Orchestra tedesca invita Erdogan al concerto dedicato al genocidio degli armeni (Sputnik 25.10.16)

A giugno i deputati del Bundestag tedesco hanno adottato una risoluzione che condanna il genocidio degli armeni nell’impero Ottomano nel 1915. Questo ha portato a una grave raffreddamento nei rapporti con la Turchia.L’orchestra sinfonica di Dresda ha invitato il presidente Turco Recep Erdogan, il Primo Ministro Bilal Ildirima, il Ministro degli esteri Cavusoglu e il Ministro della cultura e del turismo Nabi Avdzhi al concerto dedicato al genocidio degli armeni.

Il concerto si terrà il 13 novembre presso il consolato generale della Germania a Istanbul. Gli inviti personali del Presidente, Primo ministro e i membri del gabinetto sono a disposizione dell’agenzia di stampa DPA, che informa che il concerto sarà dedicato al “le ferite del passato turco e armeno”. L’orchestra eseguirà l’opera “Aghet”, dedicata al “genocidio degli armeni nell’impero Ottomano”. Nell’ambito della manifestazione si terrà anche l’istituzione della ” società dell’amicizia armeno turca tedesca”. Si può confermare la partecipazione all’evento fino al 5 novembre. Il Ministro degli Esteri tedesco ha rifiutato di commentare la situazione, riporta la DPA. Secondo l’agenzia, in Turchia negli ultimi mesi, è in atto una protesta contro questo progetto, che è finanziato da fondi dell’Unione Europea e il Ministero degli esteri tedesco. L’orchestra sinfonica di Dresda prevede inoltre di suonare a novembre l’ “Aghet” anche a Belgrado e Erevan. A giugno i deputati del Bundestag tedesco hanno adottato una risoluzione che condanna il genocidio degli armeni nell’impero Ottomano nel 1915. Questo ha portato a una grave raffreddamento nei rapporti con la Turchia. In particolare, ai deputati tedeschi è stata vietata l’entrata alla base militare di Incirlik in Turchia, dove si trova il contingente dell’esercito. Erdogan ha anche cercato di condannare il comico satirico tedesco Jan Bemerman, dalle cui parole si è sentito insultato. All’inizio di ottobre, la procura ha chiuso l’inchiesta nei confronti di Bemerman, mentre il 5 ottobre si è svolta la visita di una delegazione di deputati tedeschi alla base di Incirlik, dopo di che, i media tedeschi hanno ritenuto il conflitto tra i Paesi risolto.

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Roma, 25 ott. (askanews) – Il ministero degli Esteri tedesco ha annullato un concerto, nel quale si evocava il genocidio armeno, presso il suo consolato di Istanbul. “I locali del Consolato Generale di Istanbul non sono disponibili il 13 novembre”, data prevista per il concerto, ha dichiarato il ministero a Berlino, suscitando il sospetto che vi siano state pressioni da parte del governo di Ankara per la cancellazione.

Allestito dal Dresdner Sinfoniker e denominato “Aghet” – un termine di lingua armena usato per definire i massacri degli armeni nel 1915 – ii concerto viene eseguito da un’orchestra che riunisce musicisti turchi e armeni. Allestito nel 2015 in occasione del centenario del massacro vuole essere un progetto di riconciliazione.

L’orchestra di Dresda, che aveva già denunciato nel mese di aprile pressioni da parte di Ankara e dell’Unione europea perché il termine “genocidio” non venisse utilizzato, aveva invitato alla rappresentazione del 13 novembre il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il primo ministro Binali Yildirim. “Gli inviti alla rappresentazione sono stati trasmessi senza la partecipazione del Ministero”, ha detto il ministero degli Esteri tedesco, senza ulteriori spiegazioni.

La questione del genocidio armeno ha avvelenato per diversi mesi le relazioni tra Berlino ed Ankara; il 2 giugno, il Bundestag, la camera bassa del Parlamento tedesco, ha adottato una risoluzione che definisce come un genocidio il massacro di 1,5 milioni di armeni compiuto dall’Impero ottomano nel 1915. Per rappresaglia, la Turchia ha impedito ad alcuni parlamentari tedeschi l’accesso alla base di Incirlik nel sud della Turchia, dove i soldati tedeschi sono di stanza nell’ambito della coalizione contro l’organizzazione Stato islamico. (fonte afp)

Mestre: alla biblioteca Vez due incontri sull’Armenia. Il primo martedì 25 (Genteveneta.it 24.10.16)

La Biblioteca civica Vez di Mestre, in collaborazione con “Viaggi in Mente”, presenta la rassegna “Segni” con due appuntamenti dedicati all’Armenia e all’antica via dell’incenso.
Dopodomani, martedì 25 ottobre, alle ore 18, si terrà l’incontro “Sulla via della seta: l’Armenia”, con l’intervento di Nadia Pasqual, autrice della guida “Armenia” e di “Nagorno Karabakh”. Si palerà del popolo dell’Ararat e dei suoi tremila anni di storia, ma anche della Repubblica d’Armenia di oggi e del suo presente difficile. Scopriamo la prima nazione cristiana al mondo e la sua storia travagliata di ieri e di oggi, tra Anatolia e Caucaso.

Martedì 8 novembre, sempre alle 18, si terrà incontro “Lungo l’antica via dell’incenso”, con Aldo Pavan, giornalista, fotografo e videomaker. Un’antica via attraversava la penisola arabica per trasportare un prodotto, l’incenso, la cui origine era ritenuta misteriosa. Dall’antica Arabia Felix affollate carovane risalivano verso nord per arrivare ai porti del Mediterraneo. Oggi ripercorrere l’antica via ha il sapore dell’inaspettata riscoperta di storiche vestigia.

Gli appuntamenti si terranno nella saletta della Biblioteca VEZ, con entrata da via Querini. L’ingresso è libero fino ad esaurimento posti.

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Ricerca storica sui 7mila zingari armeni martiri nel 1915 (Radio Vaticana, 20.10.16)

Don Renato Rosso è un sacerdote originario di Alba, dedito alla pastorale dei nomadi in Italia, Brasile, Bangladesh e India. Recentemente ha visitato l’Armenia e ha rintracciato un’importante documentazione sugli zingari armeni, almeno 7mila, deportati e uccisi nel genocidio di un secolo fa, nel 1915.  La documentazione è stata presentata ieri a Papa Francesco nell’udienza in Piazza San Pietro. Per l’occasione, Marcello Storgato ha chiesto a don Renato Rosso di spiegare come e dove abbia trovato la documentazione, e il suo valore:

R. – L’anno scorso, quando ho sentito dai monaci armeni che vivono a Gerusalemme che gli zingari in Armenia cento anni fa erano cristiani, ho cominciato a pensare che probabilmente fossero stati coinvolti nel genocidio, perché il target era quello di uccidere i cristiani. Quando ho saputo che erano cristiani mi sono attivato. Quest’anno, nel mese di giugno, ho trovato un documento prezioso di Gregori Balakian, vescovo della Chiesa ortodossa apostolica, scritto nel 1922. Quindi lui è stato testimone oculare.

D – Quindi è una documentazione di prima mano!

R – Dal momento che i documenti sono rarissimi, questo documento  assume un valore prezioso in quanto l’autore, un vescovo, ha raccontato di come sia riuscito a salvarsi da questo genocidio, e lo ha scritto in un testo abbastanza voluminoso con molti particolari. Viveva nella città dove questi zingari sono stati martirizzati, Chankiri, nella provincia di Kastemouni. Lui ha descritto tutto. Ha parlato di queste settemila persone, più di mille famiglie di zingari. Da quel momento abbiamo avuto una documentazione scritta che torna almeno tre volte raccontando un po’ quello che è avvenuto.

D – Ad esempio, cosa racconta?

R – Un fatto interessante, di una ragazza deportata con altre donne. Si trovava in un gruppo di dieci persone: sette erano zingari e tre erano armeni sedentari.  Uno dei turchi che accompagnava il convoglio si invaghì di questa ragazza e gli fece una proposta. Le disse che se fosse diventata musulmana si sarebbero sposati così lei non sarebbe morta e lui sarebbe stato contento di vivere con lei. Lei gli fece una controproposta dicendogli di diventare cristiano, di vivere così insieme ugualmente felici. Quest’uomo rimase così ferito, umiliato, che all’inizio fece amputare i seni di questa ragazza, ma lei continuò a rimanere fedele alla sua fede e lui infine la fece tagliare a pezzettini.

D – Quindi la violenza era in qualche modo collegata alla religione …

R – Questo è uno dei tanti segni, di questi fatti che ci raccontano un po’ cosa è stato l’eccidio, quindi dando anche valore a questo fatto. Perché prima della deportazione di questi zingari, sembra che dieci di questi abbiano chiesto di diventare musulmani. Di fronte alle torture non ce l’hanno fatta e hanno fatto questa richiesta. Però questa nota è molto importante perché ci dice che 6.990 sono rimasti fedeli alla loro religione.

D – Una forte testimonianza di fede cristiana, quella degli zingari armeni!

R – Questa gente con questa forza, questi settemila zingari, sono martiri già canonizzati dalla chiesa ortodossa apostolica. Quando sono stato in Armenia ho consegnato questa notizia anche al Patriarcato, che non era a conoscenza di questi fatti. Di solito si parla male di questo popolo …. Quindi una volta che ne possiamo parlare bene, facciamolo con gioia! Secondo me ha un’importanza veramente molto grande. È un gruppo veramente molto significativo. A questo si aggiunge il fatto che questi zingari non erano stati gli unici; ce ne erano tanti altri in tutta l’Armenia, dove mi sono recato personalmente per documentarmi su questo fatto. Ho incontrato gli zingari di Yerevan, di Gyumry che ricordano molto bene i loro nonni, bisnonni, zii che erano stati deportati nelle altre province. Quindi potrebbero essere anche 20mila. Comunque noi rimaniamo al numero di cui abbiamo un testo scritto e su questo non ci sono dubbi. Vivendo con gli zingari, è per me indubbiamente un fatto straordinario!

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Quadri dall’Armenia: una sinfonia concertata (Osservatorio Balcani e Caucaso, 18.10.16)

Un reportage dall’Armenia che è modulato secondo la struttura di una sinfonia classica, un viaggio che ci porta dal Cenozoico sino all’attualità

18/10/2016 –  Christian Eccher

(Questo reportage esce in contemporanea sulle pagine della rivista letteraria on-line Odissea)

PRELUDIO: Tbilisi, alle pendici del Monte Santo (Ode a Lima)

Lungo la riva destra del fiume Mtkvari, la città vecchia di Tbilisi biancheggia aggrappata al Monte Santo, sul quale troneggiano la grande ruota panoramica e il traliccio delle telecomunicazioni. Vista dagli aeroplani che incessantemente sorvolano il Caucaso e che collegano l’Occidente all’Asia, la città vecchia appare come una lastra di marmo bianca rigata da solchi neri e sottili.

Quei solchi sono in realtà strade lunghe e strette dove persino la luce si insinua a fatica; sui marciapiedi anziane signore passeggiano curve appoggiandosi al bastone con una busta della spesa inverosimilmente ricolma appesa al braccio sinistro; giovani con gli occhiali da sole si affrettano non si sa dove; coppie di fidanzati passeggiano tenendosi per mano; furgoni carichi di merci arrancano in salita e sfiorano pericolosamente i passanti con gli specchietti retrovisori.

In uno di quei vicoli (dalla via Rustaveli, l’arteria principale della città vecchia che scorre parallela al fiume, bisogna svoltare improvvisamente a sinistra dopo aver superato il Teatro dell’Opera e arrampicarsi di qualche metro per poi imboccare con prontezza la prima strada a destra), Lima gestiva il proprio negozio, che si chiamava semplicemente “Market”. Lima è armena, la sua famiglia vive da sempre in Georgia. A Tbilisi è a casa.

Nella sua bottega era possibile trovare di tutto: uova fresche, affettati, lampadine, bevande, oggetti per la casa. Magra e gentile, i capelli neri e lunghi raccolti da un fermaglio e lasciati cadere sulle spalle, Lima amava intrattenersi con gli avventori e li accompagnava fin sull’uscio una volta terminati gli acquisti. Dopo 30 anni, è stata costretta a chiudere l’attività: anche i clienti più fedeli hanno optato per i grandi centri commerciali che sorgono ovunque alla periferia della città e che hanno lo stesso aspetto, a Tbilisi come a Bishkek, a Novosibirsk come a Tomsk e a New York.

Lima non ha né annunciato né pubblicizzato la chiusura. Una mattina di giugno, una qualsiasi, con l’estate alle porte e gli abitanti di Tbilisi che si svegliano con i capelli già bagnati di sudore per via dell’aria calda e umida che ristagna nella valle, la saracinesca del “Market” è rimasta abbassata. Coraggiosa e decisa, Lima ha venduto il locale, ha lasciato la città e nessuno sa dove sia. “Lima non è più qui”, urlano alcune bambine a chi si avvicini al negozio, mentre saltellano sui contorni irregolari di una “campana” disegnata sul marciapiede con un gessetto colorato. Si arrestano un istante, con in mano il sasso da gettare sull’asfalto, per guardare in faccia coloro che ancora non sanno che il negozio rimarrà chiuso per sempre. Lima ha capito che, pur essendo riuscita a sopravvivere al crollo dell’URSS e al caos economico e politico che negli anni Novanta ha investito la Georgia, non si sarebbe potuta opporre alla forza omologatrice e distruttrice della globalizzazione neoliberista. I grandi consorzi internazionali sono arrivati anche nel Caucaso e hanno ormai quasi completamente soffocato le rivendite al dettaglio.

Il negozio di Lima è adesso in fase di ristrutturazione. Il nuovo padrone lo rinnova e spera presto di affittarlo. In un angolo del locale, Lima aveva il suo ufficio, dove spesso trascorreva anche la notte: una stanzetta ordinata, con i libri di contabilità, il computer, il crocefisso appeso alla parete. Ora è completamente vuota. Sul muro di fronte alla porta di ingresso sono rimasti soltanto l’ombra polverosa lasciata dal crocefisso, che probabilmente Lima ha voluto portare con sé, e un’icona della Madonna che piange inconsolabile sul corpo del figlio morto.

(Le finestre del palazzo di fronte spandono il riverbero del sole sui muri scrostati dell’edificio che a pian terreno ospitava il “Market”. Un muratore siede con le gambe piegate, come un pappagallo sul trespolo, su un mattone, proprio davanti al negozio. Fuma e centellina il caffè appoggiando appena le labbra al bordo della tazzina, quasi abbia paura di romperla. “Sì, certo, Lima, non è più qui, non si sa, non si sa dove sia… Il suo negozio? Va al primo che lo vuole”. Il caldo scioglie l’asfalto. Anche il palazzo signorile all’inizio della via è in ristrutturazione, c’è solo la facciata, come una scenografia a teatro; al di là delle finestre si intravvedono il blu del cielo e il bianco dei cumulonembi di condensazione sui monti del nord; sono le nubi che annunciano il meriggio. Il muratore fuma felice e incredulo di avere davanti a sé un uomo di “besa”, venuto dalla pianura del Danubio per far fede alla parola data molti anni prima in quel negozio della Città Vecchia).

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Quegli armeni accolti dalla Puglia (e da Zanotti Bianco) (Corriere della Sera 17.10.16)

Negli ultimi due anni si è parlato molto (e giustamente) del genocidio degli armeni, lo sterminio di 1,5 milioni di persone condotto soprattutto attraverso le marce della morte nel terribile biennio 1915-1916. Lo ha fatto anche papa Francesco attirandosi le proteste del governo turco, che mai ha voluto ammettere le evidenti responsabilità storiche contro quella minoranza cristiana.
Dall’ampia discussione è stata finora esclusa la seconda ondata di repressione che avvenne nel biennio 1920-1922 durante la guerra greco-turca. Nelle ultime settimane del conflitto gli armeni e i greci residenti in Asia Minore cercarono rifugio a un ritmo di 20.000 persone al giorno nella città di Smirne, dove l’esercito per ordine di Mustafà Kemal Ataturk aveva l’ordine di non infierire sulla popolazione civile. Ma il leader della nuova Turchia non aveva ancora il pieno controllo della situazione e le sue disposizioni vennero ignorate. Il comandante delle forze armate del distretto, Nureddin Pascià, diede invece avvio al massacro che provocò una nuova e vasta ondata di esodi verso i Paesi vicini e verso l’Europa.
Un’emergenza umanitaria in cui l’Italia, attraverso uno dei suoi esponenti più illuminati: Umberto Zanotti Bianco (1889-1963), l’archeologo e meridionalista piemontese che dopo le vicissitudini della lotta antifascista avrebbe fondato nel 1955 Italia Nostra.
Di quell’aspetto poco conosciuto della biografia di Zanotti Bianco e della storia dell’accoglienza italiana oggi si occupa sul nuovo numero della rivista “Storia urbana”, edita da Franco Angeli, il ricercatore dell’università di Bologna Mirko Grasso. Un saggio particolarmente istruttivo anche alla luce della crisi siriana e dell’emergenza rifugiati che ha investito l’Europa e l’Italia.
Figlio di un diplomatico e di una nobildonna anglo-svedese, Zanotti Bianco aveva frequentato il liceo a Moncalieri dove si era avvicinato alle idee moderniste e umanitarie rappresentate da Antonio Fogazzaro ne “Il Santo”. L’altro suo faro era Giuseppe Mazzini e l’idea di indipendenza delle nazioni. La prima forte esperienza di Zanotti Bianco, prima della laurea in giurisprudenza all’università di Torino, fu la missione a Messina nel 1908 in soccorso delle popolazioni sconvolte dal terremoto. Lì conobbe lo storico Gaetano Salvemini, che aveva avuto la famiglia decimata dal sisma e in quell’ambiente nacque l’idea di costituire l’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia (A.n.i.M.I) che aveva come scopo l’aiuto ai meno abbienti e la promozione dello sviluppo economico.
Uno spirito umanitario e internazionalista come Zanotti Bianco non poteva non rimanere colpito dalla tragica vicenda del popolo armeno, che in diversi scritti egli paragonò a quello italiano, soprattutto nelle difficili fasi iniziali del Risorgimento. Accanto alla denuncia del genocidio anche in alcuni scritti della sua rivista di geopolitica “La Voce dei Popoli”, l’intellettuale piemontese sperò fortemente ma inutilmente che una soluzione al caso armeno venisse dal presidente americano Thomas Woodrow Wilson, fautore dell’indipendenza nazionale.
Agli inizi degli anni Venti, erano cominciate ad arrivare in Puglia alcune delle famiglie armene scampate ai massacri di Smirne. Molti profughi erano impiegati nelle manifatture per la produzione di tappeti organizzate a Bari dall’imprenditore Lorenzo Valerio.
La sistemazione di quella comunità non era delle migliori anzi, scrive Mirko Grasso, “Zanotti Bianco nella città pugliese coglie i segni della violenza fisica e morale subita dai profughi”. Per superare la condanna dello squallore e del “provvisorio senza fine” il filantropo italiano, aiutato dal poeta e scrittore armeno Hrand Nazariantz, anche sull’esempio di esperienze viste in Gran Bretagna e in Svizzera, decise di dar vita a un villaggio in un uliveto nella periferia di Bari che rimarrà uno dei maggiori esempi di accoglienza internazionale. Il villaggio, che si chiamò Nor Arax (cioè Nuovo Arasse, “il fiume simbolo dell’identità armena”) venne realizzato nmel 1925, anche grazie all’interessamento dell’economista Luigi Luzzati, utilizzando alcuni padiglioni Doker che la Germania, nazione sconfitta durante la prima guerra mondiale, mandava all’Italia in conto riparazioni.
A Nor Arax, che continuò a funzionare anche se in misura parziale sino al 1980, vissero dignitosamente un centinaio di armeni. Accanto alle abitazioni c’era un grande edificio per il culto e le attività associative e terra per gli orti.
Zanotti Bianco, dal 1931, non poté più occuparsi direttamente del villaggio né dell’Associazione per gli interessi del Mezzogiorno a causa del veto di Mussolini. Nel 1925 era stato uno dei firmatari del manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Benedetto Croce e il regime gli fece pagare la sua scelta. Nel 1941 fu mandato al confino a Paestum, dove non rimase inattivo, contribuendo alla scoperta di un santuario dedicato alla dea Hera.
La comunità armena di Nor Arax venne lasciata in pace dal fascismo, anche perché le leggi razziali del 1938 avevano stabilito che gli armeni erano di ceppo ariano.
Umberto Zanotti Bianco, che sopravvisse durante il fascismo anche grazie all’amicizia con Maria José di Savoia, nel 1944 venne nominato dal governo Bonomi presidente della Croce Rossa Italiana, nel 1952 divenne senatore a vita per volontà del presidente Luigi Einaudi e nel 1955 con Elena Croce e altri fondò Italia Nostra.
Dino Messina

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Quel villaggio di Zanotti Bianco che salvò gli armeni fuggiti alla seconda ondata del genocidio (Corriere della Sera 16.10.16)

Negli ultimi due anni si è parlato molto (e giustamente) del genocidio degli armeni, lo sterminio di 1,5 milioni di persone condotto soprattutto attraverso le marce della morte nel terribile biennio 1915-1916. Lo ha fatto anche papa Francesco attirandosi le proteste del governo turco (leggi l’articolo di Corriere.it sfiorando l’icona blu), che mai ha voluto ammettere le evidenti responsabilità storiche contro quella minoranza cristiana.

La seconda repressione

Dall’ampia discussione è stata finora esclusa la seconda ondata di repressione che avvenne nel biennio 1920-1922 durante la guerra greco-turca. Nelle ultime settimane del conflitto, gli armeni e i greci residenti in Asia Minore cercarono rifugio a un ritmo di 20 mila persone al giorno nella città di Smirne, dove l’esercito per ordine di Mustafà Kemal Ataturk aveva l’ordine di non infierire sulla popolazione civile. Ma il leader della nuova Turchia non aveva ancora il pieno controllo della situazione e le sue disposizioni vennero ignorate. Il comandante delle forze armate del distretto, Nureddin Pascià, diede invece avvio al massacro che provocò una nuova e vasta ondata di esodi verso i Paesi vicini e verso l’Europa.

Emergenza umanitaria nel 1915

Un’emergenza umanitaria in cui l’Italia intervenne, attraverso uno dei suoi esponenti più illuminati: Umberto Zanotti Bianco (1889-1963), l’archeologo e meridionalista piemontese che dopo le vicissitudini della lotta antifascista avrebbe fondato nel 1955 Italia Nostra. Di quell’aspetto poco conosciuto della biografia di Zanotti Bianco e della storia dell’accoglienza italiana oggi si occupa — sul nuovo numero della rivista «Storia urbana», edita da Franco Angeli — il ricercatore dell’università di Bologna Mirko Grasso. Un saggio particolarmente istruttivo (sfiora l’icona blu per leggerne sul sito dell’editore un estratto gratuito) anche alla luce della crisi siriana e dell’emergenza rifugiati che ha investito l’Europa e l’Italia.

Allievo di Fogazzaro e Mazzini

Figlio di un diplomatico e di una nobildonna anglo-svedese, Zanotti Bianco aveva frequentato il liceo a Moncalieri dove si era avvicinato alle idee moderniste e umanitarie rappresentate da Antonio Fogazzaro ne «Il Santo». L’altro suo faro era Giuseppe Mazzini e l’idea di indipendenza delle nazioni. La prima forte esperienza di Zanotti Bianco, prima della laurea in giurisprudenza all’università di Torino, fu la missione a Messina nel 1908 in soccorso delle popolazioni sconvolte dal terremoto. Lì conobbe lo storico Gaetano Salvemini, che aveva avuto la famiglia decimata dal sisma e in quell’ambiente nacque l’idea di costituire l’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia (A.n.i.M.I) che aveva come scopo l’aiuto ai meno abbienti e la promozione dello sviluppo economico.

La fondazione per il Meridione e lo spirito umanitario

Uno spirito umanitario e internazionalista come Zanotti Bianco non poteva non rimanere colpito dalla tragica vicenda del popolo armeno, che in diversi scritti egli paragonò a quello italiano, soprattutto nelle difficili fasi iniziali del Risorgimento. Accanto alla denuncia del genocidio anche in alcuni scritti della sua rivista di geopolitica «La Voce dei Popoli», l’intellettuale piemontese sperò fortemente ma inutilmente che una soluzione al caso armeno venisse dal presidente americano Thomas Woodrow Wilson, fautore dell’indipendenza nazionale. Agli inizi degli anni Venti, erano cominciate ad arrivare in Puglia alcune delle famiglie armene scampate ai massacri di Smirne. Molti profughi erano impiegati nelle manifatture per la produzione di tappeti organizzate a Bari dall’imprenditore Lorenzo Valerio.

In Puglia i profughi scampati ai massacri

La sistemazione di quella comunità non era delle migliori anzi, scrive Mirko Grasso, «Zanotti Bianco nella città pugliese coglie i segni della violenza fisica e morale subita dai profughi». Per superare la condanna dello squallore e del «provvisorio’ senza fine» il filantropo italiano, aiutato dal poeta e scrittore armeno Hrand Nazariantz, anche sull’esempio di esperienze viste in Gran Bretagna e in Svizzera, decise di dar vita a un villaggio in un uliveto nella periferia di Bari che rimarrà uno dei maggiori esempi di accoglienza internazionale. Il villaggio, che si chiamò Nor Arax (cioè Nuovo Arasse, «il fiume simbolo dell’identità armena», nella foto sopra una delle case del villaggio com’è oggi) venne realizzato nel 1925, anche grazie all’interessamento dell’economista Luigi Luzzati, utilizzando alcuni padiglioni Doker che la Germania, nazione sconfitta durante la prima guerra mondiale, mandava all’Italia in conto riparazioni. A Nor Arax, che continuò a funzionare anche se in misura parziale sino al 1980, vissero dignitosamente un centinaio di armeni. Accanto alle abitazioni c’era un grande edificio per il culto e le attività associative e terra per gli orti (ndr. una storia ben ricostruita anche dal sito BariInedita, con corredo di foto di com’erano e come sono oggi le case del villaggio, per leggere l’articolo sfiorate l’icona blu).

Il veto di Mussolini e l’esilio a Paestum

Zanotti Bianco, dal 1931, non poté più occuparsi direttamente del villaggio né dell’Associazione per gli interessi del Mezzogiorno a causa del veto di Mussolini. Nel 1925 era stato uno dei firmatari del manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Benedetto Croce e il regime gli fece pagare la sua scelta. Nel 1941 fu mandato al confino a Paestum, dove non rimase inattivo, contribuendo alla scoperta di un santuario dedicato alla dea Hera.

Le leggi razziali del ‘38 e il «ceppo ariano»

La comunità armena di Nor Arax venne lasciata in pace dal fascismo, anche perché le leggi razziali del 1938 avevano stabilito che gli armeni erano di ceppo ariano. Umberto Zanotti Bianco, che sopravvisse durante il fascismo anche grazie all’amicizia con Maria José di Savoia, nel 1944 venne nominato dal governo Bonomi presidente della Croce Rossa Italiana, nel 1952 divenne senatore a vita per volontà del presidente Luigi Einaudi e nel 1955 con Elena Croce e altri fondò Italia Nostra.

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MACRO, Mercoledì 19 ottobre:1915 The Armenian Files di Roberto Paci Dalò (Napolitan.it 16.10.16)

Mercoledì 19 ottobre 2016, alle ore 17:00 il MACRO – Museo d’Arte Contemporanea Roma di Roma ospiterà concerto e film relativi al progetto 1915 The Armenian Files di Roberto Paci Dalò, a cura di Maria Savarese.

L’evento è promosso da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali con il patrocinio dell’Ambasciata della Repubblica d’Armenia in Italia. Il progetto “1915 The Armenian Files” trae ispirazione dal genocidio armeno e comprende un film, una mostra, un’opera radiofonica, un concerto multimediale, e un disco omonimo uscito l’11 dicembre 2015, data del riconoscimento del Premio Napoli all’artista, pubblicato da Marsèll insieme a Giardini Pensili, Arthub (Shanghai/Hong Kong) e all’Ambasciata della Repubblica d’Armenia in Italia.

A partire da testi del poeta armeno Daniel Varoujan, Paci Dalò mescola elettronica, voci, strumenti acustici, ritmi e trame sonore tratte da materiale d’archivio in una tessitura fatta di suggestioni e citazioni che sono ormai il suo tratto distintivo. Boghos Levon Zekiyan (attualmente Arcivescovo di Istanbul) è la voce narrante di questo lavoro e ha registrato questi testi nel 2000 in un giardino di Venezia. Il film della performance è stato girato dall’artista a Bourj Hammoud (Beirut) la “città armena” creata dopo il 1915 dai profughi fuggiti dalle persecuzioni dell’impero ottomano e accolti a Beirut.

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La visione mistica di Sayat-Nova, trovatore d’Armenia (Avvenire 14.10.16)

Il nome di Sayat-Nova, il grande poeta del Settecento armeno, è stato fino ad oggi in Italia molto più noto della sua opera letteraria. Tutti gli appassionati di cinema d’autore conoscono infatti Sergej Paradjanov, il famoso regista armeno, a lungo perseguitato dal regime sovietico, che gli ha dedicato il film Il colore del melograno (1969). Lo vidi con un gruppo di amici una sera a Ravenna, diversi anni fa: e furono per tutti noi una sorpresa incredibile quelle originali, sontuose immagini che illustravano appunto la vita di Sayat-Nova, l’ultimo degli ashug d’Armenia, i trovatori-cantastorie che vivevano presso le corti principesche del Caucaso e cantavano fatti d’arme e imprese mirabili, ma soprattutto donne bellissime dalle forme conturbanti, paragonate a ogni albero o fiore del creato, di fronte alle quali il poeta poteva soltanto mostrare venerazione e gemere d’amore, come di fronte a una presenza abbagliante.

Mentre le scene lentamente fluivano, una dopo l’altra, secondo il loro ritmo e le loro affinità misteriose, ci pareva di essere immersi in una magia irreale e quasi contemplativa. Con grande originalità il regista era riuscito a legare fra loro, in quelle immagini folgoranti e squisite, poesia e musica: il ritmo dei versi sembrava essersi riversato in suono e visione, esercitando su noi spettatori una suggestione quasi ipnotica.

Ma adesso è finalmente stato pubblicato in italiano l’intero Canzoniere armeno di Sayat-Nova (vissuto circa fra il 1712 e il 1795), con testo a fronte, a cura e nella splendida traduzione di Paola Mildonian: una fatica durata molti anni, per il peculiare originalissimo impasto linguistico dell’autore, che scriveva – indifferentemente in armeno, georgiano, turco azerì –- splendide canzoni per musica, destinate ad essere recitate con l’accompagnamento di uno strumento, soprattutto l’amato kamancià. Il loro ritmo ondeggiante, i ritornelli e le variazioni sul tema, giocati in strofe sempre più drammatiche dall’inizio alla fine, creano effetti di profonda, raffinata intensità, fino all’ultima strofa, quando inevitabilmente compare, parlando di sé in terza persona, l’autore-protagonista, raffigurato come l’umile amante che prega, contempla, si dispera.

Sayat-Nova (il suo nome di battesimo era Harutiun, che vuol dire Resurrezione), era raffinato musicista oltre che poeta. L’ottima introduzione della curatrice, oltre ai dettagli di una vita avventurosa, che alterna periodi di grande successo – come ashug di corte dei sovrani di Georgia – ad anni di persecuzione e di sfortuna, offre un’esauriente analisi del personaggio e dell’ambiente dove è vissuto, dagli anni della sua formazione musicale e artistica fino al periodo finale come monaco. Da un suo poema autobiografico si dipana un racconto straordinario: dopo l’apprendistato come sarto, diventa mercante (o militare) e intorno ai vent’anni viaggia in Abissinia e in India, ma, curiosamente, impara a scrivere solo a sedici, ed è a venticinque che ha la sua prima rivelazione di estasi poetico-amorosa, scoprendo il suo vero talento.

È un poeta originale e complesso, che riassume in sé l’ultimo fiore dell’arte trobadorica del Caucaso, giocando su un articolatissimo sistema di rimandi linguistici, strofici, poetici verso tutte le tradizioni orientali. Molto presenti gli echi della lirica persiana, con le sue immagini fissate come icone immediatamente percepibili e allusive: la rosa, il giardino chiuso, l’accecamento amoroso, lo specchio, le tenebre. Ogni lirica era accompagnata dalla musica, ne prendeva luce e gliene dava: perché non esiste poesia, dice Sayat-Nova, senza il suono di strumenti come il kamancià, il suo preferito: il poeta-cantastorie deve essere anche provetto musicista. Il ritmo nascosto di una poesia deve echeggiare nella musica, ogni parola deve legarsi a quelle che la precedono e la seguono, quasi dissolvendosi in esse, come un tassello di mosaico o un’esatta pennellata.

Sayat-Nova scriveva in diverse lingue, ma la musica era la stessa, e nelle corti come nei mercati e lungo le strade d’Oriente tutti gli ascoltatori si riconoscevano in una comune civiltà e cultura, ritrovavano i simboli dell’esperienza amorosa – e di quella mistica – unite in un doloroso vagheggiamento dell’irraggiungibile: «Se pure ti lodasse il mondo intero, non direbbe di te in minima parte. / Ninfea, fiore dei mari, viola che si è dischiusa al vento, / come resistere al tuo amore? L’acqua si porti via Sayat-Nova. / Chi t’ha visto più di una volta dissennato hai reso e demente». Colori, odori, suoni, sete preziose, pietre scintillanti, cipressi e mirti, la rosa rossa e l’usignolo notturno, mostrano un universo in tensione, proteso verso un’impossibile conoscenza d’amore: «Vestita di raso ricco di ricami d’oro fino, slanciato ramo di cipresso, / hai una tazza nella mano, colmala, dammela, a quella coppa m’immolo. / Fai pure a pezzi il tuo Sayat-Nova, purché tu venga nel mio giardino. / Entra nel giardino coi tuoi vezzi, ti loderò col canto, amore, con le implorazioni».

Sayat-Nova «CANZONIERE ARMENO»
Ariele, pagine 214, euro 21

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Schio, tra storia e musica il genocidio armeno (Vicenzareport.it 12.10.16)

Vivere con l’altro, con le sue differenze. Vivere insieme in un mondo sempre meno omogeneo etnicamente e religiosamente, dove i confini diventano lo spazio nel quale affermare la propria identità, spesso andandola a cercare nella negazione dell’altro. Nell’ambito dell’iniziativa culturale “Spazi di confine” del Comune di Schio, Nautilus Cantiere Teatrale propone “Armenia cent’anni fa”, un’occasione di confronto e di crescita culturale attraverso una delle pagine più oscure, e al tempo stesso meno divulgate, della storia del ventesimo secolo.

Tra massacri e deportazioni furono circa un milione e mezzo gli armeni cristiani che persero la vita in uno dei più sanguinosi eccidi dei tempi moderni, che prese avvio nella notte tra il 23 e il 24 aprile del 1915 quando furono eseguiti i primi arresti tra l’élite armena di Costantinopoli. L’obiettivo era la “purificazione” etnica della popolazione dell’Impero Ottomano per ordine dei “Giovani Turchi”. A cent’anni dal Metz Yeghern, il “Grande Male”, due appuntamenti per disserrare dall’oblio la prima di un triste elenco di stragi etniche compiute nel corso del ventesimo secolo.

Il primo evento si svolgerà venerdì 14 ottobre, alle 21, all’interno dello Spazio espositivo Lanificio Conte, a Schio. L’azione teatrale “Non colpevole…! Il dramma del genocidio armeno”, di Adriano Marcolini, autore, regista ma anche interprete dello spettacolo a fianco di Mara Santacatterina e Manuel Bendoni di Nautilus Cantiere Teatrale, porterà sul palcoscenico le sensazioni e le emozioni di chi ha assistito impotente alla scomparsa tragica della propria famiglia, mettendo in evidenza anche le motivazioni alla base di quel genocidio

Lo spettacolo rievoca idealmente lo sviluppo del processo intentato a Berlino, nel 1921, contro Soghomon Tehlirian, uno studente armeno riparato in Germania accusato di aver assassinato l’ex ministro degli interni ottomano, Talaat Pascià. L’omicida è stato arrestato subito dopo aver commesso il delitto ed è reo confesso, ma il processo assumerà via via caratteri inaspettati giungendo, alla fine, ad una sorprendente conclusione.

Venerdì 28 ottobre, alle 21, sempre a Schio, nella Chiesa di San Francesco, andrà in scena il secondo appuntamento, il concerto di musica armena “In memoria di Padre Komitas”, con Giuseppe Dal Bianco (duduk armeno, shofar, flauto traverso, flauti etnici), Giuseppe Laudanna (tastiere), Mauro Lazzaretti (voce recitante). Compositore, etnomusicologo, paleografo musicale, Komitas fu uno dei primi intellettuali armeni ad essere arrestato quella notte di primavera del 1915, vivendo in prima persona la deportazione. Non venne ucciso, si salvò, ma dovette assistere alle peggiori atrocità contro il suo popolo. Considerato il padre della moderna musica armena e uno dei martiri del genocidio, il concerto è dedicato alla sua memoria.

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