Metz Yeghérn. Storia di un genocidio in corso (Cds 27.04 25)

Il “non ti scordar di me” è un fiore. Questa è cosa ben nota. Meno note, forse, le origini della singolare denominazione corrente della boraginacea altrimenti detta “mysotis”, che rallegra col suo azzurro e il suo bianco e il suo rosa le nostre primavere, sparsa in aiuole e giardini, sempre riconoscibile. Seconda la leggenda, due fidanzatini passeggiavano sul Danubio, in tempi remoti. Cadde nelle acque blu ma agitate rese celebri da Strauss – in ambito romantico – il giovanetto; ma mentre danzava il suo disperato e scomposto, ultimo valzer, con la Morte, riuscì a gettare un mazzolino di questi fiori all’amata, sconvolta, impietrita, rimasta sulla riva. Gridandole, per l’appunto, “Non ti scordar di me!”, le sue ultime parole in vita. Da allora sono simbolo di fedeltà, almeno in gran parte della Germania.
Un fiore che nasconde nel nome una tragedia, forse solo leggendaria. E non stupisce che un bellissimo, lancinante, essenziale libro sul genocidio armeno porti tale titolo. L’autore è Vittorio Robiati Bendaud; già autore di un volume più che intrigante sugli ebrei tra Marche e Terrasanta, “Il viaggio e l’ardimento. Nove avventure di viaggio, fra le Marche e la Terrasanta, emblemi della diaspora ebraica”, sempre edito da liberilibri. “Non ti scordar di me. Storia e oblio del genocidio armeno”, prefato da Paolo Mieli, che accuratamente ricostruisce la storiografia politica e le circostanze generali del genocidio, aprendo alla lettura dell’appassionata ricostruzione storiografica di Robiati Bendaud, che ripresenta ab origine la storia della nazione armena, la prima nazione al mondo a proclamarsi cristiana nel 301, un decennio prima di Costantino e qualche decennio prima di Teodosio. Erano ufficialmente cristiani, gli armeni, già ottanta anni prima dell’editto di Tessalonica.
L’autore ci conduce dunque in una vicenda millenaria, che mostra bene quanto la dolorosa storia armena sia parallela a quella ebraica, perfino negli esiti orrendi, e che non solo viaggi parallela, ma nella tragedia le linee si intreccino, a partire proprio dalla corresponsabilità dell’Impero guglielmino nell’iniziare il genocidio con l’alleanza, motivata da spinte economiche ma anche ideologiche, al tramonto di quell’ “impero di sabbia” – giusta la locuzione del noto libro dei Karsh del 1999 – che, decimato nei propri territori dopo il Trattato di Berlino, dovette riconfigurare la propria stessa identità, trasformandosi in un impero non solo di sabbia, ma di sangue: l’esordio del genocidio si deve al sultano “rosso” – per il sangue versato – Abdul-Hamid II, singolare figura di incostante, debole, mentalmente instabile, ma soprattutto macellaio. Così dall’agosto 1894, nella ragione di Sassun, comincia il massacro che, ad ondate intermittenti, giunge fino al genocidio del 1915, divenendo, come indica bene l’autore, non solo l’antecedente, ma il vero e proprio modello per quello degli ebrei, in un viluppo – straziante ed umiliante per lo Spirito dello stesso Occidente – che incrocia ideologia, nazionalismo, linguaggio, oltre che a fondere la Turchia imperiale, fino ai Giovani Turchi, e quella “moderna” successiva, con la Germania guglielmina e poi nazista. Aver preparato, tollerato, ideologicamente giustificato, e poi coperto, negato, minimizzato il genocidio di un intero popolo cristiano, mite e laborioso, è stata la grande abiura dell’Occidente. L’inizio della sua fine, per vendersi a panislamismo, totalitarismo, collettivismo, venendo meno al suo fondamento cristiano: che il Cristianesimo sia la sua “radice”, o, come scrisse il grande storico conservatore svizzero Gonzague de Reynold (1880-1970), il suo “tetto”, che copre e suggella, difendendola da ogni intemperia, la tradizione classica europea, e per classica si intenda quella ebraica, greca, romana. Come è scritto a pag. 61, lapidariamente: “…il genocidio armeno è lo snodo della contemporaneità, e forse anche la sua nascita: dal suicidio dell’Occidente all’islamismo totalitario; dal tradimento dei cristiani d’Oriente sino all’abbandono contemporaneo alle loro sorti degli armeni dell’Artsakh [Nagorno-Karabakh], per giungere all’antisionismo/antisemitismo attuale. Tanto bene ha funzionato il negazionismo da espungere dall’immaginario e dalla comprensione comune dei cittadini del mondo libero questa prospettiva!” (p. 60).
“Chi si ricorda degli armeni?” affermò Hitler, ma forse tali atroci parole non erano solo intese a giustificare il suo, di genocidio; avevano, hanno, purtroppo, il suono del vaticinio. Ci ricordiamo, noi, degli armeni? O le stesse ragioni di opportunismo geopolitico, variamente ammantato di ideologia se non anticristiana, certamente anti-ecumenica. dell’Impero guglielmino di fine Ottocento ci fanno comportare nei confronti del dittatore dell’attuale Turchia e dei suoi accordi con gli azeri per umiliare viepiù quel che è rimasto degli Armeni – ma è molto, è popolo resiliente e fiero, da cui imparare – come ci si comportò allora, chiudendo un occhio, o entrambi gli occhi mentre si dava una mano, o due, per poi lavarsele? Per questo il libro è insieme un’accurata ricostruzione storica (dove si parla della gerarchia della subordinazione delle minoranze nel mondo islamico e turco in particolare, come legata a doppio filo al rapporto di dominazione maschile sulla donna, con riflessioni penetranti sulla derivazione del modello imperialistico turco da schemi religiosi, in particolare la nozione di “fedeltà”, da premiare, e quella correlata, da punire, di “infedeltà”), e un formidabile “j’accuse”, facendoci così venire in mente (almeno) una cosa: che gli intellettuali “impegnati” non sono solo quelli che per decenni sono stati “impegnati” in solo da una parte, in una ideologia sola, che si è rivelata mortifera e perdente. Ma che l’impegno dell’intellettuale può servire anche cause giuste, anche se apparentemente minoritarie. Un “rappelle à l’ordre” per l’Occidente smarrito. Mentre la violenza sul popolo armeno continua, anche solo attraverso il silenzio, la cortina di oblio che è caduta su milioni di morti e deportati. Ma ogni cortina d’oblio è un velo di Maya. Prima o poi viene sollevato, come ci insegna Arthur Schopenhauer. Per vedere la realtà (cruda, impietosa) delle cose.
Al di là delle vicende mostruose che vengono qui analiticamente narrate, gli sgozzamenti, i roghi, gli stupri, al di là della brutalità della storia – il banco di macellaio dell’umanità la chiamava Hegel, e ancora il peggio doveva venire – e oltre la vergogna che l’Occidente dovrebbe provare, nel confrontarsi con la vicenda armena ancora pienamente in corso, il libro invita a riscoprire quella cultura e civiltà e nazione. Lo fa tra le righe, nell’atto di accusa, quasi sommessamente. E inevitabilmente ci accorgiamo che occorre solo prestare un po’ di attenzione, per entrare in contatto con quel mondo, così vicino all’Italia, peraltro, non solo geograficamente, e dal punto di vista della Fede. Si pensi alla mia patria elettiva, la Padova di Antonia Arslan, che ha fatto conoscere l’Armenia e il genocidio, coi suoi splendidi libri, al mondo europeo e non solo; quella città meravigliosa ove un palazzo d’angolo nella piazza più grande d’Europa, Prato della Valle, Palazzo Zacco – che frequentai come ufficiale, in quanto circolo interforze – ci ricorda della Nazione armena che lo ebbe per decenni suo collegio; senza andare nella Laguna e visitare il monastero mechitarista sorto nel 1717, ancora meraviglioso custode di tesori grafici e tipografici, ma anche architettonici, di ogni tipo. E senza pensare ad una scrittrice armeno-italiana, anch’essa patavina, che si spense sposa ad un Pompily a Roma nel 1910, ma che ebbe intenso rapporto epistolare con i mechitaristi di San Lazzaro, e che incontrò il plauso, en faute de mieux, tra gli altri, di Benedetto Croce. A Padova, tra l’altro, studentessa della Boston University, venne Karina Totah, ebrea americana di origine armena, la cui madre, Annie, è figura centrale dell’Armenian Assembly of America. Allora, circa venti anni fa, si parlava di un Museo del Genocidio Armeno da crearsi a Washington D.C., ma per ora, mi pare, il progetto è rimasto sulla carta, e realizzato solo come museo virtuale. La trovavo iniziativa entusiasmante. Il male deve essere sempre ricordato. Magari non servirà a non ripeterlo, ma chissà. E proprio nel felice incontro con Karina, con Antonia Arslan, con quella figura straordinaria, anch’essa qui ricordata, che è Boghos Lévon Zékiyan, nacque un convegno alla Boston University patavina, i cui atti furono pubblicati da Diego Lucci, Gadi Luzzatto Voghera e me, nel 2006: “La memoria del male. Percorsi tra gli stermini del Novecento e il loro ricordo” (Padova, CLEUP), ove ospitammo, onorati, un contributo di Lévon Zékiyan. Insomma, il mondo armeno, basta prestarvi attenzione, è ben vivo presso di noi. Forse più “europeo” di altri che vengono definiti ad ogni momento “europei”, anche se non è chiaro che cosa di “europeo” vi sia in essi. Il mirabile passato cristiano dell’Armenia ha attirato il mondo italiano, e soprattutto veneto, per lunga tratta; nelle mie divagazioni armene, mi imbattei anche nello splendido lavoro sulle chiese armene in rovina, le “chiese di cristallo”, del bellunese Adriano Alpago Novello. Siamo negli anni Sessanta del Novecento.
Insomma, il libro di Robiati è un’eccellente lettura, anche perché rammemora gran parte di questo mondo, di questi personaggi, e di questo vivo interesse del mondo italiano per l’Armenia, interesse che forse dovrebbe declinarsi in un impegno maggiore per le sorti di quel popolo. “Così vicino, così lontano”, si potrebbe, alquanto banalmente, glossare. In ultimo, invece, vorrei ricordare una presenza all’interno del libro, che purtroppo ci ha lasciato. Da un testo di Siobhan Nash-Marshall, “I peccati dei padri: negazionismo turco e genocidio armeno”, pubblicato in italiano da Guerini, con introduzione di Antonia Arslan, nel 2018, l’anno dopo la sua pubblicazione in inglese, abbiamo tutti molto appreso, e la sua lezione è doverosamente, ma anche dolorosamente ricordata da Robiati. Siobhan è morta nella sua Manhattan a dicembre 2024, non ancora sessantenne. La sua formazione era di filosofa: cattolica, radicale, ovvero coerente (così definiva Ayn Rand il concetto di “radicalismo”: “coerenza”), e non di storica, anche se aveva scritto una biografia di Giovanna d’Arco, nel 1999, “una biografia spirituale” da sbattere in faccia a quegli intellettuali francesi che Robiati di certo metterebbe nell’inamena, ma purtroppo ampia categoria dei “biechi laicisti della nostra attualità” (p. 40). Il “Catholic World Report” ha commentato la sua morte, il 5 gennaio di quest’anno, in modo icastico: “A crusader goes home”. “A star has dimmed”. Indubbiamente, ella è stata una stella. E non solo nel mondo accademico americano, e di Nuova York in particolare. In tutto l’ampio, variegato, appassionato universo dei 70 milioni di cattolici americani. E i suoi lavori hanno servito, immensamente, la causa armena. In fondo, sono un memoriale per essa.
Un memoriale. E con questo davvero concludo.
Il libro di Robiati ci fa riflettere anche sulla dimensione pubblica del ricordo. In Italia non vi è alcun memoriale per le vittime del genocidio armeno, che io sappia. Quasi mitico, venne eretto perfino in Turchia, a piazza Taksim, per poi essere demolito (e ora la statua è scomparsa…) nel 1922, tre anni dopo la sua erezione. Sono diversi negli Stati Uniti, ovviamente, dove vivono quattro milioni di armeni. Ci sono in Francia, a Petah Tikva in Israele; in Messico e Brasile, in Olanda, Cipro, Siria, Canada e altrove. L’ultimo ad essere inaugurato, nel 2023, in Inghilterra, a Ealing, nella periferia di Londra: una grande fiamma duplice, la “fiamma eterna”. In tutto, sono 36. Il numero della redenzione e dell’esilio secondo la Qabbalah. Sia come sia, in Italia ancora non ne abbiamo. Uno scultore, Vigen Avetis, ne aveva realizzato uno molto bello, dal titolo “Madre Armena”, che fu esposto presso il Comune di Cavriglia, in Toscana, per un certo tempo. Forse è ancora lì. Mentre – in chiusura – duole ricordare che invece un memoriale simile, a Colonia, in Germania, come ci ha ricordato tempo fa Gianni Sartori, un piccolo monumento, ma significativo, è stato rimosso dalle ruspe, mentre la città romana ospita ora immense moschee, costruite in contemporanea, guarda caso, alla demolizione del piccolo monumento stesso, con la benedizione dei gerarchi turchi. I turchi nazionalisti di Colonia sono molto più degli armeni, pur presenti in città. Realpolitik? Di Realpolitik sono piene le fosse e in questo modo ci scaviamo, piano piano, ma inesorabilmente, anche la nostra.
Europa, attenta!
La Storia insegna che le civiltà che scompaiono, non ritornano più. Forse solo, per l’appunto, nei libri di Storia. Ma dove la loro identità e vera natura saranno probabilmente anch’esse uccise o storpiate.
Libri come questo sono, tra l’altro, gridi d’allarme. Da leggere assolutamente.

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TOUR ARMENO PER IL LUCANO PIPPI DI MONTE. IL 14 MAGGIO CONCERTO A YEREVAN (Talentilucani 26.04.25)

Un nuovo interessante impegno internazionale attende il contrabbassista lucano Pippi Dimonte, infatti per Mercoledì 14 Maggio sarà a Yerevan, capitale dell’Armenia, alla Arno Babajanyan Concert Hall, sede dell’Orchestra Filarmonica di Stato, per un concerto frutto della collaborazione fra due musicisti armeni, due italiani e uno olandese.

Il progetto, che sarà alla sua prima assoluta mondiale, intende coniugare musica classica, sonorità della tradizione armena, suoni mediterranei e world music di autori contemporanei. Erik Manukyan al violino, Karen Ananyan al pianoforte, Tolga During alle chitarre, Enrico Pelliconi all’accordion, Pippi Dimonte al contrabbasso formano il quintetto AR-IT Music Project con cui iniziano questa nuova avventura e che in futuro dovrà portarli a tenere concerti in altre città armene, italiane e nel resto d’Europa. L’iniziativa è patrocinata dal Ministero della Cultura armeno e dall’Orchestra Filarmonica di Stato dell’Armenia. I nostri musicisti voleranno a Yerevan qualche giorno prima per effettuare le relative prove di preparazione dell’evento e per fare un giro turistico in città.

Erik Manukyan è primo violino dell’Orchestra Giovanile di Stato Armena, del Quartetto d’Archi Saryan e della Arms Symphony Orchestra. Diplomato al Conservatorio di Yerevan ha tenuto concerti sia in Armenia che all’estero.

Karen Ananyan compositore e pianista di fama internazionale ha studiato al Conservatorio di Yerevan dove attualmente insegna pianoforte e composizione. E’ autore di  musiche per pianoforte solo, per orchestra e musica da camera con le quali ha pubblicato diversi album. Ha tenuto concerti in Armenia, Russia e Francia.

Enrico Pelliconi pianista e fisarmonicista ha studiato presso i Conservatori di Bologna e Ferrara e già da giovanissimo si esibisce in orchestrine di liscio romagnolo come tastierista e cantante. Attualmente suona con numerose formazioni jazz e contemporaneamente insegna pianoforte e fisarmonica. Musicista e compositore poliedrico ha inciso tre Cd di composizioni proprie: Mai Troppo Piano, Avanzo di Balera e Breastroke.

Tolga During è un musicista e compositore di Amsterdam che vive in Italia da diversi anni. Ha pubblicato ben nove album con composizioni proprie che vanno dal gypsy, al mediterranean jazz, alla world music e suona una particolare chitarra acustica con due manici, di cui uno fretless, appositamente costruita per lui. La rivista Moors Magazine scrive di lui: “Musica di una bellezza incredibile che supera i confini di tempo e di genere”. E’ impegnato contemporaneamente in vari suoi progetti: OttoMani, LiberDjango, Amar Corda, Gypsy Trio, Quai des Brumes e ha tenuto concerti in tutta Europa.

Pippi Dimonte è un musicista e compositore originario di Bernalda che vive a Bologna. Suona con numerose formazioni jazz e con il suo contrabbasso è sempre in giro per concerti sia in Italia che all’estero. Contrabbassista gypsy fra i più richiesti ha suonato con i più importanti chitarristi manouche in attività. Diplomato in Contrabbasso Classico (VO) ha studiato presso i Conservatori di Matera e Bologna. A 17 anni è già compositore iscritto alla Siae dove deposita i suoi primi lavori. Ha pubblicato cinque album con tutte composizioni proprie: Morning Session, Hieronymus, Trio Mezcal, Majara e Dinamo.

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Rappresentanti della Chiesa Russa hanno partecipato agli eventi celebrativi del 110° anniversario del genocidio armeno (Mospat.ru 26.04.25)

Servizio di comunicazione del DECR, 26.04.2025. Il 24 aprile, l’arcivescovo Axij di Ljubertsi e lo ieromonaco Stefan (Igumnov), Segretario per gli le relazioni intercristiane del Dipartimento per le Relazioni Ecclesiastiche Esterne del Patriarcato di Mosca, hanno partecipato agli eventi commemorativi dedicati al 110° anniversario del genocidio armeno, tenutisi presso il complesso della cattedrale della Chiesa Apostolica Armena a Mosca.

L’arcivescovo Ezras (Nersisyan), capo della Diocesi Russa e del Nuovo Nakhichevan, ha presieduto una cerimonia funebre in onore dei martiri armeni presso la Cattedrale della Trasfigurazione, concelebrata dal clero diocesano. Dopo la funzione, numerosi ospiti, tra cui rappresentanti della Chiesa Ortodossa Russa, di altre confessioni cristiane, inviati diplomatici di vari paesi e personalità pubbliche, hanno deposto fiori al memoriale delle vittime del genocidio. In seguito, il complesso museale “Tapan” ha ospitato l’inaugurazione di una mostra commemorativa e di un concerto sinfonico dedicati all’anniversario.

Il 24 aprile, la Chiesa Apostolica Armena onora la memoria di oltre 1,5 milioni di armeni uccisi nell’Impero Ottomano all’inizio del XX secolo a causa delle politiche di pulizia etnica. Nel 2015, le vittime di questi eventi sono state canonizzate come sante.

Il revisionismo storico ai danni della Chiesa Armena (Informazioncattolica 26.04.25)

LA CANCELLAZIONE DEL PATRIMONIO DELLA CHIESA ARMENA DA PARTE DELL’AZERBAIGIAN

Con profondo cordoglio ricordiamo la scomparsa di Papa Francesco I, testimone instancabile della giustizia, della verità e della dignità dei popoli perseguitati.

Il 10 aprile 2025, la Pontificia Università Gregoriana di Roma ha ospitato una conferenza intitolata

“Il Cristianesimo in Azerbaigian: Storia e Modernità.” Essa è stata organizzata dal Centro Internazionale del Multiculturalismo di Baku, dall’Istituto di Storia ed Etnologia Bakikhanov dell’Accademia Nazionale delle Scienze dell’Azerbaigian, dall’Ambasciata della Repubblica dell’Azerbaigian presso la Santa Sede e dalla Comunità Religiosa Cristiana Albanese-Udi.

Questo evento non è stato un’iniziativa accademica, ma una piattaforma di revisionismo pseudo-scientifico. Ha promosso narrazioni sponsorizzate dallo Stato miranti a cancellare la presenza storica della Chiesa Armena e ad appropriarsi dei suoi monumenti attribuendoli falsamente agli antichi Albani del Caucaso — un popolo completamente diverso dagli odierni albanesi europei.

L’obiettivo reale era chiaro: delegittimare le radici indigene degli Armeni e presentarli come estranei alla loro stessa terra ancestrale.

I documenti presentati erano parte di una campagna di propaganda ben documentata e decennale volta a distorcere l’eredità millenaria della Chiesa Armena — su suolo armeno oggi occupato da un regime con una comprovata storia di distruzione culturale.

Queste falsificazioni non sono errori accademici innocui, ma veri e propri atti deliberati di aggressione storica.

Esse seguono di meno di due anni l’inumano blocco di nove mesi e l’assalto genocida del settembre 2023 contro il Nagorno-Karabakh, che hanno portato alla pulizia etnica di 120.000 Armeni cristiani autoctoni.

Questo crimine ha fatto seguito alla guerra dei 44 giorni del 2020, quando l’Azerbaigian — sostenuto da mercenari stranieri affiliati all’ISIS e ad Al-Qaeda — ha lanciato un’offensiva non provocata contro civili e siti religiosi, inclusa la Cattedrale Ghazanchetsots a Shushi.

L’aggressione dell’Azerbaigian contro il patrimonio culturale armeno non è una novità. È parte di una politica di genocidio culturale modellata sull’esempio turco, applicata sistematicamente ovunque nel suo territorio.

I casi più eclatanti si sono verificati tra il 1990 e il 2009, quando circa 10.000 khachkar — sacre croci armene scolpite nella pietra — sono stati rasi al suolo a Julfa, nel Nakhichevan, in quello che l’UNESCO e numerosi studiosi hanno definito uno dei peggiori atti di distruzione culturale del XXI secolo.

Ciò che rende questo episodio particolarmente allarmante è la palese complicità del Vaticano. La conferenza si è svolta con la piena conoscenza — e in alcuni casi la partecipazione — di alti funzionari vaticani. Tra questi figuravano Padre Mark Lewis, S.J., Rettore della Pontificia Università Gregoriana; il Cardinale Claudio Gugerotti, Prefetto del Dicastero per le Chiese Orientali; e il Vescovo Vladimir Fekete, Prefetto della Prefettura Apostolica dell’Azerbaigian.

La Pontificia Università Gregoriana ha dichiarato di non essere stata in alcun modo coinvolta nell’organizzazione della conferenza, né di aver concesso patrocinio o collaborazione. Nessuna autorità accademica né professore della Pontificia Università Gregoriana ha rivolto saluti, tenuto lezioni o partecipato all’evento. L’università ha dichiarato di aver semplicemente affittato l’aula. (*) Sebbene l’università affermi di aver solo affittato l’auditorium, la prominente esposizione delle bandiere del Vaticano e dell’Azerbaigian sul palco conferiva all’evento un’apparenza inequivocabile di patrocinio ufficiale.Se la propaganda negazionista da parte dell’Azerbaigian era prevedibile, è invece inaccettabile che tale revisionismo sia stato permesso all’interno di una delle principali istituzioni accademiche della Santa Sede.

Conferenze di questo tipo sono state a lungo organizzate a Baku per scopi propagandistici: questa era la dodicesima conferenza sull’argomento. Ma ospitarne una a Roma, sotto gli auspici vaticani, conferisce una falsa legittimità a menzogne che servono un’agenda genocida.

In una lettera indirizzata alla conferenza, il Cardinale Gugerotti — noto armeniologo — ha vergognosamente ripreso i punti di vista del regime azero. Non ha menzionato le centinaia di chiese armene, cimiteri e monumenti culturali sotto occupazione, né gli attuali sforzi del regime per cancellarne l’identità armena. Al contrario, ha lodato l’Azerbaigian: “L’Azerbaigian, crocevia di popoli e fedi, è una terra antica sulla quale è stata preservata una tradizione cristiana che ha le sue radici nell’epoca dell’Albania caucasica. I monumenti sacri, le chiese, i manoscritti e i ricordi rappresentano non solo testimonianze artistiche, ma espressioni tangibili dell’anima di un popolo che ha saputo onorare Dio in forme diverse e nella fedeltà della propria fede.”

La conferenza è stata avvolta nel segreto, annunciata pubblicamente solo il giorno prima del suo svolgimento. I suoi atti non sono stati resi disponibili online e non è stata pubblicata alcuna lista dei relatori o dei partecipanti — un’offesa a tutte le norme di trasparenza della vita accademica. Questa deliberata opacità suggerisce che sia gli organizzatori sia i funzionari vaticani erano pienamente consapevoli degli obiettivi disonesti dell’evento e cercassero di ridurre al minimo l’esame pubblico.

Questo evento fa parte della campagna incessante di genocidio culturale condotta dall’Azerbaigian, successiva alla pulizia etnica dell’Artsakh e all’incitamento all’odio di Stato volto all’annientamento dell’Armenia. La retorica del regime — che definisce la Repubblica d’Armenia “Azerbaigian Occidentale” — non è semplice propaganda: è accompagnata da una politica sistematica di violenza, negazione e cancellazione, sostenuta da un apparato militare e finanziario alimentato dall’armenofobia.

La decisione del Vaticano di collaborare con tale regime rappresenta non solo un fallimento morale, ma anche un grave tradimento dei propri valori fondamentali. È uno scandalo che mina la credibilità della Santa Sede come voce di pace, giustizia e difesa dei popoli perseguitati. Tradisce inoltre i profondi legami spirituali e storici che da secoli uniscono il popolo armeno alla Chiesa Cattolica. Tali legami sono ora minacciati da opportunismo politico e interesse materiale: negli ultimi anni, il Vaticano ha stretto crescenti legami finanziari con il regime autoritario dell’Azerbaigian.

Come documentato da IrpiMedia, l’Azerbaigian ha finanziato restauri delle catacombe romane, dei Musei Vaticani, della Biblioteca Apostolica Vaticana e perfino della Basilica di San Pietro. Nel febbraio 2020, Mehriban Aliyeva — moglie di Ilham Aliyev e vicepresidente dell’Azerbaigian — ha ricevuto l’Ordine di Pio IX, la più alta onorificenza pontificia. La decisione del Vaticano di onorare la rappresentante di un tale regime ha suscitato legittime proteste internazionali.

Il coinvolgimento di alti funzionari vaticani in un’azione che di fatto legittima il genocidio culturale contro l’Armenia — la prima nazione cristiana del mondo — dimostra una profonda bancarotta morale. È in aperta contraddizione con i valori cristiani di giustizia, verità e solidarietà, nonché con i legami storici che uniscono il popolo armeno alla Santa Sede.

Noi, i sottoscritti, chiediamo alla comunità internazionale di condannare senza ambiguità la decisione del Vaticano di ospitare questa conferenza presso la Pontificia Università Gregoriana, a seguito della brutale pulizia etnica di 120.000 Armeni cristiani. Chiediamo inoltre alle Chiese Armene Apostolica, Cattolica e Protestante, insieme alle loro parrocchie in tutto il mondo, al governo armeno, alle istituzioni armene in Armenia e nella Diaspora, e a tutte le organizzazioni e partiti politici armeni, di adottare una posizione ferma e unita: dichiarare il Cardinale Claudio Gugerotti, Padre Mark Lewis e il Vescovo Vladimir Fekete personae non gratae. Con la loro partecipazione o complicità in questo atto di falsificazione storica e tradimento morale, hanno perso ogni diritto ad essere accolti tra i fedeli armeni. Non devono essere ammessi in Armenia, né ricevuti in alcuna chiesa, istituzione o comunità armena. Questa non è solo una questione politica o accademica: è una crisi morale e spirituale. Il silenzio e l’inazione non sono più un’opzione.

(*) Questa petizione è stata aggiornata il 14 aprile 2025 aggiungendo il paragrafo contrassegnato con un asterisco, con la precisazione della Pontificia Università Gregoriana circa il proprio coinvolgimento nella conferenza.

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A Bari il popolo armeno saluta il Papa con la liturgia: «Sempre amico della nostra gente» (Gazzetta del Mezzogiono 26.04.25)

Celebrata una messa in memoria dei Martiri del Genocidio Armeno nella chiesa di San Gregorio in città vecchia, e si è pregato anche per Bergoglio

BARI – Una liturgia in rito armeno in memoria dei Martiri del Genocidio Armeno si è svolta nella Chiesa di San Gregorio a Bari Vecchia (accanto alla Basilica di San Nicola), officiata da P. Bsag Tepirjian, archimandrita della Chiesa Apostolica Armena, a cura del Consolato Onorario della Repubblica d’Armenia in Bari. Durante il rito si è pregato anche per Papa Francesco, amico del Popolo Armeno in contemporanea con le sue esequie a Roma.

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La storia non si cancella, il ricordo del genocidio armeno (Rainews 26.04.25)

Si inserisce nel cartellone del Teatro da Camera e Dialoghi di Carta sotto la direzione artistica di Elena Pau. Si tratta di un doppio evento, che vede protagonista la scrittrice Sonya Orfalian. In apertura, l’autrice dialoga con Irma Toudjian dell’ultimo suo libro, edito da Sellerio, Alfabeto dei bambini armeniTrentasei racconti, quante sono le lettere dell’alfabeto armeno, per altrettante testimonianze e storie di bambini e bambine sopravvissuti al genocidio armeno per mano ottomana, tra il 1915 e il 1923. A seguire, il recital C’era o non c’era – Fiabe d’Armenia tratto da un altro libro di Sonya OrfalianA cavallo del vento. Fiabe d’Armenia, con Anna-Lou Toudjian, voce recitante, e Irma Toudjian al pianoforte. C’era e non c’era – in armeno gar u cigar – è la formula con cui hanno inizio le fiabe armene.

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L’odio religioso lega i due genocidi del Novecento. L’analisi di Robiati Bendaud (Il Foglio 26.04.25)

Il legame tra il genocidio armeno e la Shoah è segnato da un comune denominatore profondo. Le antiche strutture di sottomissione e stereotipi razzisti hanno preparato il terreno per entrambe le tragedie del secolo scorso. Un libro lo racconta con un approccio originale

Il genocidio armeno e quello ebraico sono strettamente interconnessi: quanto più si risale alle origini dell’uno, tanto più si trovano elementi comuni con l’altro. Con un approccio particolare e originale, Vittorio Robiati Bendaud offre una interpretazione “religiosa” di entrambe le grandi tragedie del Novecento. Non ti scordar di me. Storia e oblio del genocidio armeno (Liberilibri, 180 pagine, 18 euro) è un saggio di carattere “pionieristico”, scrive Antonia Arslan nella postfazione; possiede cioè un carattere “inedito”, e forse offre “la giusta chiave per lucchetti che attendevano di essere aperti”. Anche se Metz Yeghérn (il “Grande Male”, così gli armeni chiamano la cancellazione del loro popolo) è stato realizzato dal nazionalismo laico dei Giovani Turchi e poi ultimato da Ataturk, le sue radici affondano nell’istituto islamico della dhimma, lo status di sottomissione cui gli armeni (come gli ebrei e altre minoranze cristiane) erano sottoposti da secoli nell’ambito dell’impero ottomano.

“Solo l’archetipo misogino” – scrive Bendaud –  “basato sulla subalternità della donna dominata al maschio dominante, spiega e rende tristemente ben evidente nel sistema politico-religioso della dhimma il significato di parole quali protezione, fedeltà, infedeltà, ribellione, arroganza, nonché l’unilateralità assoluta di tali giudizi”. Analogamente, la Shoah avviene fattualmente per mano dei nazisti, ma scaturisce dalla sedimentazione di un substrato plurisecolare di antigiudaismo cristiano. Centrali, nell’analisi di Bendaud, sono gli studi dello storico tedesco Stefan Ihrig e della filosofa cattolica americana Siobhan Nash-Marshall. Entrambi mettono in rilievo come l’anti-armenismo tedesco, di impronta schiettamente razzista, abbia preparato il terreno per l’odio anti-ebraico del nazismo. I grandi massacri degli armeni a fine Ottocento sono l’avvio del processo genocidario, e possono contare sulla piena copertura ideologica e politica della Germania guglielmina.

Nel 1898 il Kaiser Guglielmo II si proclama a Damasco “amico dei musulmani di tutto il mondo”, mentre gli intellettuali del Reich definiscono gli armeni “razza astuta e sediziosa” e propongono lo stereotipo dell’“usuraio armeno”, fino alla definizione degli armeni come “super-ebrei”: un accostamento che ispirerà Adolf Hitler, anch’egli alla ricerca – come la nuova Turchia – di uno “spazio vitale” per il popolo tedesco e di una “soluzione finale” per una minoranza mostrificata. Il saggio si conclude con riferimenti di strettissima attualità: “E’ individuabile un fil rouge nel modus operandi del dispotismo islamico – da Abdul Hamid II al contemporaneo Ilham Aliyev, dai Fratelli Musulmani a Hamas, dal tardo Ottocento ai giorni nostri (…): si tratta del ribaltamento della realtà e della sua mistificazione, raggiungendo livelli paradossali di menzogna”. E ancora: “L’indipendenza di questo antico popolo cristiano risulta insopportabile (…). Una situazione non dissimile da quanto accade a Israele: minuscolo nei fatti, ma enorme nell’ossessione di una soverchiante maggioranza arabo-islamica che si estende, sovrana e indiscussa, su territori immensi”.

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Papa Francesco: Karekin II (Chiesa apostolica armena), “ha difeso la giustizia e la pace, mostrando compassione verso i bisognosi” (SIR 25.04.25)

“Papa Francesco era un leader amato in tutto il mondo, umile, coraggioso e pieno di bontà; ha seguito con fedeltà le orme di Cristo”. Con queste parole il Katolikos di tutti gli Armeni, Karekin II, ha voluto rendere omaggio a Papa Francesco, con un messaggio di cordoglio pubblicato dal Centro informazioni della Santa Sede di Etchmiadzin. “In tempi difficili ha assunto la grande responsabilità del papato, testimoniando il Vangelo, difendendo la giustizia e la pace, mostrando particolare compassione verso i bisognosi e contribuendo al rafforzamento dei rapporti tra le Chiese”, scrive Karekin II, ricordando con riconoscenza che “nelle sue preghiere non mancava mai il ricordo del mondo ferito da guerre e ingiustizie, e in particolare del nostro popolo colpito dalle conseguenze del conflitto del Karabakh”. Il Katolikos ha infine citato con gratitudine la messa per il centenario del genocidio armeno nella basilica di San Pietro, la proclamazione di san Gregorio di Narek come Dottore della Chiesa e la visita del Papa in Armenia.

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Una retata, poi violenze e deportazioni. I 110 anni dal massacro degli armeni (Avvenire 24.04.25)

C’è un forte nesso tra guerra e genocidio, poiché la prima è il contesto in cui tutte le atrocità sono possibili. La cultura del nemico consente operazioni difficilmente concepibili e realizzabili in tempo di pace

Centodieci anni fa, mentre infuriava la Prima guerra mondiale, il governo dei Giovani Turchi – il Comitato Unità e Progresso – dava il via all’eliminazione del millet armeno dal corpo dell’Impero ottomano. Il “triumvirato”, che si era sostituito al Sultano alla guida dell’Impero, intendeva infatti costruire, con feroce determinazione, un Paese omogeneo dal punto di vista etnico-religioso e la guerra mondiale fu l’occasione per spingere alla realizzazione di tale tragico disegno.
Tutto inizia appunto il 24 aprile 1915, a Costantinopoli, con una gigantesca retata, in cui l’élite armena della capitale viene liquidata. Seguono i massacri, un vilayet dopo l’altro, e poi le deportazioni “dei gruppi di popolazione sospetti di spionaggio e tradimento, qualora le necessità militari lo richiedano” Destinazioni prescelte le desolate località siriane di Deir ez-Zor o di Ras al ‘Ain, dove, durante o dopo una marcia a piedi di centinaia di chilometri, un intero popolo viene trucidato nei modi più raccapriccianti, tanto da sollevare le inutili proteste degli ufficiali tedeschi e austriaci (alleati della Sublime Porta nella Grande Guerra) o dei diplomatici neutrali che sanno di quei drammatici eventi.
Obiettivo gli armeni, senza eccezioni, ma molto spesso – e questo è poco noto – anche le altre comunità cristiane, tra cui quella siriaca e caldea. Il caso di Mardin, nel vilayet di Diyarbakir, è significativo di un accanimento che non distingue tra i cristiani, colpendo tutte le comunità. Finiva così una secolare coabitazione, tipica di quell’Impero “mosaico” che era stato il dominio ottomano.
È importante fare memoria di tale tragedia, quando la cronaca dell’oggi ci parla di un Oriente cristiano – con tradizioni risalenti all’epoca apostolica, con una grande eredità teologica e spirituale e con una storia di confronto e convivenza col vissuto islamico – che rischia di scomparire. Quale futuro per i cristiani nel Medio Oriente? È la domanda che ci si pone in un momento difficilissimo per quelle comunità depauperate dall’emigrazione. La città martire di Aleppo, da millenni luogo di compresenza fra popoli e confessioni, è emblematica di quanto accade anche altrove e prefigura forse il destino di un’area più vasta, quasi un’amara resa alle ragioni di chi predica l’ineluttabilità degli scontri di civiltà.
Ricordare ciò che avvenne 110 anni fa in quelle stesse zone è quindi importante per capire il presente. Perché il Metz Yeghérn, il Grande Male, come si dice in armeno, ci mostra che i peggiori abissi sono possibili. C’è un forte nesso tra guerra e genocidio, poiché la prima è il contesto in cui tutte le atrocità sono possibili, con le articolazioni dello Stato impegnate in una lotta in cui sfuma sempre di più il confine tra militari e civili, tra obiettivi “leciti” e illeciti, mentre la cultura del nemico consente operazioni difficilmente concepibili e realizzabili in tempo di pace.
La ricorrenza del genocidio è di fondamentale importanza per tutto il popolo armeno. Ma comprendere il legame tra quanto avvenuto allora e il clima di guerra che si respirava e si viveva, ci aiuta anche a restare vigili e a ripudiare il clima bellicoso di questi ultimi anni, gli appelli al riarmo, la demonizzazione dell’altro. Ogni guerra peggiora il mondo, ogni guerra è gravida di mostri ancora peggiori di quelli della morte in battaglia. Da ogni guerra può nascere un genocidio.
Un capolavoro della letteratura mondiale, I 40 giorni del Mussa Dagh, di Franz Werfel, sulla resistenza armena sull’altopiano tra Cilicia e Siria, descrive bene tanto il tragico disegno dei Giovani Turchi – “Fra l’uomo e il bacillo della peste non c’è possibilità di pace” -, quanto l’ipocrisia di un Occidente che aveva fomentato i nazionalismi e viveva a sua volta un'”inutile strage: “Il nostro governo è venuto a scuola da voi”
La storia rischia di ripetersi, in forme diverse, ma altrettanto violente. Occorre non dimenticare, parlare e operare perché gli esiti non siano gli stessi. Vanno coltivati tutti gli spazi possibili di dialogo e di mediazione e valorizzata ogni tensione unitiva, ricordandoci che siamo tutti sulla stessa barca, perché nessuno possa un giorno parlarci di nuovo dell’altro come di un “bacillo della peste” o rivendicare di aver imparato dalle nostre parole o dai nostri gesti.

Marco Impagliazzo 

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Quello che ci ha insegnato lo sterminio degli Armeni: il genocidio non è sempre opera di spietate dittature (L’Unità 24.04.25)

Un libro di Robiati Bendaud racconta l’orrore del massacro realizzato dai turchi, con l’appoggio dei tedeschi e il silenzio dell’Europa. Può succedere di nuovo

Cultura – di Piero Sansonetti

24 Aprile 2025 alle 11:41
Quello che ci ha insegnato lo sterminio degli Armeni: il genocidio non è sempre opera di spietate dittature

Il primo genocidio del novecento, quello che probabilmente fece da modello anche per Hitler, non fu opera di un dittatore spietato ma di un gruppo di giovani idealisti liberali mazziniani, che avevano combattuto contro la dittatura. Li chiamavano i “Giovani Turchi” ed erano stati a lungo perseguitati dal potere ottomano negli anni a cavallo tra l’ottocento e il novecento. Poi si erano armati e avevano marciato su Istanbul. Erano andati al potere nel 1908 ed erano diventati classe dirigente, quella che poi espresse una figura come Mustafà Kemal Ataturk, padre della moderna repubblica turca.

Questo per dire che non occorre una spietata dittatura per compiere un genocidio. Succede spesso che i genocidi siano messi in moto da poteri democratici. Del resto nel secolo precedente, cioè nell’ottocento, quella che stava diventando la più potente democrazia del mondo, gli Stati Uniti, eseguì scrupolosamente il genocidio dei nativi americani senza suscitare nessuno sdegno nell’intellettualità occidentale. Il genocidio del quale stiamo parlando è stato uno dei più meticolosi e spietati della storia. Lo sterminio degli armeni. Iniziato nella notte tra il 24 e il 25 aprile del 1915, esattamente 110 anni fa. Erano passate appena due settimane da Pasqua e dalla fine della battaglia dei Carpazi tra russi e austriaci. La prima guerra mondiale era in pieno svolgimento. Il governo turco, alleato con i tedeschi e gli austriaci contro i russi, odiava gli armeni, sia per vecchie rivalità etniche e culturali (l’Armenia è una culla cattolica ed era un popolo fortemente europeo) sia per ragioni militari perché gli armeni erano amici dei russi. In quella notte, a Istanbul vengono arrestati centinaia di intellettuali, giornalisti, professionisti e politici armeni. In sostanza tutto il gruppo dirigente armeno. Poche settimane dopo, il 29 maggio, il parlamento approva la legge Tehcir e autorizza le deportazioni. Che iniziano subito e sono gigantesche e massacranti.

L’Armenia è un piccolo territorio, senza sbocco al mare, chiuso tra l’Azeirbajan, la Turchia, la Georgia e l’Iran. Il genocidio è condotto in parte dall’esercito turco che attacca le città e i villaggi armeni e non fa prigionieri. In parte con le marce della morte, dalle quali non si salva quasi nessuno. Si muore per sfinimento, per fame, per sete. I turchi non si accaniscono contro i soldati o i maschi in età di guerra. Cioè non puntano semplicemente a impedire che i giovani armeni si uniscono ai russi. Vogliono lo sterminio. Vogliono cancellare l’Armenia e seppellirla sotto montagne di sale. Uccidono le donne, uccidono migliaia e migliaia di bambini.
Gli storici non sono uniti nella valutazione delle cifre. Chi dice un milione di morti, chi addirittura tre milioni. Così come non sono univoci nel calcolo della popolazione armena del tempo. Le valutazioni oscillano tra il milione e mezzo e i tre milioni e mezzo. I calcoli più attendibili e più accreditati dicono che gli armeni, nel 1915 fossero poco più di due milioni e che ne fossero rimasti vivi non più di settecentomila. Le vittime della strage furono circa un milione e mezzo. Le autorità turche ancora non riconoscono il genocidio, e dicono che i morti furono solo 800 mila. Gli armeni chiamano questo genocidio il Mec Egern, che nella loro lingua vuol dire Grande Male.

È uscito in questi giorni un libro scritto da Vittorio Robiati Bendaud, giovane storico e filosofo italiano, 41 anni, presidente dell’ “Amicizia ebraico-cristiana di Milano, Carlo Maria Martini”. Il libro si chiama “Nontiscordardime” (edizioni liberilibri, prefazione di Paolo Mieli). Robiati Bendaud ha scelto una parola molto dolce e delicata per raccontare il primo grande orrore del secolo breve. Il nome di un fiorellino azzurro (che è il simbolo di chi denuncia quel massacro) e di una tenera canzone anni trenta. E ha scritto questo libro proprio per provare a dirci quello che in pochissimi dicono: che fu un vero genocidio, che fu sostenuto dai tedeschi, che non fu in nessun modo condannato e punito dall’Occidente, che ancora oggi è negato. La storia è questa: quando il genocidio fu messo in atto, e fu eseguito in tempi rapidissimi, ad Instanbul c’erano molti ufficiali tedeschi che guidarono le operazioni. Anche il capo delle truppe che eseguirono il genocidio (truppe in gran parte reclutate tra galeotti) era un turco di origini tedesche: Frierdich Bronsart von Shellendorf. Nel 1918, quando i turchi furono definitivamente sconfitti nella guerra mondiale, gli alleati arrestarono 144 ufficiali coinvolti in quella infamia. Li processarono, li assolsero e li mandarono a casa.

Il genocidio armeno è stato cancellato. È riconosciuto solo da 30 paesi in tutto il mondo. Eppure è di dimensioni spaventose. Almeno l’80 per cento della popolazione sterminata. Atrocità senza fine. Torture, infanticidi. Ferocia assolutamente paragonabile alla ferocia nazista. E Robiati Bendaud non si limita a raccontare la storia. Racconta che ancora oggi gli armeni sono vittime di persecuzioni. Soprattutto nel Nagorno, perseguitati dall’Azerbaijan, ma anche, ancora, da parte dei turchi. Nell’indifferenza generale dell’Occidente. Di più: spesso con l’appoggio anche militare dell’Occidente nei confronti dei nemici degli armeni. È una delle grandi vergogne europee. E nessuno la denuncia. E nessuno si oppone. Cosa possiamo imparare da questo? Che non basta dire democrazia. Non basta dire legalità. Non basta dire “mai più”. Siamo ancora dentro, tutti, alle atrocità del novecento che furono molte più di quelle che sappiamo.

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