Armenia: strage famiglia, ergastolo per soldato russo (Swissinfo.ch 19.12.16)

La Corte d’appello armena ha confermato la condanna all’ergastolo per Valeri Permiakov, il soldato russo accusato di aver massacrato una famiglia armena di sette persone, tra cui anche un neonato di sei mesi, a Ghiumri nel gennaio del 2015.

Il 23 agosto un tribunale aveva condannato al carcere a vita il militare, che prestava servizio in una base russa in Armenia.

Nel gennaio del 2015 migliaia di persone hanno manifestato sia a Ghiumri sia nella capitale Ierevan chiedendo l’affidamento del soldato russo alla giustizia locale. Permiakov fu arrestato nella notte tra il 12 e il 13 gennaio dell’anno scorso mentre tentava di attraversare il confine con la Turchia.

Il presunto soldato-killer avrebbe ucciso il bimbo di sei mesi a coltellate, mentre si sarebbe servito del kalashnikov per ammazzare gli altri sei membri della famiglia nella loro abitazione. In un processo separato, una corte militare russa nella base di Ghiumri ha condannato Permiakov a dieci anni per diserzione, furto e detenzione illegale di armi.

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La distruzione di Aleppo filmata dal balcone di casa (Internazionale.it 14.12.16)

Houses without doors, del regista siriano armeno Avo Kaprealian, ha vinto il premio per il migliore documentario internazionale all’ultima edizione del Torino film festival. Il film mostra la banalità quotidiana del male attraverso l’orrore dell’assedio di Aleppo. Mentre il regista vive in diretta la morte e la distruzione della sua città, ricorda un’altra guerra, un altro genocidio accaduto cento anni fa.

Aleppo è la più grande città armena del Medio Oriente, ha rappresentato il luogo di rifugio dei sopravvissuti al genocidio in Turchia, che causò la morte di un milione e mezzo di armeni. Kaprealian lo ricorda attraverso immagini e suoni tratti dal film Mayrig di Henri Verneuil: un uomo distrutto interpella il pascià – “Signore, abbiamo i piedi insanguinati, siamo stremati”, e lui, in apparenza magnanimo, gli propone scarpe “che non si rovineranno mai”. Poi ordina di far mettere dei ferri da cavallo sui piedi insanguinati del rifugiato urlante.

In un’altra inquadratura del documentario, la madre di Avo Kaprealian riesce a malapena a chiudere la sua valigia, rimane a lungo in silenzio, poi chiede al figlio se deve piangere. Perché cento anni dopo, una famiglia armena del quartiere di Al Midan è di nuovo costretta a scappare con una valigia come unico bagaglio, anche se questa volta non in quanto armena: ad Aleppo, tutti i siriani devono prima o poi scappare o morire. “Gli armeni”, scrive il regista nella sua lettera di ringraziamento al festival di Torino, “dicono sempre ‘mai più’ quando parlano del genocidio, e invece l’abbiamo rivissuto, rivisto, risentito, ancora e ancora, in diversi modi, in Siria e in Iraq”.

Prima chiude la farmacia, poi tutti gli altri negozi, spariscono gli uomini che chiacchieravano sotto casa

Houses without doors non vuole essere un’opera artistica. È un documento grezzo, di bruciante attualità. Le riprese sono spesso sfocate, si muovono a scatti, il bambino a cui si annuncia che non andrà più a scuola è ripreso in controluce, quelli che giocano alla guerra tra “esercito siriano” e “opposizione” sono inquadrati in maniera fugace. La festa di capodanno con i bombardamenti in sottofondo mostra molte sigarette, visi a metà, mani, schiene tese.

Nelle scene di interno i personaggi filmati da Avo Kaprealian sono quasi tutti persone della sua famiglia e hanno sempre una parola per il suo girare ossessivo, intrusivo. Sua madre, con il caffè in mano e la lunga sigaretta nell’altra, offre spesso il suo profilo all’obiettivo, si è abituata all’occhio documentarista del figlio. Il padre, di cui non si vede mai il viso, è spaventato, come lo sono sempre stati tutti i siriani, anche prima della guerra: “Ci sono più servizi segreti che abitanti qua Avo, smettila di filmare, o saliranno e ci arresteranno tutti”.

La difficoltà di filmare in Siria non deve essere sottovalutata: quasi nessun giornalista straniero lo fa più e farlo è molto pericoloso anche per gli stessi siriani. Avo filma quasi tutto dal suo balcone. All’inizio dell’assedio riprende un matrimonio da lì e anche il funerale di una ragazza morta sotto i bombardamenti. La situazione è tesa, i suoi genitori, sempre dal balcone, cercano di scovare i cecchini appostati nel quartiere. Ma la vita continua malgrado le violenze, è la famosa resilienza degli essere umani, la loro capacità di far fronte anche agli eventi più traumatici.

A poco a poco, nel corso del film, in questa strada che diventa familiare anche allo spettatore, assistiamo allo svuotamento inesorabile della città e alla lenta scomparsa di tutti i segni di normalità. Prima chiude la farmacia, poi tutti gli altri negozi, spariscono gli uomini che chiacchieravano sotto casa, i giovani sfaccendati, e poi le madri che corrono con le figlie per paura delle pallottole vaganti, e infine arriva il turno degli alberi. Prima perdono i loro colori e poi muoiono, distrutti insieme ai diversi piani del palazzo di fronte. Alla fine – che fine non è, neanche per Aleppo la martire – sparisce la strada. Avo scende di notte per filmare la spessa crosta fatta di calcinacci e detriti provocati dalla guerra che ormai ricopre l’asfalto. Sembra che non ci sia fine alla distruzione di Aleppo.

Avo Kaprealian conclude così la sua lettera a Torino: “Voglio ricordare che noi umani siamo eterni rifugiati in questo bellissimo mondo, dall’oscurità della nostra creazione fino alla nostra morte, che è uguale per tutti”.

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La crisi del Nagorno Karabagh nell’era di Trump (Spondasud 13.12.16)

di Bruno Scapini 

Il conflitto del Nagorno Karabagh, congelato fin dalla firma del “cessate-il-fuoco” del 1994, sottoscritto tra Armenia e Azerbaijan, non accenna a risolversi. In tutti questi anni, i negoziati condotti dalle grandi Potenze, sia nella sede del Gruppo di Minsk dell’ OSCE, sia sul piano bilaterale con la mediazione della Svizzera, non hanno condotto a nessun risultato accettabile per le Parti in causa. Anzi, avrebbero esasperato, per la loro incongruenza, la tensione esistente tra Yerevan e Baku alimentando un crescendo di violazioni del “cessate-il-fuoco” che, da modalità casuali e circoscritte a qualche colpo di cecchino, sono venute assumendo sempre più i caratteri di una aperta belligeranza concretizzatasi nella sua forma più evidente nell’attacco sferrato da parte azera il 1 aprile  scorso. Un’azione militare, quella, portata avanti inaspettatamente da Baku con un impiego di mezzi e uomini senza precedenti, e impegnando sul terreno quasi tutto l’arco confinario della c.d. “linea di contatto”.

Le ragioni di questa inconciliabile confrontazione non vanno tuttavia ricercate in una supposta rigidità delle posizioni assunte dall’Armenia – ben comprensibili  del resto a fronte della retorica bellicosa tenuta dal Presidente azero Alijev  e alla luce della sua comprovata inaffidabilità negoziale –  bensì risiederebbero proprio nella proposta risolutiva sostanziata dall’OSCE nei Principi di Madrid, la cui primaria ispirazione non sembra essere la ricerca di un riconoscimento equo e sereno delle legittime aspettative del popolo del Nagorno Karabagh, – tra l’altro fondate giuridicamente sulla base di quanto disposto  dalla legge della Federazione Russa sulla secessione delle Repubbliche ex sovietiche –, ma l’ ipocrita finzione di porre il principio della integrità territoriale sullo stesso piano di quello della autodeterminazione dei popoli. Un principio, quest’ultimo, che, consacrato nella Carta delle Nazioni Unite, ha alimentato e nutrito le aspirazioni alle libertà fondamentali dei popoli oppressi dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, ovvero promuovendo, nella fase post-colonialista della Storia moderna, la configurazione del nuovo assetto politico internazionale fondato sul riconoscimento di “nazionalità”.

Fino ad oggi, così, hanno prevalso logiche di potere economico nello stabilire a quale di questi due principi occorresse riconoscere priorità; e i grandi “player” internazionali, nell’ottica di proteggere i propri interessi legati alle fonti energetiche di cui l’Azerbaijan –  e non l’Armenia purtroppo – è ricco, hanno gareggiato nel tacere la verità, sostenendo spesso, e più o meno subdolamente, la causa di Baku.

Ma l’ascesa inaspettata alla Casa Bianca di Donald Trump sembra ora aprire la strada verso una nuova impostazione della politica estera americana.

2.

Forse è troppo presto per avanzare delle previsioni che potrebbero essere smentite una volta che il Presidente eletto si sia insediato nella “stanza ovale”.

Ma attenendosi alle sue dichiarazioni programmatiche e ad alcune condotte tenute in questo periodo di transizione, vi sarebbe fondato motivo per credere che Trump intenda seriamente cambiare qualcosa nei rapporti finora intrattenuti tra gli USA e il resto del mondo. E ciò se non altro per una ragione imprescindibile di coerenza nell’attuazione del suo programma di rinnovamento interno del Paese.

La politica estera – sappiamo – non conosce un indirizzo autonomo rispetto alla politica interna. Anzi, ne è la continuazione, con altri mezzi e procedure, in una proiezione esterna, sì da rifletterne le esigenze di fondo attraverso l’adozione di altrettante linee di azione adeguate per finalità e portata. Trump promette di portare il PIL americano a crescere del 3.5%, parla di incrementare la produzione nazionale e di allocare risorse al rinnovamento delle infrastrutture del Paese. Ma tutto questo implicherebbe, da un lato,  una revisione della politica economico-commerciale con l’estero ( nel senso di favorire un certo protezionismo economico ), e, dall’altro – onde reperire le risorse – una significativa riduzione dell’impegno alla cooperazione internazionale e alla protezione militare degli alleati . Tale ultimo obiettivo non sembrerebbe comunque raggiungibile senza un cambiamento decisivo del rapporto con la Russia di Putin risultando, infatti, imprescindibile una intesa con Mosca a garanzia del nuovo “re-setting” delle relazioni con i membri della NATO e con tutti gli altri Paesi ai quali Washington ha finora assicurato il proprio sostegno economico ( leggi Israele, Turchia  ed altri) o protezione militare.

Un rinnovato rapporto con Mosca, fondato sul reciproco riconoscimento di priorità, appare, dunque, come una possibile, ma anche probabile, direttrice della nuova politica estera di Trump, di cui potranno beneficiare presumibilmente anche tutti quegli altri Paesi e  gruppi nazionali che fino ad oggi hanno visto sacrificati i propri interessi e aspirazioni da una relazione conflittiva tra Washington e Mosca  a seguito di quella abitudine, dura a morire – nutrita dalle lobby del “military-industrial complex” americano –  di antagonizzare la Russia rappresentandola sempre come lo Stato da demonizzare, piuttosto che vederla come utile partner per un generale e pacifico riordino mondiale.

L’Armenia, in una tale prospettiva, non potrebbe che trarne beneficio. La prevedibile ridimensionata importanza che avrebbe l’Azerbaijan in un contesto di interessi energetici compresso dal neo-protezionismo americano e da una Russia determinata a favorire le proprie vie di transito per gli idrocarburi diretti in Europa, apporterebbe

3.

 

Indubbi vantaggi alla  Yerevan ufficiale nel controbilanciare l’aggressività azera. Non solo, ma la dichiarazione di Trump di voler essere “giusti” con “popoli e nazioni” (non ha parlato infatti di Stati ) sottenderebbe chiaramente l’intendimento del neo-presidente americano di appoggiare quelle cause nazionaliste oggi in sofferenza per una erronea interpretazione dei valori storici. In quest’ottica ne gioverebbero presumibilmente comunità nazionali come quella curda, la palestinese, o Paesi finora marginalizzati come Taiwan, la Corea del Nord e tanti altri ancora, a causa di una “distorta” visione del mondo tenuta in passato dai “grandi” del pianeta.

In questo quadro, il popolo del Nagorno Karabagh potrebbe verosimilmente acquistare importanza nell’attualità internazionale, acquisendo  un ruolo suo proprio non solo come destinatario di un riconoscimento di legittime aspirazioni di libertà, ma anche, e forse più tecnicamente, quale primario soggetto di una trattativa negoziale dalla quale è stato finora ingiustificatamente escluso.

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Tra Renzi e Gentiloni non mettere il Vaticano (L’Occidentale 13.12.16)

Di Gentiloni, “Paolo il freddo”, come è stato definito, in questi giorni si è già detto tutto. Che è il contrario del rissoso Matteo, che ha tre quarti di nobiltà, e poi la sua storia politica, l’ascesa con Rutelli, il ministero della comunicazione e poi degli esteri con Renzi. Il quale Renzi ha spinto la candidatura Gentiloni alla successione ritenendo Paolo uno che non gli farà ombra, come sarebbe potuto accadere se a “Chigi” fosse salito un Padoan o il rivale piddino Franceschini. Matteo può quindi dormire tra i proverbiali due guanciali?

Fossimo in Renzi guarderemmo con un po’ più di attenzione cosa accade Oltretevere. Non per il patto Gentiloni del 1913, quello che Vincenzo Ottorino (imparentato con la famiglia di Paolo) presidente dell’Unione elettorale cattolica italiana strinse con i giolittiani per riportare i cattolici in politica,  bensì per la comunanza di vedute tra il nuovo premier Paolo e Papa Francesco. Si veda alla voce ecologismo, ma si pensi anche all’immigrazione, alla Turchia e persino alla Cuba castrista.

Gentiloni da ministro degli esteri ha benedetto i corridoi umanitari della comunità di Sant’Egidio – vicinissima al Papa – per portare i profughi siriani in Italia con il pass partout dei “permessi umanitari”; Paolo il freddo fu il primo ministro degli esteri straniero ad arrivare a Cuba dopo l’accordo tra Raul e Obama, folgorato dalla visita lampo del Santo Padre.

E quando scoppiò la polemica tra il sultano Erdogan e la Santa Sede sul genocidio degli armeni, alla cautela del sottosegretario Gozi (“non credo sia opportuno per un governo prendere posizioni ufficiali su questo tema, un governo non deve usare la parola genocidio”), fece da contrappunto la nota più dura dell’allora titolare della Farnesina (“La durezza dei toni turchi non mi pare giustificata, anche tenendo conto del fatto che 15 anni fa Giovanni Paolo II si era espresso in modo analogo”).

Benché il Papa sia lontano dalla politica italiana, e si tenga ancora più lontano dalle polemiche sui temi etici, con le unioni civili Renzi ha raffreddato notevolmente i rapporti con la Chiesa. Anche perché alcuni nella Cei erano convinti di poter incidere sulla legge, appoggiando la pattuglia di cattolici del Pd e chiedendo solo qualche modifica al testo, senza irrigidimenti e conflittualità. Renzi invece ha concesso poco, pochissimo, ignorando l’atteggiamento collaborativo di importanti prelati.

Lo stile di Gentiloni come è noto è assai diverso, e qualche rapporto oltretevere il nuovo premier ce l’ha. Sull’ecologia in particolare, tema molto caro a Papa Francesco, Gentiloni può trovare braccia aperte e buoni appoggi. Il Vaticano, in Italia, non ha più il peso e l’influenza di un tempo, però… A proposito, Michele Emiliano ieri ha detto che vuole un Pd ambientalista come il Papa.

Terreni della Chiesa armena sottratti da Israele (Infopal.it 10.12.16)

Betlemme-PIC. Le autorità di occupazione hanno deciso di sottrarre un vasto appezzamento di terreni appartenenti alla Chiesa Armena, a al-Walaja, a nord-est di Betlemme, e di usarlo come parco “nazionale” per i coloni ebrei.

Membri della comunità armena hanno affermato che le autorità israeliane per la Natura e i Parchi hanno iniziato a prendere controllo dell’area, che è di circa 50.ooo m².

Sono scoppiati scontri con i soldati israeliani, dopo le preghiere nella Chiesa.

La comunità teme che il luogo cristiano diventi un sito ebraico.

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Osce: incontro ad Amburgo fra ministro Esteri armeno Nalbandian e vicesegretario Nato Gottemoeller (Agenzianova 09.12.16)

Amburgo, 09 dic 12:14 – (Agenzia Nova) – Il ministro degli Esteri armeno Edward Nalbandian ha discusso con il vicesegretario generale della Nato Rose Gottemoeller ad Amburgo, a margine del 23mo Consiglio dei ministri dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce). I due hanno parlato, in particolare, dei progressi dell’Armenia nel processo di attuazione del Piano d’azione di partenariato individuale (Ipap) con la Nato. Entrambi hanno espresso soddisfazione per lo sviluppo sostenibile della cooperazione e del dialogo politico nel corso degli ultimi anni. In merito all’operazione Resolute support in Afghanistan, la Gottemoeller ha detto che la Nato apprezza molto il contributo dell’Armenia nel mantenimento della sicurezza e della stabilità internazionale. (Res)

Armenia: ricordando il terribile terremoto (Sputniknews.com 07.12.16)

Il 7 dicembre 1988 alle 11.41 nell’Armenia nord occidentale si verificò una delle catastrofi più terribili dei tempi moderni… in 30 secondi la città di Spitak fu rasa al suolo.All’epicentro il terremoto di Spitak ha raggiunto la potenza di 10 gradi (su una scala di 12), a Leninakan 9 gradi, a Kirovakan 8 gradi. L’origine delle scosse si ebbe ad una profondità di 20 chilometri e a sei chilometri a nord-ovest di Spitak.

In totale, il terremoto interessò circa il 40 % del territorio dell’Armenia. Nella zona del disastro vivevano circa 970 000 persone. A causa del rischio di incidenti fu arrestata l’unica centrale nucleare presente in Armenia.

Nelle operazioni di soccorso presero parte più di 20000 soldati e ufficiali insieme a volontari per sgomberare le macerie con l’aiuto di 3000 mezzi militari. In tutta la nazione si organizzarono raccolte di aiuti umanitari. Nella ricostruzione delle regioni presero parte tutte le repubbliche dell’Unione Sovietica. 111 paesi, tra Belgio, Gran Bretagna, Italia, Libano, Norvegia, Francia, Germania e Svizzera, fornirono aiuto all’URSS fornendo attrezzature di emergenza, specialisti, cibo e medicine. Fu garantito aiuto anche nella ricostruzione.

Dalle memorie di uno dei capi delle squadre di soccorso Ivan Dusharin: “Uno degli operatori delle gru fu portato in ambulanza in psichiatria dopo che, al lavoro per sgombrare le macerie in una scuola, aveva sollevato una serie di lastre, sotto il quale c’era una intera classe di bambini morti. Il lavoro dei soccorritori richiedeva nervi d’acciaio e una psiche stabile, ma siamo tutti esseri umani. Abbiamo avuto problemi anche noi. I ragazzi dopo il lavoro non riuscivano a dormire, avevano gli incubi”. Secondo i dati ufficiali a Spitak morirono 25 000 persone, 140 000 rimasero invalidi e 500 000 rimasero senza casa.

Leggi tutto: https://it.sputniknews.com/mondo/201612073750730-Armenia-ricordando-il-terribile-terremoto/


Accadde oggi, il 7 dicembre del 1988 un terremoto devasta l’Armenia: è uno dei peggiori eventi sismici del XX secolo (Meteoweb)
Il 7 dicembre del 1988 un forte terremoto colpiva la provincia armena di Lori, in quella che a quel tempo era ancora l’Unione Sovietica (URSS). Il sisma ebbe magnitudo Ms 6.8, e l’intensità raggiunse il X grado nella scala MCS (distruttivo). La città più vicina all’epicentro fu Spitak, e per questo il sisma viene ricordato come “terremoto di Spitak”. Ci furono crolli e devastazioni ovunque, ed il numero di vittime – mai del tutto accertato – oscillò fra le 25.000 e le 50.000. Fu uno dei sismi più devastanti del XX secolo nel mondo. A pochi anni dalla caduta dell’URSS (nel 1991 l’Armenia avrebbe dichiarato l’indipendenza), il presidente Gorbaciov chiese aiuto agli USA, con un atto storico: era la prima richiesta di aiuto umanitario al nemico, dallo scoppio della guerra fredda.

Genocidio armeno, alla Corte di Strasburgo la prima causa per chiedere i risarcimenti alla Turchia (Il Messaggero 06.12.16)

di Franca Giansoldati
Città del Vaticano La Corte europea per i diritti umani dovrà pronunciarsi sulla prima azione legale intrapresa dagli armeni contro la Turchia per il genocidio del 1915. L’agenzia vaticana Fides ha reso noto che il Catholicos armeno, Aram I, a giorni, sottoporrà alla Corte Europea di Strasburgo la richiesta di restituzione delle antiche proprietà appartenute del catholicosato armeno. Si tratta di diversi palazzi, chiese e immensi terreni situati nella antica città di Sis, in territorio turco. La richiesta giuridica approda a Strasburgo dopo che la Corte Costituzionale turca ha rigettato l’istanza e, dunque, la possibilità di risolvere il contenzioso patrimoniale all’interno del sistema giuridico turco. Ankara continua ad avere una posizione totalmente negazionista non riconoscendo il genocidio nella sua estensione così come il piano di confisca dei beni appartenuti alla minoranza armena che fu mandata al macello, per un totale di un milione e mezzo di vittime.
Due anni fa il Catholicos armeno Aram I aveva iniziato l’iter giuridico della prima azione legale che sia mai stata tentata, depositando nei tribunali turchi la petizione. “La Turchia deve sempre ricordare che l’Armenia non smetterà mai di combattere per i suoi diritti e far fronte alle ingiustizie”.
“Questa è la prima azione legale – ha rimarcato il Catholicos  – presa contro la Turchia dopo il Genocidio armeno del 1915, è il risultato di lunghe e serie discussioni, studi e consultazioni, ed è basata sulle disposizioni giuridiche internazionali, comprese le decisioni del Trattato di Losanna del 1923, riguardanti le minoranze che vivono entro i confini della Repubblica turca”.
La causa legale non è stata presa in considerazione né dal Ministero della Giustizia turco né dalla Corte costituzionale turca. Ambedue le istituzioni non hanno riconosciuto alcuna base giuridica alla causa. Sis, antica capitale del Regno armeno di Cilicia, corrisponde all’attuale città turca di Kozan.
Due settimana fa Aram I – in visita a Roma – era stato ricevuto da Papa Francesco con il quale aveva avuto lunghi colloqui.
Lo scorso giugno Papa Francesco ha visitato l’Armenia denunciando ancora una volta il genocidio, frutto di un piano studiato a tavolino all’epoca dell’impero ottomano che si è completato tra il 1915 e il 1917. In quel periodo sono state deportate e mandate alla morte un milione e mezzo di persone, donne, bambini, anziani, attraverso marce forzate nel deserto senza viveri e senza acqua. Il piano prevedeva anche l’incameramento dei beni e dei possedimenti delle vittime armene. ” Quella tragedia, quel genocidio, inaugurò purtroppo il triste elenco delle immani catastrofi del secolo scorso, rese possibili da aberranti motivazioni razziali, ideologiche o religiose, che ottenebrarono la mente dei carnefici fino al punto di prefiggersi l’intento di annientare interi popoli. E’ tanto triste che, sia in questa come nelle altre, le grandi potenze internazionali guardarono da un’altra parte” ha detto Papa Francesco in Armenia dopo avere reso omaggio al memoriale delle vittime del Grande Male.

Claudio Gobbi. Chiese armene (Doppiozero 04.12.16)

“La ripetizione non è la generalità. […] La generalità presenta due grandi ordini, l’ordine qualitativo delle somiglianze e l’ordine quantitativo delle equivalenze. […] la generalità esprime un punto di vista secondo cui un termine può essere scambiato con un altro, un termine sostituito con un altro. […] Al contrario, […] la ripetizione come condotta e come punto di vista concerne una singolarità impermutabile, insostituibile. […] Ripetere è comportarsi, ma in rapporto a qualcosa di unico o di singolare, che non ha simile o equivalente. […] La festa non ha altro paradosso apparente: ripetere un ‘irricominciabile’. Non aggiungere una seconda e una terza volta alla prima, ma portare la prima volta all’ennesima potenza. […] Sono dunque in opposizione la generalità, come generalità del particolare, e la ripetizione come universale del singolare” (G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Raffello Cortina Editore, Milano, 1997, pp. 7-81).

Se penso al lavoro che Claudio Gobbi ha portato avanti con costanza per anni prima di giungere a pubblicare nel 2016 il libro Arménie Ville per Hatje Cantz, mi è facile tornare all’incipit deleuziano che ho appena riassunto. Alla sua luce, la ricerca quasi certosina di immagini che ritraessero un modello architettonico che si mantiene sostanzialmente immutato nei secoli, la chiesa armena, dovrebbe apparire facilmente dell’ordine della ripetizione piuttosto che della generalità. Tanto più che il fenomeno stesso dell’immutabilità di questo modello appartiene di diritto alla ripetizione. Non si tratta, infatti, di costruire chiese somiglianti ed equivalenti: ciò cui si tende è portare il modello “all’ennesima potenza”, una sorta di chiesa-rito, che ripetendosi si amplifica. E una sorta di rito mi sembra anche la procedura di avvicinamento al suo soggetto da parte di Claudio Gobbi. Fotografie scattate da lui, richieste ad altri fotografi, ricercate negli archivi o sulla rete, sottoposte a un criterio di uniformità nella presentazione, nonostante la varietà delle fonti, costituiscono un lavoro che s’inserisce nella solida tradizione seriale della fotografia contemporanea. Con una sua specificità, però, che allarga, potenzia. La questione non è solamente trovare analogie o variazioni nel catalogo, cosa che ovviamente avviene. Il senso più profondo che intravedo è il ricalcare attraverso una serie, che si fa rito e ripetizione essa stessa, la medesima logica, se di logica in senso stretto si può parlare, sottesa al fenomeno delle chiese armene: sorta di singolarità ripetute in ogni tempo e in ogni spazio, proprio secondo quell’idea di ripetizione come universale del singolare.

La questione del tempo è qui centrale. Il tempo del rito è un tempo della ripetizione, il tempo di qualcosa che dura. E la singolarità della chiesa armena appare declinata da Gobbi proprio attraverso questa temporalità, un tempo-durata che non ha la misurabilità e l’evoluzione del tempo cronologico. Nessuna fenomenologia degli stili permette qui di dare una facile freccia al tempo, scandendolo e dotandolo di direzione. Ricordare che il concetto di durata è legato a Bergson e riletto in tempi più recenti proprio da Deleuze, è una piccola conferma che mi permette un passo avanti. Con una bella sterzata.

Quando Claudio mi ha chiesto di scrivere sul suo libro, mi è tornato in mente un film di Atom Egoyan del 1993. In Calendar, un fotografo di origine armena, Egoyan stesso, è invitato in Armenia a fare una serie di fotografie di chiese per un calendario. Parte con la moglie, che parla l’armeno e farà da interprete, e troverà sul posto una persona che li accompagnerà in macchina nei vari siti, improvvisandosi però anche nel ruolo di guida. Tutto il film narra del progressivo distacco della moglie e di lui e del parallelo avvicinamento da parte di lei alla guida armena.

Tutto apparentemente accade senza che il fotografo se ne renda pienamente conto, essendo tutto catturato dalla realizzazione delle fotografie, ossia vivendo una sorta di infatuazione dello sguardo che lo rende quantomeno distratto rispetto al precipitare degli eventi.

Nella prima scena, un’inquadratura fissa su una chiesa in lontananza su un’altura fa subito riferimento al fotografico. Sembra non accadere nulla se non il tempo come durata.  È un’immagine-tempo, per usare un’altra fortunata espressione di Deleuze. La chiesa armena, con il suo carico d’immutabilità, sembra il soggetto perfetto per esprimerla. Così deve essere sembrato anche a Claudio Gobbi. Siamo in un film, però. Improvvisamente entra in campo una macchina che risale la collina fino alla chiesa. Ne escono piccole figure che intuiamo essere i protagonisti. Con l’entrata in campo dell’auto possiamo dire che fa irruzione quella che Deleuze chiamava immagine-movimento. In una scena è condensato il passaggio da una situazione in cui la chiesa ci viene presentata nella sua essenza, a un’altra in cui diventa uno degli elementi della narrazione. Questo grazie a un sapiente utilizzo del fuori-campo. Mi chiedo allora: c’è un fuori-campo anche nel progetto di Claudio Gobbi?

Quali sono, se ci sono, i paralleli? Lui stesso mi ha confermato di non essere interessato nel suo lavoro alla narrazione e credo quindi di non fargli torto se inserisco idealmente il suo lavoro nella scena iniziale, prima dell’irruzione dell’automobile.  Tuttavia la questione del fuori-campo mi sembra interessante, anche perché in fotografia non è di solito contemplata. Anche qui Claudio ha dato un’interessante lettura: il suo fuori-campo potrebbe essere tutto il processo che ha portato alla scelta di un’unica immagine per rappresentare una sola chiesa, ossia tutto ciò che non è mostrato poiché non scelto, ma ha concorso alla selezione finale, partendo da una pluralità di punti di vista sulla medesima chiesa. Non è solo editing, a mio giudizio, ma la temporalità di un lavoro, la sua cronologia, se così si può dire, che si manifesta in questo processo. Il fatto che Gobbi non la mostri, non la faccia entrare in campo, come invece fa Egoyan, che è un regista e ha bisogno della narrazione, significa una scelta precisa: resto sul lato della durata e dell’essenza. Resto dalla parte del rito.

Il film adotta vari linguaggi, oltre al cinema di inquadratura fissa, anche il video, usato per contrapposizione in maniera mobile e quasi tattile, la fotografia, e i messaggi di una segreteria telefonica. Si potrebbe vederlo in un certo senso come prefigurazione della multimedialità odierna. In Calendar si osserva la stessa cosa (le chiese, la storia) con media differenti che vanno a influenzare il tipo di sguardo, la percezione, attuandone uno spossessamento. Anche la rinuncia di Gobbi a imporre sempre il proprio punto di vista va nella direzione di una perdita dello sguardo. Le diverse fonti da cui è compiuta la selezione dell’immagine finale di una determinata chiesa portano a una pluralità di visioni, a una sorta di dispersione ottica ancora più apprezzabile sfogliando più volte la serie finale delle chiese.

E questa dispersione, applicata paradossalmente a un modello immutabile, diviene una raffinata e non didascalica riflessione visiva sulle caratteristiche di una società ipermediale come la nostra, in cui lo sguardo soggettivo e umanista del fotografo, ma anche, quasi per converso, il mito dell’oggettività fotografica sono messi pienamente in crisi. Per dirla in una formula, Arménie Ville può sembrare a una vista distratta (la nostra, bombardata da miriadi di informazioni visive) un lavoro monomediale, quasi nostalgico, ma si rivela a un’attenta analisi sottilmente multimediale, radicato nella riflessione sul contemporaneo.

In fondo la nostra epoca sta diventando il regno della simulazione, dell’equivalenza, dominato dalla generalità. Claudio Gobbi in maniera non urlata, col suo avvicinamento alla chiesa armena che si fa rito di ripetizione, cerca proprio, va ribadito, un “universale del singolare”. Qualcosa che a contrasto faccia da rivelatore della condizione odierna, sempre più spesso preda di una tendenza alla genericità.

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Armenia protagonista al circolo filologico milanese (Mi-Lorenteggio.com 01.12.16)

Sabato 3 dicembre, Circolo Filologico Milanese, ore 17

Milano, 1 dicembre – Il Circolo filologico milanese apre le porte all’Armenia e alla sua cultura millenaria con un grande evento, patrocinato dall’Ambasciata armena, in programma sabato 3 dicembre alle ore 17. Si parte con “Il canto spezzato”, spettacolo multimediale ideato dal soprano armeno Ani Balian che interpreterà i canti della tradizione armena raccolti dall’etnomusicologo Gomidàs, accompagnata al pianoforte dal maestro Gianfranco Iuzzolino. L’esibizione vedrà intermezzi lirici con la lettura di brani e poesie dei grandi testimoni del genocidio a cura dell’attrice Elda Olivieri e la proiezione di immagini dell’Armenia ieri e oggi. Seguirà tavola rotonda e dibattito sul libro di Henry Barby “Nella Terra del Terrore. Il martirio dell’Armenia”, a cura di Carlo Coppola, un racconto inchiesta del giornalista francese pubblicato in Francia nel 1917. A completare la serata, esposizione di quadri del gruppo di pittura astratta “Spirale di luce” sul tema del Genocidio armeno, opere di Wally Bonafè, Katalin Kollar, Amalia Caracciolo, Carla Erizzok, e una mostra fotografica sullo stesso tema. Apertura con voce recitante di Tariel Bisharyan.