura circostanziale” ideale per un gruppo dirigente spietato per portare a termine un’operazione criminale. L’esecutivo può disporre di poteri straordinari, e sotto l’ombrello dell’emergenza compiere atti impossibili in tempi normali. Veramente non voglio abusare della vostra pazienza, ma le coincidenze nei vari passaggi sono troppo stringenti per non colpire l’attenzione di chi osserva da vicino il modo in cui milioni di persone innocenti furono mandate a morti atroci. Il primo passo, sia in un caso che nell’altro, avviene con la sospensione o l’esautorazione del Parlamento, in modo che sia possibile promulgare leggi “ad hoc” per colpire una categoria di persone. Si apre la strada alla seconda fase (e anche questo si è verificato sia in Turchia che in Germania) e cioè alla promulgazione di leggi temporanee, che danno una parvenza di legittimità all’operazione. La terza fase consiste nell’indebolimento della possibile resistenza delle vittime. Si comincia con una serie di arresti tesi a decapitare le comunità dei loro leader, e che spesso finiscono con l’uccisione delle persone interessate. Infine, previa la separazione degli uomini dalle donne e dai bambini, per rendere più fragile la capacità di resistenza, si mette in opera il progetto finale, mascherandolo in genere con termini rassicuranti: spostamento in altre zone per ragioni di sicurezza, e deportazione verso un luogo che in realtà non esiste, o esiste solo come buco nero finale.

Una misura collaterale è l’esproprio, in qualche forma dei beni delle popolazioni colpite. Veramente un esame, anche nei dettagli, come i campi di concentramento, nel Calvario dei due popoli porterebbe via molto tempo. Esiste ormai anche nel nostro paese, per fortuna, una letteratura che si va facendo sempre più ampia, e più documentata, e che rende di giorno in giorno più debole la posizione dei negazionisti.

Non si può, non si deve tacere

E a questo punto, al termine di questo piccolo lavoro, mi sento di dover fare un modesto, sommesso appello. Credo che sia necessario davvero che da questa casa della Memoria, che è memoria soprattutto delle sofferenze di un popolo, si levi una parola ferma e chiara contro ogni negazionismo. E’ una testimonianza che dobbiamo alle vittime innocenti, di ogni genocidio. Chi tace, per qualsiasi ragione lo faccia – e si trovano sempre ottime ragioni per tacere – è complice degli assassini, di ieri e di oggi.

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Asolo ricorda il genocidio armeno (Trevisotoday 24.04.19)

Asolo ricorda il genocidio armeno

Nella ricorrenza dell’anniversario del genocidio armeno (24 aprile),  Asolo ricorda la presenza in essa di una piccola comunità che ebbe origine quando, verso la fine dell’Ottocento, l’Arcivescovo Iknadios Gurekian, Abate della Congregazione dei Padri Mechitaristi di Venezia, acquistò  Villa Contarini, a Sant’Anna,  quale residenza estiva del Collegio Armeno Moorat Raphael di Venezia e vi costruì la chiesetta intitolata alla Santa Croce, con foggia ricalcante la struttura classica della chiesa armena con pianta centrale. La residenza estiva era utilizzata per consentire agli studenti, provenienti in maggior parte dal Medio Oriente e quindi impossibilitati a ritornare a casa,  di trascorrervi il periodo delle vacanze; in seguito,  nell’occasione della Commemorazione della Santa Croce,  divenne un ritrovo estivo per le famiglie di ex allievi che in questo modo rinsaldavano vecchie amicizie ricordando il passato. La sua frequentazione si protrasse fino agli anni ’60. La presenza ad Asolo di intellettuali armeni generò una serie di opportunità di contatti con intellettuali italiani gravitanti nella zona. Tra questi va segnalato il Maestro Gian Francesco Malipiero che si è interessato in maniera approfondita alla musica armena.

Tra le personalità vissute ad Asolo piace ricordare l’architetto Leon Gurekian (Costantinopoli 1871 – Asolo 1950), figura di intellettuale e patriota armeno i cui  familiari  perirono  tutti  nel  genocidio.  Ad  Erevan,  odierna  capitale dell’Armenia, nel marzo 2015, è stata inaugurata una mostra a lui dedicata alla quale ha partecipato anche una rappresentanza  asolana che ha portato un messaggio del Sindaco in cui veniva sottolineato il suo impegno e il suo  coraggio  nel  perseguire  l’obiettivo  della  realizzazione  dell’indipendenza della Repubblica Armena.

Dal settembre del 2016, Asolo ha stretto un “Patto di Amicizia” con la città Armena di Jermuk. «Desidero esprimere tutta la mia vicinanza morale alla comunità armena di Jermuk e all’ Unione Armeni d’Italia e, naturalmente, a tutte le comunità armene nel mondo, in questo giorno in cui si celebra il ricordo dell’immane tragedia che ha colpito questo popolo nel XX secolo –dichiara il Sindaco di Asolo, Mauro Migliorini– un genocidio che ha causato oltre un milione e mezzo di vittime innocenti, con centinaia di migliaia di persone giustiziate, deportate, morte di stenti: si trattò di una repressione (senza eguali) contro la libertà di un popolo, contro la sua sacrosanta aspirazione all’autodeterminazione, contro la sua antica Chiesa apostolica».

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Cosa fu il genocidio degli Armeni? (Focusjunior 24.04.19)

Il 24 aprile 1915 è la data convenzionale che segna l’inizio delle deportazioni degli armeni da parte dell’Impero Ottomano. Ancora oggi, ad oltre 100 anni da quei tristi fatti, il “grande crimine” è ancora poco conosciuto.

Il 24 aprile di ogni anno il popolo armeno si raccoglie per commemorare la tragedia del Medz yeghern, “il grande crimine”, ossia la deportazione sistematica avvenuta tra il 1915 e il 1916 per mano dell’Impero Ottomano e che condusse alla morte centinaia di migliaia di innocenti.

Secondo alcuni storici questo tragico episodio rappresenta il primo caso in assoluto di genocidio – un piano premeditato di sterminio nei confronti di una popolazione o di un gruppo etnico, come fu la Shoah – ma non tutti gli studiosi concordano sull’utilizzo di tale termine.

I FATTI

Quel che è certo però è che nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 i soldati dei “Giovani Turchi“, il movimento nazionalista che aveva preso il potere nel decadente Impero Ottomano, effettuarono a Costantinopoli (odierna Istanbul) i primi arresti di massa tra intellettuali, giornalisti, politici e personaggi di spicco della comunità armena.

Nei mesi successivi, i rastrellamenti si allargarono al tutto l’Impero e i prigionieri vennero sospinti all’interno dell’Anatolia. In queste lunghissime “marce della morte”, uomini, donne e bambini vennero costretti a camminare per giorni senza cibo o acqua sufficienti e in centinaia di migliaia perirono lungo il tragitto per sfinimentomalattie o fucilazioni sommarie.

PERCHÈ AVVENNE QUESTO MASSACRO?

Gli armeni sono un antico popolo euroasiatico originario del sud del Caucaso che all’inizio del XX secolo si trovava sotto il dominio ottomano.

Nel 1915 il governo turco era impegnato nella Prima Guerra Mondiale al fianco degli Imperi Centrali (Germania e Austria-Ungheria) ma lo sforzo bellico stava fiaccando una nazione che già da tempo versava in grandi difficoltà. L’Impero Ottomano non era più la potenza splendente di un tempo e il nuovo corso nazionalista istituto dai Giovani Turchi aveva bisogno di un capro espiatorio per risollevare l’orgoglio nazionale.

Ai tempi gran parte della popolazione armena viveva al confine con i possedimenti dell’Impero russo, in guerra con gli ottomani, e alcuni gruppi di volontari armeni erano addirittura passati a combattere per lo Zar.

Tanto bastò alle autorità ottomane per ordinare l’arresto immediato di tutti i soldati armenipresenti nell’esercito e dell’élite intellettuale. In pochi giorni si passò poi ai civili con il pretesto di allontanare i potenziali traditori dai territori confinanti con il nemico.

IL RICONOSCIMENTO DEL GENOCIDIO

Secondo gli armeni, circa 2,5 milioni di persone morirono in qui mesi, ma le autorità turche – che dopo la dissoluzione dell’Impero Ottomano hanno sempre trattato lo scomodo argomento in modo controverso – ferma il conteggio a circa 200.000 deceduti. Al momento la cifra più diffusa e accreditata si aggira intorno al 1,2 milioni di vittime.

La Turchia però non ha mai accettato la definizione di genocidio, affermando che arresti e deportazioni furono compiuti nel corso di operazioni militari volte a proteggere la sicurezza nazionale. Ventinove nazioni – tra cui l’Italia – hanno invece riconosciuto “l’olocausto” del popolo armeno.

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Armenia, Mollicone (FdI): “Oggi l’Italia riconosce e ricorda il genocidio. Solidarietà al popolo armeno.” (Agenpress 24.04.19)

Agenpress. “Esprimo solidarietà alla lotta del popolo armeno per il riconoscimento del genocidio del secolo scorso. 
La battaglia per il riconoscimento del genocidio armeno è storica per la Destra: in Parlamento abbiamo sottoscritto una mozione, assieme ai colleghi Delmastro e Frassinetti del gruppo parlamentare di Fratelli d’Italia, con un atteggiamento collaborativo verso le forze -anche distanti politicamente- che volessero portare avanti questa giusta lotta.

Da Presidente della commissione cultura e toponomastica di Roma fui io ad avviare la procedura- su richiesta della comunità armena e del comitato a sostegno- del toponimo “Giardino del genocidio armeno”.”

È quanto dichiara Federico Mollicone, deputato di Fratelli d’Italia e capogruppo in commissione Cultura, in occasione del Giorno del ricordo del genocidio armeno.

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Agenpress. “Fratelli d’Italia è vicina al popolo armeno e alla battaglia per il riconoscimento del genocidio, un dossier che intendiamo sottoporre anche all’attenzione dell’Unione Europea. La tragedia che coinvolse gli armeni nel secolo scorso deve essere chiamata con il proprio nome, anche sui libri di scuola.

Per raggiungere l’obiettivo serve una cooperazione fattiva da parte di tutte le forze politiche, un’azione concertata e condivisa a favore del popolo armeno. Non si tratta soltanto di una battaglia di civiltà, ma soprattutto una battaglia di giustizia”.

Lo afferma Stefano Maullu, europarlamentare di Fratelli d’Italia e vicepresidente della Commissione Cultura al Parlamento Europeo.

Armenia, Ceccardi (Lega): “Turchia riconosca il genocidio” (Gonews.it 24.04.19)

«Oggi ricorre la giornata di commemorazione del genocidio armeno: un milione e mezzo di vittime che attendono ancora il pieno riconoscimento della verità storica da parte dei responsabili». Così Susanna Ceccardi, sindaco di Cascina e candidata della Lega alle Europee nella circoscrizione Centro ricorda una delle pagine più buie del primo Novecento. PUBBLICITÀ «La Turchia purtroppo continua a non chiedere scusa per gli errori e gli orrori commessi nei confronti di questo popolo massacrato – continua Ceccardi -. Finché il governo turco non riconoscerà espressamente il genocidio armeno, proprio come hanno fatto moltissimi Stati nel mondo, la sua posizione agli occhi dell’Italia e dell’Europa rimarrà quella di un Paese incapace di fare i conti con la propria storia. Un altro motivo, gravissimo, per cancellare definitivamente il suo processo di adesione». «Da parte nostra – conclude il Sindaco – una preghiera per i morti, per gli esuli, per i dimenticati».

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Pinocchio, burattino armeno. Tra danza, teatro e visual art (Teatrocritica 23.04.19)

Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, di Carlo Collodi (al secolo Carlo Lorenzini), è un romanzo per bambini di fine Ottocento, noto a tutti. Così famoso, con il suo inquieto protagonista di legno, da essersi guadagnato traduzioni in tutte le lingue del mondo, ma anche numerosi film (un ultimo, in lavorazione, è a firma di Matteo Garrone), cartoni animati, irruzioni in ogni negozio di giocattoli. Grazie alla sua trama agrodolce e ambigua il testo di Collodi si è anche prestato a una miriade di interpretazioni psicologiche, psicoanalitiche e persino filosofiche. Ora Pinocchio è diventato un intelligente balletto in bianco e nero. Attorno ai due creatori – la coreografa Patrizia de Bari e il drammaturgo Tuccio Guicciardini – si è formata una cordata di istituzioni fiorentine, toscane e armene che ha prestato danzatori e a ragione sostenuto questo lavoro (Compagnia Giardino Chiuso, C.O.B Opus Ballet, Versiliadanza, NCA, Small Theatre Yerevan).

foto di Andrea Ulivi

Adatto a un pubblico di tutte le età, questo Pinocchio ha infatti almeno cinque grandi pregi e qualche difetto forse facile da eliminare. Il primo pregio è la presenza dell’attore ottantatreenne Virginio Gazzolo. Si presenta subito come narratore, su palco vuoto. Poi ricomparirà a metà spettacolo e alla fine. È così ricurvo, legnoso, con le braccia penzolanti che agita continuamente, da sembrare l’esatta incarnazione di ciò che recita. Ovvero: brani tratti da Henrich von Kleist, Carlo Collodi, Rainer Maria Rilke, Charles Baudelaire, Vsevolod Mejerchol’d. Tutti spiegano la grazia “senza smancerie” delle marionette, la danza angelica dei burattini e il mistero del teatro dove «le cose devono andare non come sono in natura».
Ai bambini, già presenti in molte recite scolaresche al Teatro Goldoni di Firenze, questo canuto narratore piace moltissimo: appare come un nonno che racconta, con insolita veemenza e passione, una fiaba. Agli adulti può piacere per l’importanza di ciò che recita e per come recita perfettamente “all’antica”, in sintonia con il romanzo di Collodi.

foto di Andrea Ulivi

Il secondo pregio, ben legato al terzo, è senz’altro la presenza di una danzatrice/Pinocchio armena (Tamara Aydinyan), di solida formazione accademico-contemporanea, in grado di restituire con assoluta purezza e assenza di “smancerie” tutte le azioni di cui è protagonista. Dall’assoloquasi acrobatico e ipnotico dell’inizio, alla scena, incantevole, in cui deve ingerire una medicina. Senza di lei e alcuni altri interpreti, Geppetto/Mangiafuoco o la prima fata Turchina, le azioni della coreografa Patrizia de Bari – già nota per l’attività nella compagnia Giardino Chiuso – non avrebbero lo stesso effetto, soprattutto negli assoli e nei duetti (terzo pregio), creati con originalità e una precisa schiettezza.

Il quarto pregio è costituito dall’ambiente, creato solo da immagini video in bianco e nero, ma con talune necessarie luci (un bel rosso acceso) qua e là. I vari contesti sono restituiti con dettagli ricercati e un pizzico di melanconia: senza tradire la storia, eppure senza cadere nell’ovvio. Basti ricordare che il famoso naso lungo di Pinocchio appare una volta sola e scompare tra gli uccellini che vi si aggrappano sopra, sempre in video.
Il quinto pregio è la sobrietà dei costumi: color carne per la danzatrice/Pinocchio di Yerevan: scuri, attuali e casual per la brava coppia del Gatto e la Volpe, in nero teatrale à la Strehler per il narratore: quando scompare dopo aver recitato von Kleist, all’inizio, Gazzolo lascia il posto all’immagine di un nerboruto albero, pure nero. Sembra la sua stessa, imprescindibile, trasformazione che fa compagnia alla squisita prima danza della danzatrice/ burattino.

foto di Andrea Ulivi

Infine, questo Pinocchio, dalla musica varia, ma appropriata, è un gioiellino double/face – popolare e colto – che andrebbe accorciato qua e là; tutti gli interpreti dell’Opus Ballet, volenterosi di certo, dovrebbero puntare a somigliare almeno un po’, nelle proprie scene di gruppo, all’armena Aydinyan e agli artisti più vicini alla coreografa de Bari. Il grande lavoro sfociato in questa collaborativa messinscena non esclude che, se protratto, possa portare a un Pinocchiopersino da esportazione. È una pièce vestita di danza, teatro, visual art dedicata a un pubblico non di nicchia, un progetto per tutte le stagioni che rivedremo in autunno.

foto di Andrea Ulivi

Nel frattempo, a Fabbrica Europa, storico festival fiorentino al via il 3 maggio, la collaborazione tra Giardino Chiuso, Versiliadanza di Angela Torriani Evangelisti e l’NCA Small Theatre, diretto da Vahan Badalyan, si esporrà in un collaudato progetto italo-armeno, già presentato a Yerevan in occasione della settimana della lingua italiana nel mondo, promosso dall’Ambasciata d’Italia in Armenia e in occasione del decennale della collaborazione tra NCA.Small Theatre e Versiliadanza.
Si tratta di Macchine, da La morte di Marx e altri racconti di Sebastiano Vassalli per la regia di Tuccio Guicciardini e la coreografia di Patrizia de Bari. Sul palco dello Small Theater di Yerevan, in scena sei danzatori/performer armeni, tra cui ancora Tamara Aydinyan, alle prese con una progressiva disumanizzazione. Come in Pinocchio,il corpo si irrigidisce in un originale movimento che cerca di divenire fossile, tra immagini che corrono e profetiche parole (di Vassalli) sul nostro futuro senz’anima, ovvero entro un guscio, simile a quello di Gregor Samsa nella Metamorfosi di Franz Kafka. La vita e la morte stanno in bilico, anzi in un equilibrio più che precario.

Marinella Guatterini

Teatro Goldoni, Firenze – marzo 2019
NCA (National Center of Aesthetics) Small Theater, Yerevan – marzo 2019

PINOCCHIO
coreografia Patrizia de Bari
drammaturgia Tuccio Guicciardini
scenografia/video Andrea Montagnani
costumi Santi Rinciari
produzione Compagnia Giardino Chiuso, C.O.B Opus Ballet, Versiliadanza, NCA, Small Theatre Yerevan (Armenia)

MACCHINE
regia Tuccio Guicciardini
coreografia Patrizia de Bari
video Andrea Montagnani
con Ashot Marabyan, Christina Danielian, Narek Minassian, Luska Davtyan, Tamara Aydinyan, Mher Zalinyan

Macchine replica al Teatro della Pergola, Firenze, “Fabbrica Europa” 3 e 4 maggio.

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Anniversario del genocidio armeno Un forte impegno a non dimenticare (Corriere della Sera 22.04.19)

Alla vigilia del 24 aprile, data scelta per commemorare lo sterminio del 1915,
l’editore Guerini interviene su una tragedia che le stragi dei cristiani rendono attuale

Un gruppo di profughi armeni all’epoca del genocidio
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Il 10 aprile la Camera dei Deputati del Parlamento italiano ha approvato una mozione bipartisan di grande rilevanza storica e culturale, con cui il governo si impegna a «riconoscere ufficialmente il genocidio armeno e a darne risonanza internazionale».

Come Edizioni Guerini, sposiamo in pieno questa affermazione e, alla vigilia del 24 aprile, data commemorativa del genocidio armeno, facciamo nostro l’impegno a darne la massima risonanza. Una missione culturale che Edizioni Guerini porta avanti fin dal 1992, con la pubblicazione del Canto del pane di Daniel Varujan, grazie al prezioso contributo di Antonia Arslan (co-fondatrice della casa editrice), dedicando una parte importante del catalogo proprio alla valorizzazione di documenti, carte, testimonianze, studi relativi al genocidio.

Frutto di questo lavoro sono stati libri importanti e decisivi per l’interpretazione storica del genocidio come i lavori di Dadrian e Dedeyan (pubblicati in una serie dedicata, «Carte armene»), il Diario dell’ambasciatore americano a Costantinopoli Henry Morgenthau, il volume fotografico Armin T. Wegner e gli armeni in Anatolia, La Santa Sede e lo sterminio degli Armeni nell’Impero Ottomano. Dai documenti dell’Archivio Segreto Vaticano e dell’Archivio Storico della Segreteria di Stato di Karakhanian e Viganò L’inquietudine della colomba. Essere armeni in Turchia di Hrant Dink, per citarne solo alcuni.

Tra le pubblicazioni più recenti, vi sono l’importante testimonianza di Hasan Cemal, nipote di Cemal Pasha, uno degli esecutori materiali del genocidio (1915: Genocidio armeno) e il saggio I peccati dei padri della studiosa Siobhan Nash-Marshall, opera coraggiosa e stimolante pubblicata in Italia solo pochi mesi fa e che ha animato un vivace dibattito sulle pagine culturali dei principali giornali del nostro Paese.

Impossibile non citare poi i lavori di Taner Akcam, lo studioso che forse più di ogni altro ha avuto il merito di attirare l’attenzione pubblica, anche italiana, su questi temi così spesso trascurati. Di Taner Akcam uscirà nei prossimi mesi per le nostre edizioni l’ultimo libro, Killing Orders, con la traduzione di Vittorio Robiati Bendaud e la prefazione di Antonia Arslan, a coronamento dell’opera di diffusione e mediazione culturale avviata oltre venticinque anni fa.

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Armenia e Italia, profonda amicizia e prospettive di sviluppo nei rapporti commerciali (Thedailycases.com 20.04.19)

Il prossimo 24 aprile si commemora quello che viene ricordato come il “Grande crimine” ovvero il genocidio di oltre un milione e mezzo di armeni da parte dell’Impero ottomano ovvero dall’esercito turco e dal suo alleato tedesco avvenuto nel biennio 1915-1916.

di Vincenzo Elifani

Il prossimo 24 aprile si commemora quello che viene ricordato come il “Grande crimine” ovvero il genocidio di oltre un milione e mezzo di armeni da parte dell’Impero ottomano ovvero dall’esercito turco e dal suo alleato tedesco avvenuto nel biennio 1915-1916. La Turchia non ha mai voluto riconoscere questo crimine, ed è questo uno dei principali motivi la tengono lontana dall’adesione all’Unione Europea, ma anche con la Santa Sede i rapporti tra i due Stati sono un pò tesi da quando Papa Francesco nel 2015, riferendosi alle persecuzione nei confronti dei cristiani, ha parlato apertamente del genocidio armeno come il primo genocidio del XX secolo, tanto da provocare l’immediata protesta del governo turco.

Recentemente la Camera dei Deputati italiana ha approvato una mozione che impegna il governo a “riconoscere ufficialmente il genocidio armeno e a darne risonanza internazionale”. Anche in questo caso immediata è stata la risposta del governo turco che ha convocato l’ambasciatore italiano ad Ankara per esprimergli il proprio disappunto e ribadire la posizione turca che sostiene che i massacri siano avvenuti nell’ambito di un conflitto e non pianificati su base etnica o religiosa.

Di certo il dramma vissuto dalla popolazione armena è stato enorme e talmente devastante che ancora oggi, a distanza di oltre cento anni, la ferita è ancora aperta e viva nella memoria collettiva del Paese e delle vaste comunità che vivono all’estero e che continuano a restare molto legate alla loro madrepatria.

Tuttavia, nonostante l’importanza e la sacralità dell’argomento, limitare i discorsi sull’Armenia al genocidio è ormai forse riduttivo nel giudizio su un Paese che, tra mille difficoltà, sta uscendo dalla marginalizzazione del recente passato per proporsi come una realtà potenzialmente molto dinamica, in particolare modo per gli interessi italiani.

L’Armenia, che fino al 1990 faceva parte dell’Unione sovietica, è una piccola nazione del Caucaso, che fa quasi da cerniera tra l’Europa e l’Asia. Le ultime rilevazioni demografiche parlano di una popolazione di poco inferiore ai tre milioni di abitanti.

Quindi, in termini assoluti, una realtà abbastanza “piccola”, ma le dimensioni del Paese non devono ingannare perché l’Armenia, da qualche tempo ha compreso di doversi adeguare agli altri Paese dell’area che, in alcuni casi per effetto delle proprie potenzialità energetiche, marciano a tassi di crescita sostenuti.

L’Armenia, cercando di superare le difficoltà ereditate dai vecchi modelli economici figli del centralismo di Mosca, ha avviato una profonda riscrittura dei propri canoni economici.

Come evidenziano gli incoraggianti dati relativi all’interscambio con l’Italia, che segnala un progresso forse non impetuoso, ma certamente costante, cosa che rassicura gli investitori che intravedono nell’Armenia un partner affidabilissimo nella regione.

Uscendo fuori dai concetti per andare alla solidità dei numeri, la situazione economica armena segnala un rafforzamento di tutti gli indicatori a cominciare dal Prodotto Interno Lordo che, a prezzi costanti, ha fatto registrare un tasso di crescita positivo e con buone prospettive, passando dal +0,2 del 2016 al +5,3 del 2018, con una previsione per l’anno in corso di un +5,5, mentre per il 2020 le stime sono prudenti, prevedendo un aumento del 4,3, che è comunque un traguardo eccellente.

Parallelamente alla crescita del Pil, in Armenia il tasso di disoccupazione, a conferma della bontà delle politiche economiche del lavoro che sono state cambiate, è in costante decrescita.

Nel 2015 era del 18,5 per cento; lo scorso anno del 17,4; la previsione per il 2019 è del 17 per cento. E per il 2020 si prevede un’ulteriore diminuzione del dato, che dovrebbe attestarsi sul 16,8 per cento.

Il quadro generale, come si vede bene, è quindi in costante e progressivo miglioramento, con buone prospettive legate soprattutto all’intensificarsi dei rapporti commerciali con i più important partners europei, come l’Italia.

L’interscambio tra Italia ed Armenia è cresciuto sensibilmente nel corso degli anni, di fatto raddoppiando dal 2000, quando ammontava a quasi 99 milioni di euro.

L’ultima rilevazione è quella del 2018, dove l’interscambio tra i due paesi ha raggiunto i 182,4 milioni di euro, riprendendo a correre dopo la lieve flessione del 2016 (124,6 milioni), comunque “corretta” l’anno successivo (150,5 milioni di euro).

Nel 2018 l’Armenia ha importato prodotti italiani per un totale di 139,8 milioni di euro, esportandone per 42,6, con un saldo negativo di 97,2 milioni di euro.

Quindi, ad oggi, quali sono le prospettive dei rapporti commerciali tra i due Paesi? Direi incoraggianti, a volere essere prudenti.

E non solo per quello che l’Armenia offre come partner, quanto perché essa può garantire quella solidità politica che è necessaria per proporsi come terminale delle merci italiane nella regione. Un impegno di prospettiva che gli imprenditori italiani devono sapere cogliere, con coraggio.

Vincenzo Elifani, imprenditore, analista geopolitico e componente della Giunta nazionale di Confapi.

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