Batman in Armenia: Christian Bale, The Promise e l’ultima canzone di Chris Cornell (Hotcom.com 05.02.19)

Il genocidio, il passato e l’addio: finalmente disponibile il film a cui collaborarono l’attore e il cantante

«La verità? Sono sempre sull’orlo di mollare tutto. Poi ci ripenso e mi dedico completamente a un nuovo progetto. Perdendomi di nuovo». Christian Bale, si sa, non ha mai amato le mezze misure, non ha mai seguito un percorso lineare o prevedibile. Spulciate nella sua filmografia, al limite della schizofrenia, e troverete blockbuster da 200 milioni di dollari come il Batman di Nolan e pellicole minori di Zhang Yìmou, western e peplum, opere di Terrence Malick, Werner Herzog e Michael Mann a fianco di azzardi hollywoodiani come Terminator Salvation«Perché? Ma perché per me il cinema è una forma di conoscenza», spiegò qualche anno fa, giustificando la scelta delle pellicole girate, «e proprio per questo ho deciso di girare The Promise: per la mia ignoranza».

Perché ignoranza? Perché Bale, per sua stessa ammissione, non aveva idea di cosa fosse il genocidio armeno, di cosa fosse accaduto in Turchia nel 1915. Classe 1974, nato e cresciuto a Haverfordwest, diecimila anime perdute in Galles (stesso paesino di un altro folle: Rhys Ifans), Bale in trent’anni di cinema ha compiuto un percorso irregolare, imprevisto, spesso vicino al deragliamento, e forse proprio per questo a un certo punto si è trovato tanto vicino a un altro fuoriclasse irregolare come lui: Chris Cornell, uno dei re indiscussi del grunge, cantante e leader dei Soundgarden, quasi un fratello maggiore (era di dieci anni più vecchio) che per The Promise ha scritto la canzone omonima, poi inserita nella colonna sonora (potete ascoltarla qui sotto) con tanto di video e immagini prese dalla pellicola diretta da Terry George.

Nessuno però, tantomeno Bale, poteva immaginare che quella sarebbe stata una delle ultime cose scritte da Cornell, l’ultimo atto di una vita che stava finendo: l’attore e il cantante si sarebbero visti il 13 aprile 2017, a Hollywood, sul red carpet della prima del film, ma poco meno di un mese dopo, il 18 maggio a Detroit, dopo un concerto, Cornell si sarebbe suicidato. A soli 52 anni. «La canzone che ho scritto per The Promise», aveva spiegato pochi giorni prima della morte, «è un monito per ricordare a tutti che quello che è accaduto cento anni fa può succedere ancora, per questo la canzone non ha età, non è arrangiata con strumenti tipici dell’epoca: perché in realtà parla anche di oggi, esattamente come il film». 

Ma di cosa parla The Promise, che ora arriva finalmente su CHILI dopo non essere mai nemmeno passato per la sala in Italia? Ambientato in Turchia durante gli ultimi giorni dell’Impero Ottomano, il film racconta di un triangolo amoroso tra Michael Boghosian (Oscar Isaac), un brillante studente di medicina, la bellissima e sofisticata Ana (Charlotte Le Bon), e Chris Myers (Bale), un rinomato giornalista americano di base a Parigi. Le loro vite verranno sconvolte dal genocidio armeno e dalle conseguenze di tutto quello che vedranno accadere davanti ai loro occhi.

Presentato a Toronto nel settembre del 2016, poi arrivato negli Stati Uniti il 21 aprile del 2017, dopo l’uscita di The Promise e la morte di Cornell è stato lanciato in onore del cantante un hashtag, #KeepThePromise, per devolvere gli incassi del singolo ai profughi di guerra, esattamente come aveva chiesto lo stesso Cornell. Per riuscirci è stato anche montato un video – che potete vedere qui sotto – in cui attori come Tom Hanks, Josh Brolin e molti altri ricordano la promessa fatta dal cantante. Bale – sconvolto dalla morte di Cornell – appare nel video e fu tra i primi a dare l’ultimo saluto al cantante alla cerimonia funebre tenuta a Los Angeles il 26 maggio 2017. «And one promise you made, one promise that always remains. No matter the price, a promise to survive…».

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Armenia: rapporto Freedom House, importanti progressi in termini di democratizzazione (Agenzianova 05.02.19)

Erevan, 05 feb 11:11 – (Agenzia Nova) – L’Armenia è un paese che nel 2018 ha riscontrato progressi molto importanti in termini di democratizzazione. È quanto si legge all’interno del rapporto “La libertà nel mondo” pubblicato dall’organizzazione statunitense Freedom House. “Il blocco My Step dell’attuale primo ministro, Nikol Pashinyan, ha ottenuto una vittoria schiacciante alle elezioni parlamentari anticipate di dicembre, aprendo la strada ad un importante processo di riforma e facendo sì che la nuova maggioranza si concentri di più sulla promozione della trasparenza e sulla lotta alla corruzione delle istituzioni”, si legge nel rapporto.

Loano, in biblioteca le “Poesie della memoria e del ricordo” (rsvn.it 05.02.19)

Loano. Si intitola “Poesie della memoria e del ricordo” la manifestazione letteraria promossa dall’assessorato a turismo, cultura e sport del Comune di Loano in collaborazione con Monica Maggi di “ATuttoTondo” ed il Mondadori Bookstore di Loano.

L’evento si svolge in concomitanza con la “Giornata della Memoria”, dedicata alle vittime della Shoah, e del “Giorno del Ricordo”, che commemora la tragedia delle foibe, l’esodo degli istriani, dei fiumani e dei dalmati italiani dalle loro terre durante la seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra.

Domenica febbraio alle 16.30 presso la biblioteca civica “Antonio Arecco” di Palazzo Kursaal Graziella Frasca Gallo (la gieffegi della Gazzetta di Loano) leggerà una serie di poesie “per non dimenticare”. Tra i testi proposti: “Se questo è un uomo” di Primo Levi, uno dei testi più noti sulla Shoah; “Un paio di scarpette rosse” di Joyce Lussu, dedicato alla morte a cui non è possibile pensare, quella dei bambini; “Basovizza” di Marco Martinolli, un grido di dolore dall’Istria; “Li roccia, li buio” di Letizia Forichiari, dedicata alle vittime della follia umana; “Da domani” di un Ragazzo del Ghetto che spera ancora nella felicità; “La farfalla” di Pavel Friedman, per ricordare che le farfalle non vivono nel ghetto; “Foiba” di Marco Martinolli, su uomini senza pietà e la follia della morte violenta.

E ancora: “La paura” di Eva Pickova, che ricorda che è vietato morire ed ancor più nel ghetto; “Assenza fatale” di Marco Spyry, su Dio che si è assentato dalla terra; “Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi” di Cesare Pavese, la morte secondo un intellettuale del ‘900; “Urlavano Italia” di Ermanno Eandi, dedicato a coloro che avevano solo l’Italia nel loro cuore; “Aprile” di Anna Frank, sulla ricerca della felicità in un’anima pura; “Le foibe di Trieste” di Manlio Visintini, un ritratto terribile delle foibe istriane; “Poesia terribile” di Roberto Nicoli, un’invettiva contro il Maresciallo Tito; “Devi sapere” di Charles Aznavour, che anche in una canzone d’amore non dimentica la tragedia armena; “Ode all’Armenia” di Boghos Levon Zekiyan, un canto di alta poesia per la terra amata; “Per te Armenia” di Charles Aznavour”, un canto d’amore per la sua Hayastann.

Ad accompagnare l’incontro saranno la musica e le canzoni selezionate ed eseguite del maestro Roberto Sinito. L’ingresso è libero.

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Viaggio tra i disobbedienti Azeri – Compagni di scuola. Di Pietro Kuciukian (Gariwo 04.01.19)

Assistiamo nell’ambiente sociale a esplosioni di aggressività nelle parole e nei comportamenti, tanto che aleggia il pericolo che la conflittualità fatta propria dalla comunicazione politica diventi cifra delle relazioni tra vicini, tra amici, tra compagni di lavoro.

Proseguendo il mio viaggio tra i disobbedienti azeri, voglio aprire la pagina di come l’altro possa continuare ad essere un volto, e i “coscienziosi” avere la meglio al tempo del male. Si tratta di una testimonianza che riguarda compagni di scuola, giovani che condividono studio e divertimento, che guardano al futuro e non accettano che improvvisamente tutto un mondo possa crollare.

Victoria Akopian, una studentessa di un liceo di Sumgait, il 28 febbraio del 1988 viaggiava in autobus in gita scolastica assieme ai compagni di classe azeri. In città tante cose erano cambiate rapidamente nelle relazioni tra armeni e azeri. Ne avevano discusso in autobus e un’amica azera aveva interrogato Victoria sul suo stato d’animo, sulla paura, sull’incertezza che dominava la società. Le aveva poi chiesto esplicitamente se come unica armena, provasse inquietudine a stare con loro, tutti azeri. Victoria non aveva avuto nessuna esitazione: “Siamo tutti amici, non posso temervi”. Aveva tuttavia espresso preoccupazione per i racconti spaventosi messi in circolazione che riguardavano le crudeltà che gli armeni avrebbero compiuto contro gli azeri del Karabagh allo scopo di ricongiungere questa terra all’Armenia. Per Victoria si trattava di menzogne diffuse scientemente a livello politico per alimentare l’odio antiarmeno in Azerbaigian. A tarda sera, al rientro dalla gita scolastica, l’autobus improvvisamente si blocca. Una folla selvaggia circonda il mezzo e, all’urlo “Ermeni, ermeni”, cerca di salire sul mezzo. Tutti sono impauriti, anche i colleghi azeri di Victoria. Elchad Akhmedov, un giovane azero buono e onesto tenta di resistere, ma alla fine è costretto ad aprire la portiera del pullman. Salgono dei tipi loschi, visibilmente alterati, alla ricerca spasmodica di armeni. Un compagno azero di Victoria, Dima Vladimirov, estrae un coltello cercando di opporsi alla pressione della folla inferocita. Gli altri studenti, più lucidi, lo fermano. I compagni nascondono il sacco e il passaporto di Victoria e un membro del Komsomol, Gul-aga, consiglia Victoria di dire che è sua moglie Sveda. Irada, Aida e Leila investono gli assalitori con frasi oscene, inconcepibili per essere pronunciate da ragazze armene. È la salvezza. Victoria nella testimonianza resa alla fine dei massacri dichiarerà che il loro autobus è stato l’unico a passare indenne attraverso la folla inferocita e a raggiungere la sede del Komsomol. Gli amici azeri hanno reagito con prontezza, coraggio e determinazione e Victoria ha avuto la conferma che la sua fiducia nel valore dell’amicizia era fondata. Leila, Irada e Aida, le amiche azere di Victoria, hanno fatto di più: nella sede del Komsomol l’hanno nascosta nella stanza blindata che conteneva la cassaforte; da lì lei ha potuto telefonare ai parenti che l’hanno messa in guardia su quanto stava succedendo in città. Victoria è riuscita a rientrare a casa evitando gli assembramenti. “La mamma”, conclude Victoria, “mi ha mostrato una macchina nel cortile dove gli azeri avevano bruciato vivi degli armeni. Io sono stata difesa e salvata dai miei compagni azeri”.

Testimonianze che suscitano stupore carico di sofferenza, aprono domande che non sembrano avere risposta, ma che costituiscono un monito affinché non si sottovalutino i segnali inquietanti del venir meno o dell’indebolirsi dei valori di solidarietà, di amicizia, di buon vicinato.

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Nagorno-Karabakh: ministro Esteri Mnatsakanyan, sta alle parti coinvolte trovare una soluzione (Agenzianova 04.02.19)

Erevan, 04 feb 14:58 – (Agenzia Nova) – Il conflitto tra Armenia e Azerbaigian per l’area del Nagorno-Karabakh – territorio occupato dai militari di Erevan ma riconosciuto internazionalmente sotto la sovranità di Baku – è iniziato nel 1988, quando la regione autonoma del Nagorno-Karabakh ha chiesto il trasferimento dalla Repubblica sovietica dell’Azerbaigian a quella armena. Nel 1991 a Stepanakert – autoproclamatasi capitale – è stata annunciata la costituzione della Repubblica del Nagorno-Karabakh. Nel corso del conflitto, sorto in seguito alla dichiarazione di indipendenza, l’Azerbaigian ha perso de facto il controllo della regione. Dal 1992 proseguono i negoziati per la soluzione pacifica del conflitto all’interno del Gruppo di Minsk dell’Osce. L’Azerbaigian insiste sul mantenimento della sua integrità territoriale, mentre l’Armenia protegge gli interessi della repubblica separatista. La Repubblica del Nagorno-Karabakh, in quanto non riconosciuta internazionalmente come entità statale, non fa parte dei negoziati. (Res)

San Biagio tra storia, leggenda e tradizione (Reportageonline.it 03.02.19)

Oggi 3 febbraio la Chiesa Cattolica celebra San Biagio, vescovo e martire, non invocato nelle Litanie dei Santi ma annoverato nel numero dei Santi Ausiliatori.

Biagio, ricordato il 3 febbraio, giorno della sua decapitazione, era un medico di origine armena che visse nel IV secolo, divenne vescovo della città di Sebaste dove operò numerosi miracoli.
Venerato come santo sia dalla Chiesa cattolica che e dalla Chiesa ortodossa, durante la persecuzione di Licinio venne arrestato dal preside Agricolao, a causa della sua fede venne imprigionato dai Romani, durante il processo rifiutò di rinnegare la fede cristiana.
Per punizione fu straziato con i pettini di ferro, che si usano per cardare la lana e infine morì decapitato, tre anni dopo la concessione della libertà di culto nell’Impero Romano (313).
Il corpo di san Biagio fu sepolto nella cattedrale di Sebaste (o Megalopolis), capitale della Armenia bizantina, l’odierna città di Sivas, nella Turchia orientale che al tempo del santo era provincia romana chiamata Armenia Minor.

Nel 732 una parte dei suoi resti mortali, deposti in un’urna di marmo, furono imbarcati, per esser portati a Roma e da lì le sue reliquie, dietro le richieste dei fedeli secondo le usanze dell’epoca, furono distribuite in tantissime chiese e centri grandi e piccoli da Nord a Sud dell’Italia, dove tuttora si venera San Biagio.

In Calabria l’ex comune di Sambiase, che dal 1968 fa parte di Lamezia Terme, porta proprio il nome del Santo vescovo armeno dal VII secolo, quando in piena epoca bizantina il nome dell’insediamento cambiò da Due Torri a San Biagio. Nel suo territorio, intorno ai diversi monasteri basiliani e suddiviso in zone che tuttora portano i nomi dei santi orientali, si trasferirono molte famiglie provenienti dal Mancuso, dal Reventino e dalla vicina Neocastrum (Nicastro) istituendo luoghi di culto, casali, fattorie e attività di ogni genere.
A San Biagio (Santu Vrasi) è dedicata la tradizionale fiera che da secoli si svolge tutti gli anni dall’1 al 3 febbraio, un tempo importante appuntamento di scambi commerciali ed economici per gli allevatori e gli agricoltori.

San Biagio è tradizionalmente protettore della gola e del naso. Egli era infatti vescovo e medico armeno cattolico vissuto tra il III e il IV secolo e avrebbe salvato un bambino al quale si era conficcata una lisca di pesce in gola grazie a un pezzettino di pane, una mollica che scendendo in gola portò via la lisca facendo in modo che il piccolo riprendesse a respirare.
In seguito a questo miracolo la Chiesa cattolica lo ha riconosciuto Santo e protettore di gola e naso ed è tradizione meneghina quella di mangiare appena svegli, la mattina del 3 febbraio, un pezzetto di panettone avanzato a Natale benedetto. Mangiare e far mangiare ai bambini il panettone di San Biagio allontani il mal di gola e i malanni di stagione.

Ma l’usanza di distribuire pani benedetti nel giorno di San Biagio, in ricordo del miracolo del bambino, si ritrova in molte cittadine italiane. In Sicilia vengono modellati in modo da assumere la forma delle parti malate, le cannarozze, a forma di trachea, mentre a Roma questa usanza è ricordata nella chiesa di San Biagio alla Pagnotta, officiata dagli Armeni. Spesso la benedizione avviene con le candele della Candelora, celebrazione che avviene il giorno precedente San Biagio, il 2 febbraio.

Biagio è da tradizione protettore degli osti, delle fanciulle da marito e degli animali, in quanto la leggenda narra che, prima di essere imprigionato e martirizzato, si rifugiò in una caverna in compagnia di un orso e altri animali selvatici che volentieri lo avevano accolto nella loro tana.

Di conseguenza Biagio protegge pastori e guardiani di greggi, le greggi dalle insidie dei lupi, e inoltre pettinai, materassai, lanaioli, linaioli, funai e cardatori per i pettini del martirio, mentre per il miracolo del bambino viene invocato per tutto ciò che attiene la gola e la respirazione ed è patrono di musicisti di strumenti a fiato e laringoiatri.

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NOPC, da Firenze a Yerevan: gli ‘angeli’ del midollo osseo in Armenia (Gonews.it 02.02.19)

La generosità dei donatori di midollo osseo e cellule staminali non conosce confini: il 2019 è iniziato con 43 missioni salvavita toccando quasi tutti i continenti in 31 giorni. I volontari del Nucleo operativo di Protezione Civile di Firenze, già nei primi giorni dell’anno, erano in viaggio per portare il midollo osseo di anonimi donatori all’altro capo del mondo. Ma per il Nopc, questo gennaio sarà ricordato per la ‘conquista’ dell’Armenia: è stato il Direttore, Massimo Pieraccini, ad andare a prelevare per la prima volta in 26 anni, fino alla capitale, Yerevan, vicina al confine con la Turchia. Una storia che ha dell’incredibile, perché il donatore e il paziente in questo caso si conoscono molto bene: è stata infatti la zia del piccolo ammalato a donare il proprio midollo per salvare il nipote. La donatrice, Christina, si era unita ai donatori armeni nel 2015, con la speranza di essere di aiuto a un giovane paziente affetto da leucemia che aveva bisogno di un donatore compatibile, un po’ come è successo per Alessandro Maria in Italia. Quella volta, non fu lei il ‘gemello genetico’, ma era entrata nel registro, consapevole che avrebbe potuto salvare una vita. Nel 2018, il nipote di Christina, Areni, fu diagnosticata la leucemia. Nel disperato tentativo di salvare la vita del bambino di soli 7 anni, la famiglia si trasferì in Spagna per avere più possibilità. Successivamente il centro di trapianti spagnolo dove Areni era in cura contattò l’ABMDR, il registro armeno, con l’urgente richiesta di trovare un donatore per il bambino. E dal database globale di ABMDR, risultò che il ‘gemello genetico’, il perfetto donatore per Areni, era nientemeno che la zia Christina. Per ABMDR, una storia commovente, che ha riunito una famiglia e ha segnato un traguardo importante: il 32 ° trapianto fino ad oggi, la prima procedura del genere a essere eseguita nel 2019, nel 20 ° anniversario dalla fondazione del registro armeno. Per Pieraccini e il NOPC, la preziosa opportunità di aiutare una famiglia, una zia che salva il nipote, e la possibilità di studiare le procedure di trasporto cellule in un Paese finora sconosciuto: “È stato un viaggio intenso, soprattutto per la cultura del trapianto per lo più sconosciuta di quella parte di mondo. Non capita tutti i giorni infatti di avventurarsi fino in Armenia – spiega Pieraccini – l’accoglienza è stata straordinaria, medici e infermieri sono stati calorosi e molto professionali. E’ bello poter aprire la strada a nuove rotte della donazione e poter portare la nostra esperienza di volontariato in tutto il mondo”. Il trasporto delle cellule non è stato però semplice, sia per i problemi all’aeroporto armeno, dove hanno preteso di sigillare la borsa frigo, procurando non pochi disagi a Pieraccini, sia per ottemperare alla necessità di controllare che la temperatura all’interno del box restasse nei paramentri, sia per gli scali negli altri aeroporti. Pieraccini ha fatto scalo in Grecia, a Atene, trovando qualche resistenza ai controlli di sicurezza, per far capire agli addetti che non era possibile far passare ai raggi X il box con il prezioso dono, ma ha superato la difficoltà con tanta diplomazia, un po’ di insistenza e tanta fermezza. “Quando accadono queste cose, ci accorgiamo di quanto lavoro ancora abbiamo da fare per promuovere la cultura della donazione e il funzionamento dei trasporti – spiega Pieraccini – rischiare di non portare a termine una missione per l’eccessivo zelo di qualche burocrate è frustrante, ma non potevo certo deludere un piccolo bimbo di 7 anni che aspettava me per la sua chance di sopravvivenza. Ma ci rendiamo conto che dipende troppo spesso dalla mancanza di informazione di certi Paesi sul tema della donazione”. Gennaio si è concluso quindi con missioni in Polonia, Germania, Spagna, Inghilterra e Israele (solo per citarne alcuni). Ed è stato anche il mese dell’America Latina, con i volontari che si sono ritrovati spesso tra Brasile e Argentina, con tappe a Buenos Aires, Barretos, Natal e Porto Alegre, così come degli USA, con missioni a Huston, Los Angeles e Memphis. Il Nopc è stato scelto anche dagli australiani, che per un trasporto dagli USA con destinazione Melbourne, hanno richiesto i servizi dei volontari di Firenze. Non ultima, la missione in Canada, per poter salvare un paziente spagnolo.

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Taranto, la chiesa di San Andrea degli Armeni (Iltarantino.it 02.02.19)

TARANTO – La chiesa di S. Andrea degli Armeni risale al XIV secolo ed è la sola testimonianza di architettura religiosa rinascimentale rimasta nella città di Taranto. Situata nei pressi di via Paisiello, l’edificio religioso si trova nella piccola Piazza Monteoliveto in cui vi sono importanti testimonianze storiche ed architettoniche tra cui anche la presunta casa natale di Paisiello. L’altare in pietra, decorato con rilievi a stucco, è databile tra il Seicento e il Settecento e fu realizzato dalla famiglia degli Albertini. Gli affreschi situati sull’arco trionfale e sull’altare maggiore sono poco visibili a causa del passato di questa chiesa che è stata oggetto di bombardamenti.

FACCIATA DELLA CHIESA DI S. ANDREA DEGLI ARMENI CON QUATTRO LESENE

Sull’altare si trovava certamente un’icona, databile al 1525, di cui però non vi è traccia, ad eccezione della cornice in pietra modanata. L’icona probabilmente rappresentava la Vergine e S. Andrea in basso e in alto l’Onnipotente in trono circondato dagli angeli. Sulla facciata della chiesa di S. Andrea degli Armeni si notano quattro lesine ad un solo ordine che inquadrano il portale con timpano su cui è apposta una lapide con su incisa la data di costruzione. La facciata è completata da un rosone e presenta due statue laterali raffiguranti una figura femminile e una maschile la cui interpretazione non è chiara.

CHIESA DI S. ANDREA DEGLI ARMENI A NAVATA UNICA

Il soffitto della chiesa di S. Andrea degli Armeni presenta una volta lunettata e i muri perimetrali sono realizzati ad opus incertum. Lungo la parete occidentale vi sono due aperture (oggi murate) che in passato consentivano l’accesso ai piani superiori dell’edificio e alla sacrestia. All’interno la chiesa presenta un’unica navata ed è aggregata a un corpo edilizio che in passato era la sagrestia e la canonica. Ad oggi questo edificio è una struttura alberghiera.

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La leggenda di San Biagio (Paviafree.it 01.02.19)

San Biagio è festeggiato il 3 febbraio è il patrono di Maratea, oltre che di ventiquattro importanti centri in Italia tra i quali Ragusa, Ostuni, Ruvo, Fiuggi.

Biagio, medico di origine armena che visse nel IV secolo, fu il vescovo della città di Sebaste, dove operò numerosi miracoli, ma durante la persecuzione di Licinio fu arrestato dal preside Agricolao e avendo rifiutato di rinnegare la fede cristiana, per punizione venne straziato con i pettini di ferro, quelli che si usano per cardare la lana, e poi decapitato.

Il corpo di san Biagio venne sepolto nella cattedrale di Sebaste, l’odierna città di Sivas, nella Turchiaorientale, che a quel tempo era una provincia romana detta Armenia Minor, capitale dell’Armenia bizantina.

Nel 732 una parte dei suoi resti mortali, in un’urna di marmo, fu imbarcata, per esser portata a Roma, ma una tempesta fermò il viaggio a Maratea, dove i fedeli accolsero l’urna e la conservarono nella Basilica di Maratea, sul monte chiamato San Biagio.

La venerazione di Maratea per il santo protettore portò alla tradizionale processione della seconda domenica di maggio, che si apre il sabato precedente la prima domenica di maggio con la processione.

Il giovedì dopo il simulacro del Santo viene portato a Maratea Inferiore, e la mattina della seconda domenica di maggio la statua, col drappo rosso, torna alla Basilica.

Una statua di San Biagio si trova anche su una delle guglie del Duomo di Milano, dove in passato il panettone natalizio non si mangiava tutto intero, ma se ne conservava una parte per la festa di San Biagio.

Roma, alla chiesa dei Santi Biagio e Carlo ai Catinari, c’è l’osso della gola di San Biagio con il quale si benedicono i fedeli, mentre ai Santi XII Apostoli c’è la reliquia di un braccio del santo Vescovo di Sebaste invocato contro le malattie della gola.

Durante la festa di San Biagio vive l’usanza di distribuire pani benedetti, modellati in modo da assumere la forma delle parti malate, a Roma è nella chiesa di San Biagio alla Pagnotta, officiata dagli Armeni, mentre in Sicilia, a Comiso, sono modellati con la forma della trachea.

Taranta Peligna, in provincia di Chieti, il culto del santo nel XIII secolo venne promosso dalla Confraternita dei lanieri e dei tessitori, che organizzava la preparazione e la distribuzione delle panicelle, piccoli pani raffiguranti le dita della mano benedicente.

In Sardegna, a Gergei, in provincia di Cagliari, per San Biagio in ogni casa viene preparato Su sessineddu, una composizione di frutta e fiori tenuti insieme dalle foglie lunghe e piatte del sessini, una pianta della famiglia delle cipacee, cui sono appesi fichi secchi, pezzetti di lardo e di salsiccia, un rosario realizzato con la pasta e cotto al forno con il pane, grappoli di profumatissimi narcisi e un cordoncino di lana ritorta di diversi colori, che sarà portato al collo per l’intero anno, come benedizione per proteggersi dalle disgrazie e dal mal di gola.

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La preghiera dei migranti armeni (eastwest.eu 01.02.19)

Fa riflettere e apre scenari inaspettati la notizia secondo la quale, proprio mentre una nave battente bandiera olandese della Ong Sea Watch vagava davanti alle coste siciliane in attesa di sbarcare una cinquantina di migranti (tra cui donne e bambini), in una Chiesa dell’Aja proseguiva una preghiera no stop per impedire che venisse eseguito il provvedimento di espulsione a carico della famiglia armena Tamrazyan che aveva trovato riparo nella Chiesa Bethel dell’Aja. Una norma olandese vieta infatti l’ingresso delle forze dell’ordine nei luoghi di culto mentre sono in corso funzioni religiose. Con quel misto di pragmatismo e non violenza proprio della cultura protestante di quei Paesi, per 95 giorni non si è mai interrotta la preghiera fino a quando giovedì 31 gennaio la funzione ha avuto termine perché il Governo olandese ha accettato la richiesta di asilo della famiglia Tamrazyan, padre, madre e tre figli da 8 anni nel Paese che si erano rifugiati nel tempio, su indicazione della comunità locale, per sfruttare la norma che vieta l’ingresso della polizia durante le funzioni. Per cui il culto non si è interrotto per 2.280 ore totali, all’incirca, con oltre 650 pastori e predicatori che si sono alternati dal pulpito, provenienti anche da varie nazioni. Il Governo olandese a più riprese aveva reso noto di non avere alcuna intenzione di revisionare la sentenza, ma la ribalta internazionale ha portato a una scelta differente. Il braccio di ferro fra l’esecutivo e la Chiesa riformata locale si è giocato non solo sul culto no stop, ma anche sulla legge nota come children’s pardon, sorta di amnistia concessa ai minori presenti in Olanda da più di 5 anni, applicata con estrema ritrosia dal Governo in questi anni. Un accordo fra varie forze politiche ha portato a una revisione della norma, le cui maglie ora si allargheranno.

Il tribunale aveva considerato l’Armenia un Paese sicuro in cui rimpatriare la famiglia, ma in realtà il padre, Sasun, era stato più volte minacciato di morte per il suo impegno politico. Da qui la fuga nei Paesi Bassi.

Un cambio di politica che potrebbe riguardare altri 700 bambini circa con le relative famiglie. I casi verranno tutti riesaminati con un’elevatissima probabilità di venire accolti. Grande soddisfazione è stata espressa dalla Chiesa riformata nei Paesi Bassi che è stata capace di mobilitare i cuori di migliaia di persone e ora raccoglie i frutti di questo sforzo.

Nessuna reazione invece alle dure prese di posizione del Governo italiano sulle responsabilità nella vicenda della Sea Watch, nave della Ong battente bandiera olandese. Fonti del governo dell’Aja si sono limitate a ribadire che «non è obbligata ad accogliere i migranti salvati». Il Ministero delle Migrazioni olandese aveva ricordato di «aver preso atto della richiesta dell’Italia di rilevare i migranti, fornita tramite i canali diplomatici appropriati» ma che «spetta al capitano di Sea-Watch 3 trovare un porto sicuro per sbarcare i 47 migranti a bordo». Comportamento giudicato «inqualificabile» dal vicepremier Salvini. E Di Maio: «Siamo pronti a un incidente diplomatico con l’Olanda: è tempo che rialziamo la testa e ci facciamo sentire».

Ma la preghiera no stop nella Chiesa olandese ha spostato l’attenzione sul ruolo spesso decisivo che la Chiesa di Roma ha giocato e sta giocando nella vicenda migranti. Fermo restano il duro monito di Papa Francesco a favore dell’accoglienza e ai principi umanitari del non respingimento nel caso della Diciotti furono proprio strutture della Cei a farsi carico dell’accoglienza di gran parte dei migranti soccorsi. Strutture religiose a cominciare dalla Caritas che hanno svolto silenziosamente un grande ruolo di supplenza nei confronti dello Stato. Che poi sia in corso una trattativa tutt’altro che agevole tra Chiesa e Governo suicontributi statali per l’accoglienza offerta dalle strutture religiose è un altro conto. Che però smentisce quanto affermato più volte da Salvini secondo il quale gli italiani non dovranno pagare un euro in più per i migranti.

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Novanta giorni di messa per aiutare una famiglia di migranti (Cisiamo.info 01.02.19)

Una messa lunga tre mesi ed ininterrotta per consentire ad una famiglia di migranti di prendere tempo ed averne a sufficienza per restare a vivere in Olanda. È accaduto nella cittadina di Bethel, vicino L’Aia, dove la messa da record si è alla fine conclusa dopo 90 giorni ininterrotti di liturgia.

La celebrazione con uno scopo ben preciso

La funzione era iniziata per l’esattezza il 26 ottobre scorso, con rito protestante. Nessuna velleità da record o stramberia liturgica particolare erano state però alla base della decisione di celebrare una funzione così lunga, ma solo motivo umanitari e un pizzico di “furbizia buona”.

Al centro della vicenda infatti si trova una famiglia armena – padre, madre e tre figli – che rischiava l’accompagnamento coatto nel loro stato di origine. I cinque avevano lasciato l’Armenia nel 2010 ma lo status di rifugiati politici, in Olanda, era la sola via a ché la loro permanenza fosse garantita. Nel corso del 2008 lo spettro del rientro forzato si era invece fatto sempre più concreto.

Altri preti in supporto alla causa

A quel punto la mobilitazione clericale e l’escamotage: oltre 650 preti provenienti anche da Germania, Paesi Bassi e Francia avevano raggiunto Bethel, tutto questo mentre la famiglia avviava le ultime pratiche urgenti per il riconoscimento dello status, ed avevano dato inizio, all’una e trenta del 26 ottobre, alla interminabile messa, con i momenti salienti della liturgia ripetuti allo stremo.

La legge in Olanda lo vieta

Ma perché una messa in Olanda può “fermare la legge”? Semplice, per ché lo dice la legge stessa. In Olanda è fatto divieto alle forze dell’ordine, fatti salvi casi limite rigidamente disciplinati, di accedere ai luoghi di culto durante le celebrazioni.

L’uovo di Colombo era dunque che, con la famiglia in predicato di espulsione in chiesa e a messa, una messa lunga una stagione intera, le pratiche per il riconoscimento dello status di rifugiati si erano potute districare. In più, l’effetto pubblicistico stesso di quella messa “in suffragio dell’umanità” aveva accelerato l’iter. La famiglia armena è salva e, con essa, il pericolo di laringite per tutti gli officianti.