In Armenia Francesco sceglie una Dacia Logan (Quattroruote 29.06.16)

Papa Francesco continua a fare notizia mostrandosi in pubblico su auto di uso comune, lontane dalla sfarzosità e dal lusso delle berline di rappresentanza che una volta erano la prassi. Nella sua recente visita in Armenia, infatti, Bergoglio ha utilizzato una Dacia Logan di colore bianco per i suoi spostamenti.

Le altre Papamobili. Prima della Logan, il pontefice si era accomodato sul divano posteriore di modelli Hyundai, Kia e Toyota, mentre per la sua visita in America si era servito di vetture del Gruppo FCA (Fiat, Dodge e Jeep). In particolare avevano fatto il giro del mondo le foto del Pontefice a bordo di una Fiat 500L: l’esemplare in questione era stato poi battuto all’asta per beneficenza, con un incasso di ben 300.000 dollari. Anche in Vaticano Bergoglio ha voluto ridurre al minimo le spese: per spotarsi ha usato più volte una Ford Focus e un Fiat Doblò.

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Negazionismo e Armeni: Riflessioni del professor Angelo Sindoni (Paeseitaliapress.it 29.06.16)

Messina, 25 giugno 2016 – Alcuni avvenimenti di questo mese – e in particolare il viaggio di papa Francesco oggi in Armenia – mi interpellano su quelle che sono state le due passioni (e impegni professionali) che hanno improntato tutta la mia vita, come storico e come giornalista. Due profili che spesso ho cercato di fare “dialogare” tra di loro, e che talora mi hanno spinto a prendere posizione e a fare pubblici interventi. Mi riferisco, in particolare, al “genocidio” degli armeni, stigmatizzato oggi da papa Francesco; questione che, in qualche modo, si può accostare alla legge sul “negazionismo” approvata questo mese dal Parlamento italiano. Questioni attuali e spinosissime che, con evidenza, affondano le loro radici nella storia. Storia e comunicazione della storia; non posso perciò sottrarmi a questo abbinamento di obblighi professionali.

Agli inizi di questo mese la Camera dei deputati ha approvato una legge che colpisce quanti sostengono “la negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, o dei crimini contro l’umanità o dei crimini di guerra”. Questa legge, com’è noto, ha avuto un percorso accidentato e parecchi Paesi – come l’Inghilterra, l’Irlanda, l’Olanda, Danimarca, Svezia – si sono rifiutati di adottarla, nonostante le pressioni della Commissione Europea. Parecchi storici, anche in Italia, hanno manifestato le loro perplessità e, personalmente, sono tra i pochi che circa due anni fa hanno preso pubblicamente posizione in tempo reale, cioè quando la proposta di legge veniva discussa in Senato e in Commissione Giustizia; nel novembre 2013 ho pubblicato un articolo sul quotidiano “Gazzetta del Sud”, che circa due settimane fa ho riproposto all’associazione di storici (cui faccio capo), perché parecchi colleghi sembravano aver perso memoria del dibattito che a suo tempo c’era stato. Adesso ripropongo l’articolo anche a voi perché a distanza di due anni, e a cose fatte, mi sento di poter confermare quanto scrivevo allora, ma con una nota di scetticismo in più; e cioè sulla superficialità della nostra rappresentanza politica che ripete, come un pappagallo, quanto è stato fatto (malamente) altrove. E con un’aggravante: all’eccessivo come chiamarlo (“formalismo giuridico”) si unisce oggi un “uso civile” della storia desolante e quasi nullo. In altri termini non è solo un problema di “negazionismo” ma di più generale emarginazione della storia come scienza etico-politica del Paese. L’abbassamento della coscienza etica crea un vuoto che le “leggi” non possono riuscire a colmare. Noi dell’UCSI, che abbiamo fatto dell’etica civile e dell’etica professionale la nostra bandiera, dobbiamo riflettere molto su questi temi. Di esempi recenti negativi, ne possiamo trovare a piene mani. Per esempio sul problema del confine vita / morte si vuole demandare tutto alle leggi (che comunque bisogna fare) mentre, nel mondo cristiano, si era ben consapevoli di questo confine; addirittura nel mondo antico si era coscienti che nel cuore dell’uomo c’è una legge “non scritta ma chiara”: l’Antigone di Sofocle sa bene cosa fare di fronte alla morte del fratello e non ha bisogno delle leggi dello Stato, perché c’è una legge anteriore scolpita nel cuore dell’essere umano.

Tornando alla questione armena – che oggi papa Francesco ha interpretato con straordinaria modernità – alcuni organi di informazione (anche televisivi) hanno intitolato “Una strage dimenticata”. Non è un titolo errato, ma c’è un aggettivo che non esprime adeguatamente la realtà, come dovrebbe fare un buon giornalista. “Dimenticata” fa pensare all’oblio, magari inconsapevole. Bisognava titolare, invece secondo me, una strage “ rimossa”; perché chi voleva, aveva tutti gli strumenti per informarsi (come dovrebbe fare un buon giornalista) e non da ora. Ho abbastanza anni sulle spalle per ricordare perfettamente che sul finire degli anni Cinquanta è cominciato a circolare un libro che riuscì a procurarsi anche un ragazzo di provincia come me: “ I quaranta giorni del Mussa Dagh”, un romanzo storico di Franz Werfel (pubblicato nella Collana economica dei “libri del Pavone” di Mondadori), in cui c’erano tutti gli elementi per informarsi sullo sterminio dei cristiani armeni. Se questo libro riusciva a procurarselo (e a leggerlo) un adolescente come me (avevo all’incirca 16-17 anni), chissà quanti altri (giornalisti, storici…) più bravi di me lo hanno potuto fare!! Però questo capitolo di storia per diversi anni non ha fatto notizia. Purtroppo il sistema dell’informazione (allora come oggi) preferisce il conformismo, preferisce seguire gli “idola fori”, dare sempre la stessa notizia commentandola in mille salse. Subentra allora il problema dell’etica professionale per noi particolarmente acuto. Non solo. Come ci ha insegnato Benedetto XVI con il libro “Gesù di Nazaret” (II), la “non conoscenza” è la madre di molti mali. Perciò non solo per gli storici ma anche per i giornalisti c’è il dovere morale e professionale di dare le notizie non in modo epidermico, ma sforzarsi di conoscere e far conoscere il retroterra più autentico; come ci ha indicato il cardinale Parolin al Congresso di Matera: “non dobbiamo arrivare primi, ma dobbiamo arrivare meglio”.

Perciò auspico che i particolari eventi di questo mese – che hanno trovato un autorevole epilogo nel discorso di papa Francesco oggi in Armenia – possano servire a noi da lezione e da stimolo per esercitare sempre meglio la professione di giornalisti.

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Meloni: follia far entrare in UE Turchia che nega genocidio armeno Stadio24.com 29.06.16)

È il suggerimento di papa Francesco alla luce del risultato del Referendum che ha decretato la scorsa settimana la fuoriuscita del Regno Unito dall’Ue (Brexit).

Il dissenso della Turchia nei confronti di Papa Francesco, nasce dalla sua visita a Yerevan, durante la quale il Papa ha definito un “genocidio” il massacro degli armeni sotto l’impero ottomano nel 1915.

Il viaggio del Papa in Armenia, dunque, al di là dei suoi significati e dei suoi contenuti prettamente dogmatici, viene ad assumere così una prospettiva di ben più grande respiro: è il ricongiungimento con quella Cristianità primigenia della prima Chiesa che, benchè discostatasi nel corso dei secoli dal cammino intrapreso dalla Chiesa Romana e Mariana, ha mantenuto delle peculiarità di origine che in fondo la legano alla fede cattolica nel sentire religioso, nella visione del mondo e nella percezione dei valori.

Il Papa – ha aggiunto il rev. Martin – è corretto, perché il perdono è una parte essenziale della vita cristiana e perché nella chiesa le persone LGBT si sentono emarginate”. E Benedetto è nel monastero, pregando.

Ankara ha sempre respinto con forza questa definizione, affermando che turchi e armeni erano stati vittime di una tragedia collettiva molto più vasta. Con una persona omosessuale “che ha buona volontà, che cerca Dio, chi siamo noi per giudicare?“. Benedetto XVI è Papa emerito.

Il Papa e il papato “portano ancora tracce di mentalità da crociata”.

“Non ho letto le dichiarazioni, non ho avuto tempo per vedere queste cose”, ha premesso Francesco. Per il mio passato con questa parola, per averla già usata pubblicamente, sarebbe suonato molto strano se non l’avessi usata in Armenia. Dobbiamo chiedere scusa per non aver accompagnato tante famiglie. L’ho detto nel mio primo viaggio e lo ripeto, anzi ripeto il Catechismo della Chiesa cattolica: i gay non vanno discriminati, devono essere rispettati, accompagnati pastoralmente.

Nel testo, in cui si fa riferimento agli ultimi scontri tra Armenia e Azerbaigian nell’enclave di Nagorno Karabakh, il ministero accusa Bergoglio “di aderire incondizionatamente” alla visione di Armenia, dice, “non corrisponde né alla verità storica né alla legalità”.

“C’è un’aria di divisione – ha esordito – non solo in Europa“.

Passaggio interessante anche sul ruolo delle donne nella Chiesa: ” I media hanno scritto: “La Chiesa apre alle diaconesse”. Ho chiesto dei nomi per fare una commissione, e adesso è lì sulla mia scrivania, sto per farla. Non ho mai dimenticato il discorso che fece ai cardinali il 28 febbraio di tre anni fa: “tra voi di sicuro c’è il mio successore, a lui prometto obbedienza”. Per me la funzione della donna non è tanto importante quanto il pensiero della donna: la donna pensa in un altro modo rispetto a noi, gli uomini.

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IL TESTO INTEGRALE DELLA CONFERENZA STAMPA DI BERGOGLIO SUL VOLO DI RITORNO DALL’ARMENIA

Pubblichiamo il testo integrale della conferenza stampa di Papa Francesco durante il volo di ritorno dall’Armenia

Padre Lombardi:
Santo Padre, grazie mille di essere qui al termine di questo viaggio abbastanza breve ma molto intenso. Siamo stati contenti di accompagnarLa e adesso vogliamo farLe ancora, come al solito, un poco di domande, approfittando della Sua gentilezza. Abbiamo una lista di persone che sono qui iscritte a parlare, e possiamo incominciare, come al solito, con i colleghi dell’Armenia, perché diamo a loro la priorità. Il primo è Arthur Grygorian, della televisione pubblica armena.


Papa Francesco:
Buona sera! Vi ringrazio tanto per l’aiuto in questo viaggio e per tutto il vostro lavoro che fa bene alla gente: comunicare bene le cose vuol dire buone notizie, e le buone notizie fanno bene sempre. Grazie tante, grazie.

Arthur Grygorian, televisione pubblica armena:
(in inglese) Santo Padre, è risaputo che Lei abbia amici armeni. Lei aveva già contatti con le comunità armene in Argentina. Nel corso degli ultimi tre giorni, Lei – per così dire – è arrivato a toccare lo spirito armeno. Quali sono i Suoi sentimenti, le Sue impressioni, e qual è il messaggio per il futuro, le Sue preghiere per noi armeni?

Papa Francesco:
Bene, pensiamo al futuro e poi andiamo al passato. Io auguro a questo popolo la giustizia e la pace. E prego per questo, perché è un popolo coraggioso. E prego perché trovi la giustizia e la pace. Io so che tanti lavorano per questo. E io sono stato anche molto contento, la settimana scorsa, quando ho visto una fotografia del Presidente Putin con i due Presidenti armeno e azero: almeno si parlano. E anche con la Turchia: il Presidente della Repubblica [Armena] nel suo discorso di benvenuto ha parlato chiaro; ha avuto il coraggio di dire: “Mettiamoci d’accordo, perdoniamoci e guardiamo al futuro”. Questo è un coraggio grande! Un popolo che ha sofferto tanto! L’icona del popolo armeno – e questo pensiero mi è venuto oggi mentre pregavo un po’ – è una vita di pietra e una tenerezza di madre. Ha portato croci, ma croci di pietra –si vedono anche [le caratteristiche croci di pietra dette khachkar] –; ma non ha perso la tenerezza, l’arte, la musica, quei “quarti toni” tanto difficili da capire, e con grande genialità… Un popolo che ha sofferto tanto nella sua storia, e soltanto la fede, la fede lo ha mantenuto in piedi. Perché il fatto che sia stata la prima nazione cristiana, questo non è sufficiente; è stata la prima nazione cristiana perché il Signore l’ha benedetta, perché ha avuto i santi, ha avuto vescovi santi, martiri… E per questo si è formato nella sua resistenza quella “pelle di pietra” – diciamo così –, ma non ha perso la tenerezza di un cuore materno; e l’Armenia è anche madre. Questa era la seconda domanda. E veniamo alla prima, adesso. Sì, io avevo tanti contatti con gli armeni, andavo spesso da loro alle Messe; tanti amici armeni; o una cosa che di solito non mi piace fare per riposo, ma andavo a cena con loro, e voi fate cene pesanti! Ma sono molto amico, molto amico sia dell’arcivescovo Kissag Mouradian, della Chiesa Apostolica, sia di Boghossian, quello cattolico. Ma fra voi, più importante dell’appartenenza alla Chiesa Apostolica o alla Chiesa Cattolica, è l’“armenità”, e questo io l’ho capito in quei tempi. Oggi mi ha salutato un argentino di famiglia armena che, quando andavo alle Messe, sempre l’Arcivescovo lo faceva sedere accanto a me perché mi spiegasse alcune cerimonie o alcune parole che io non capivo.

Padre Lombardi:
Grazie mille, Santo Padre. Adesso diamo la parola a un’altra rappresentante armena che è la signora Jeanine Paloulian, di “Nouvelles d’Arménie”.

Jeanine Paloulian, “Nouvelles d’Arménie”:
(in francese) Grazie, Santo Padre. Ieri sera, all’incontro ecumenico di preghiera, Lei ha chiesto ai giovani di essere artefici della riconciliazione con la Turchia e con l’Azerbaigian. Vorrei chiederLe semplicemente – visto che tra qualche settimana Lei andrà in Azerbaigian – cosa Lei, cosa la Santa Sede può fare concretamente per aiutarci, per aiutarci a procedere. Quali sono i segni concreti. Lei ne ha fatti in Armenia. Quali sono i segni che Lei farà, domani, in Azerbaigian?

Papa Francesco:
Io parlerò agli azeri della verità, di quello che ho visto, di quello che sento. E incoraggerò anche loro. Io ho incontrato il Presidente azero e ho parlato con lui. E dirò anche che non fare la pace per un pezzettino di terra – perché non è una gran cosa – significa qualcosa di oscuro… Ma lo dico a tutti, questo: agli armeni e agli azeri. Forse non si mettono d’accordo sulle modalità di fare la pace, e su questo si deve lavorare. Ma di più non so cosa dire. Dirò quello che al momento mi viene nel cuore, ma sempre in positivo, cercando di trovare soluzioni che siano percorribili, che portino avanti.

Padre Lombardi:
Grazie mille. E adesso diamo la parola a Jean-Louis de la Vaissière, di “France Presse”. Credo che sia l’ultimo viaggio che fa con noi. Quindi siamo contenti di dargli la parola.

Jean-Louis de la Vaissière, “France Presse”:
Santo Padre, prima di tutto vorrei ringraziarLa da parte mia e da parte di Sébastien Maillard di “La Croix”. Noi andiamo via da Roma e volevamo di cuore ringraziare per questo soffio di primavera che soffia sulla Chiesa. Poi avevo una domanda: perché Lei ha deciso di aggiungere apertamente la parola “genocidio” nel suo discorso al Palazzo presidenziale? Su un tema doloroso come questo, pensa che sia utile per la pace in questa regione complicata?

Papa Francesco:
Grazie. In Argentina, quando si parlava dello sterminio armeno, si usava sempre la parola “genocidio”. Io non ne conoscevo un’altra. E nella cattedrale di Buenos Aires, sul terzo altare a sinistra abbiamo messo una croce di pietra a ricordo del “genocidio armeno”. E’ venuto l’Arcivescovo, i due Arcivescovi armeni, quello cattolico e quello apostolico, e l’hanno inaugurata. Inoltre, l’Arcivescovo apostolico nella chiesa cattolica di San Bartolomeo – un’altra [chiesa] – ha fatto un altare in memoria di San Bartolomeo [evangelizzatore dell’Armenia]. Ma sempre…, io non conoscevo un’altra parola. Io vengo con questa parola. Quando arrivo a Roma, sento l’altra parola, “il Grande Male” o “la tragedia terribile”, in lingua armena [Metz Yeghern], che non so pronunciare. E mi dicono che quella del genocidio è offensiva, che si deve dire questa. Io sempre ho parlato dei tre genocidi del secolo scorso, sempre tre. Il primo, quello armeno; poi, quello di Hitler; e l’ultimo, quello di Stalin. I tre. Ce ne sono altri più piccoli. Ce n’è stato un altro in Africa [Rwanda]. Ma nell’orbita delle due grandi guerre, sono questi tre. E ho domandato, perché qualcuno dice: “Alcuni pensano che non è vero, che non è stato un genocidio”. Un altro mi diceva – un legale mi ha detto questo, che mi ha interessato tanto –: “La parola genocidio è una parola tecnica, è una parola che ha una tecnicità, che non è sinonimo di sterminio. Si può dire sterminio, ma dichiarare un genocidio comporta azioni di risarcimenti e cose del genere”. Questo mi ha detto un legale. L’anno scorso, quando preparavo il discorso [per la celebrazione del 12 aprile 2015 a Roma], ho visto che san Giovanni Paolo II ha usato la parola, le ha usate tutt’e due: “il Grande Male” e “genocidio”. E io ho citato tra virgolette questa. E non è caduta bene: è stata fatta una dichiarazione del governo turco; la Turchia in pochi giorni ha richiamato ad Ankara l’Ambasciatore – che è un bravo uomo, un ambasciatore “di lusso” ci ha inviato la Turchia! – è tornato due o tre mesi fa… E’ stato un “digiuno diplomatico”… Ma ne ha il diritto: il diritto alla protesta l’abbiamo tutti. E in questo discorso [in Armenia], all’inizio non c’era la parola, questo è vero; e rispondo sul perché io l’ho aggiunta. Dopo aver sentito il tono del discorso del Presidente, e anche con il mio passato riguardo a questa parola, e dopo aver detto questa parola l’anno scorso in San Pietro, pubblicamente, sarebbe suonato molto strano non dire lo stesso, almeno. Ma lì io volevo sottolineare un’altra cosa, e credo – se non sbaglio – che ho detto: “In questo genocidio, come negli altri due, le grandi potenze internazionali guardavano da un’altra parte”. E questa è stata l’accusa. Nella Seconda Guerra Mondiale, alcune potenze avevano le fotografie delle ferrovie che portavano a Auschwitz: avrebbero avuto la possibilità di bombardare, e non l’hanno fatto. E’ un esempio. Nel contesto della Prima Guerra, dove c’è stato il problema degli armeni, e nel contesto della Seconda Guerra, dove c’è stato il problema di Hitler e Stalin, e dopo Yalta i lager e tutto questo, nessuno parla? Si deve sottolineare questo, e fare la domanda storica: perché non avete fatto questo? Voi potenze – non accuso, faccio una domanda. E’ interessante: si guardava, sì, alla guerra, a tante cose, ma quel popolo… E, non so se è vero, ma mi piacerebbe vedere se è vero, che quando Hitler perseguitava tanto gli ebrei, una delle cose che lui avrebbe detto è: “Ma chi si ricorda oggi degli armeni? Facciamo lo stesso con gli ebrei!”. Non so se è vero, forse è una diceria, ma io ho sentito dire questo. Gli storici cerchino e vedano se è vero. Credo di avere risposto. Ma questa parola, mai io l’ho detta con animo offensivo, piuttosto oggettivamente.

Padre Lombardi:
Grazie mille, Santità. Ha toccato un argomento delicato, con grande sincerità e profondità. Adesso diamo la parola a Elisabetta Piqué che, come Lei sa, è dell’Argentina, de “La Nación”.

Elisabetta Piqué, “La Nación”:
(in spagnolo) Complimenti, prima di tutto, per il viaggio. Vorrei chiederLe: sappiamo che Lei è il Papa, ma c’è anche Papa Benedetto, il Papa emerito. Ultimamente ci sono state delle voci, una dichiarazione del Prefetto della Casa Pontificia, mons. Georg Gänswein, che avrebbe detto che ci sarebbe un ministero petrino condiviso – se non mi sbaglio – con un Papa attivo e un altro contemplativo. Ci sono due Papi?

Papa Francesco:
(in spagnolo) C’è stata un’epoca nella Chiesa in cui ce ne sono stati tre! (ripete in italiano) In un certo periodo, nella Chiesa, ce n’erano tre! Io non ho letto quella dichiarazione perché non ho avuto tempo. Benedetto è Papa emerito. Lui ha detto chiaramente, quell’11 febbraio, che dava le sue dimissioni a partire dal 28 febbraio, che si sarebbe ritirato per aiutare la Chiesa con la preghiera. E Benedetto è nel monastero, e prega. Io sono andato a trovarlo tante volte, o al telefono… L’altro giorno mi ha scritto una letterina – ancora firma con quella firma sua – facendomi gli auguri per questo viaggio. E una volta – non una volta, parecchie volte – ho detto che è una grazia avere a casa il “nonno” saggio. Anche davanti a lui l’ho detto, e lui ride. Ma lui per me è il Papa emerito, è il “nonno” saggio, è l’uomo che mi custodisce le spalle e la schiena con la sua preghiera. Mai dimentico quel discorso che ci ha fatto, ai Cardinali, il 28 febbraio: “Uno di voi sicuramente sarà il mio successore. Prometto obbedienza”. E lo ha fatto. Poi ho sentito – ma non so se è vero questo – sottolineo: ho sentito, forse saranno dicerie, ma concordano con il suo carattere, che alcuni sono andati lì a lamentarsi perché “questo nuovo Papa…”, e lui li ha cacciati via! Con il migliore stile bavarese: educato, ma li ha cacciati via. E se non è vero, è ben trovato, perché quest’uomo è così: è un uomo di parola, un uomo retto, retto, retto! Il Papa emerito. Poi, non so se Lei si ricorda, che io ho ringraziato pubblicamente – non so quando, ma credo durante un volo – Benedetto per aver aperto la porta ai Papi emeriti. 70 anni fa i vescovi emeriti non esistevano; oggi ce ne sono. Ma con questo allungamento della vita, si può reggere una Chiesa a una certa età, con acciacchi, o no? E lui, con coraggio – con coraggio! – e con preghiera, e anche con scienza, con teologia, ha deciso di aprire questa porta. E credo che questo sia buono per la Chiesa. Ma c’è un solo Papa. L’altro… o forse – come per i vescovi emeriti – non dico tanti, ma forse potranno essercene due o tre, saranno emeriti. Sono stati [Papi], [ora] sono emeriti. Dopodomani si celebra il 65° anniversario della sua ordinazione sacerdotale. Ci sarà il suo fratello Giorgio [questa presenza non è stata confermata], perché tutti e due sono stati ordinati insieme. E ci sarà un piccolo atto, con i Capi Dicastero e poca gente, perché lui preferisce… Ha accettato, ma molto modestamente; e anch’io ci sarò. E dirò qualche cosa a questo grande uomo di preghiera, di coraggio che è il Papa emerito – non il secondo Papa – che è fedele alla sua parola e che è un uomo di Dio. E’ molto intelligente, e per me è il nonno saggio a casa.

Padre Lombardi:
Adesso diamo la parola ad Alexej Bukalov, che è uno dei nostri decani e che – come Lei ben sa – rappresenta Itar-Tass, e quindi la cultura russa fra noi.

Papa Francesco:
Ha parlato russo in Armenia?

Alexej Bukalov – Itar-Tass:
Sì, con grande piacere. La ringraziamo sempre… Grazie, Santità, grazie per questo viaggio, che è il primo viaggio sul territorio ex-sovietico. Per me era molto importante seguirlo… La mia domanda va un po’ fuori da questo argomento: io so che Lei ha incoraggiato molto questo Concilio Panortodosso, addirittura all’incontro con il Patriarca Kirill a Cuba è stato menzionato come auspicio. Adesso Lei che giudizio ha su questo – diciamo – forum? Grazie.

Papa Francesco:
Un giudizio positivo! È stato fatto un passo avanti: non con il cento per cento, ma un passo avanti. Le cose che hanno giustificato, fra virgolette, [le assenze] sono sincere per loro, sono cose che con il tempo si possono risolvere. Volevano – i quattro che non sono andati – farlo un po’ più avanti. Ma credo che il primo passo si fa come si può. Come i bambini, quando fanno il primo passo lo fanno come possono: il primo lo fanno come i gatti e poi fanno i primi passi. Io sono contento. Hanno parlato di tante cose. Credo che il risultato sia positivo. Il solo fatto che queste Chiese autocefale si siano riunite, in nome dell’Ortodossia, per guardarsi in faccia, per pregare insieme e parlare e forse dire qualche battuta, ma questo è positivissimo. Io ringrazio il Signore. Al prossimo saranno di più. Benedetto sia il Signore!

Padre Lombardi:
Grazie Santità. Adesso passiamo il microfono a Edward Pentin, che rappresenta un po’ la lingua inglese: questa volta National Catholic Register.

Edward Pentin – National Catholic Register:
Santo Padre, come Giovanni Paolo II Lei sembra essere un sostenitore dell’Unione Europea: ha elogiato il progetto europeo quando recentemente ha ricevuto il Premio Carlo Magno. Lei è preoccupato del fatto che Brexit potrebbe portare alla disintegrazione dell’Europa ed eventualmente alla guerra?

Papa Francesco:
La guerra già c’è in Europa! Poi c’è un’aria di divisione, e non solo in Europa, ma dentro gli stessi Paesi. Si ricordi della Catalogna, l’anno scorso la Scozia… Queste divisioni non dico che siano pericolose, ma dobbiamo studiarle bene e, prima di fare un passo avanti per una divisione, parlare bene fra di noi e cercare soluzioni percorribili. Io davvero non so, non ho studiato quali siano i motivi perché il Regno Unito abbia voluto prendere questa decisione. Ma ci sono decisioni – e credo che questo l’ho già detto una volta, non so dove, ma l’ho detto – di indipendenza, che si fanno per emancipazione. Per esempio, tutti i nostri Paesi latinoamericani, anche i Paesi dell’Africa, si sono emancipati dalle corone di Madrid, di Lisbona; anche in Africa: da Parigi, Londra; da Amsterdam, l’Indonesia soprattutto… L’emancipazione è più comprensibile, perché c’è dietro una cultura, un modo di pensare. Invece la secessione di un Paese – ancora non sto parlando della Brexit –, pensiamo alla Scozia, è una cosa che ha preso il nome – e questo lo dico senza offendere, usando quella parola che i politici usano – di “balcanizzazione” – senza sparlare dei Balcani! E’ un po’ una secessione, non è emancipazione, e dietro ci sono storie, culture, malintesi; anche tanta buona volontà in altri. Questo bisogna averlo chiaro. Per me sempre l’unità è superiore al conflitto, sempre! Ma ci sono diverse forme di unità; e anche la fratellanza – e qui arrivo all’Unione Europea – è migliore dell’inimicizia o delle distanze. Rispetto alle distanze – diciamo – la fratellanza è migliore. E i ponti sono migliori dei muri. Tutto questo ci deve far riflettere. E’ vero, un Paese [dice]: “Io sono nell’Unione Europea, ma voglio avere certe cose che sono mie, della mia cultura…”. E il passo – e qui vengo al Premio Carlo Magno – che deve fare l’Unione Europea per ritrovare la forza che ha avuto nelle sue radici è un passo di creatività e anche di “sana disunione”: cioè dare più indipendenza, dare più libertà ai Paesi dell’Unione. Pensare un’altra forma di unione, essere creativi. Creativi riguardo ai posti di lavoro, all’economia. C’è un’economia “liquida” oggi in Europa che fa – per esempio in Italia – che la gioventù dai 25 anni in giù non abbia lavoro: il 40 per cento! C’è qualcosa che non va in quell’Unione massiccia… Ma non buttiamo il bambino con l’acqua sporca dalla finestra! Cerchiamo di riscattare le cose e ri-creare… Perché la ri-creazione delle cose umane – anche della nostra personalità – è un percorso, e sempre si deve fare. Un adolescente non è lo stesso della persona adulta o della persona anziana: è lo stesso e non è lo stesso, si ri-crea continuamente. E questo gli dà vita e voglia di vivere, e dà fecondità. E questo lo sottolineo: oggi le due parole-chiave per l’Unione Europea sono creatività e fecondità. E’ la sfida. Non so, la penso così.

Padre Lombardi:
Grazie Santità. Allora adesso diamo la parola a Tilmann Kleinjung, che è di Adr, la radio nazionale tedesca. Anche per lui credo sia l’ultimo viaggio… Quindi siamo lieti di dargli questa possibilità.

Tilmann Kleinjung – Adr:
Sì, anch’io sono in partenza per la Baviera. Grazie per poter fare questa domanda. “Zu viel Bier, zu viel Wein”. Heiliger Vater, io volevo farLe una domanda: Lei oggi ha parlato dei doni condivisi delle Chiese, insieme. Visto che Lei andrà – fra quattro mesi – a Lund per commemorare il 500° anniversario della Riforma, io penso che forse questo è il momento giusto anche per non ricordare solo le ferite da entrambe le parti, ma anche per riconoscere i doni della Riforma, e forse anche – e questa è una domanda eretica – per annullare o ritirare la scomunica di Martin Lutero o di una qualsiasi riabilitazione. Grazie.

Papa Francesco:
Io credo che le intenzioni di Martin Lutero non fossero sbagliate: era un riformatore. Forse alcuni metodi non erano giusti, ma in quel tempo, se leggiamo la storia del Pastor, per esempio – un tedesco luterano che poi si è convertito quando ha visto la realtà di quel tempo, e si è fatto cattolico – vediamo che la Chiesa non era proprio un modello da imitare: c’era corruzione nella Chiesa, c’era mondanità, c’era attaccamento ai soldi e al potere. E per questo lui ha protestato. Poi era intelligente, e ha fatto un passo avanti giustificando il perché faceva questo. E oggi luterani e cattolici, con tutti i protestanti, siamo d’accordo sulla dottrina della giustificazione: su questo punto tanto importante lui non aveva sbagliato. Lui ha fatto una “medicina” per la Chiesa, poi questa medicina si è consolidata in uno stato di cose, in una disciplina, in un modo di credere, in un modo di fare, in modo liturgico. Ma non era lui solo: c’era Zwingli, c’era Calvino… E dietro di loro chi c’era? I principi, “cuius regio eius religio”. Dobbiamo metterci nella storia di quel tempo. E’ una storia non facile da capire, non facile. Poi sono andate avanti le cose. Oggi il dialogo è molto buono e quel documento sulla giustificazione credo che sia uno dei documenti ecumenici più ricchi, più ricchi e più profondi. E’ d’accordo? Ci sono divisioni, ma dipendono anche dalle Chiese. A Buenos Aires c’erano due chiese luterane: una pensava in un modo e l’altra in un altro. Anche nella stessa Chiesa luterana non c’è unità. Si rispettano, si amano… La diversità è quello che forse ha fatto tanto male a tutti noi e oggi cerchiamo di riprendere la strada per incontrarci dopo 500 anni. Io credo che dobbiamo pregare insieme, pregare. Per questo la preghiera è importante. Secondo: lavorare per i poveri, per i perseguitati, per tanta gente che soffre, per i profughi… Lavorare insieme e pregare insieme. E che i teologi studino insieme, cercando… Ma questa è una strada lunga, lunghissima. Una volta ho detto scherzando: “Io so quando sarà il giorno dell’unità piena” – “Quale?” – “Il giorno dopo la venuta del Figlio dell’uomo!”. Perché non si sa… Lo Spirito Santo farà questa grazia. Ma nel frattempo bisogna pregare, amarci e lavorare insieme, soprattutto per i poveri, per la gente che soffre, per la pace e tante altre cose, contro lo sfruttamento della gente… Tante cose per le quali si sta lavorando congiuntamente.

Padre Lombardi:
Grazie. Allora adesso diamo la parola a Cécile Chambraud, di “Le Monde”, che rappresenta ancora la lingua francese.

Cécile Chambraud – Le Monde:
(Domanda in spagnolo) Santo Padre, qualche settimana fa, Lei ha parlato di una Commissione per riflettere sulla tematica delle donne diaconesse. Vorrei sapere se già esiste questa Commissione e quali saranno le domande sulle quali rifletterà per essere risolte? E, infine, a volte una Commissione serve per dimenticarsi dei problemi: vorrei sapere se questo è il caso?

Papa Francesco:
C’era un presidente dell’Argentina che diceva, e consigliava agli altri presidenti degli altri Paesi: quando tu vuoi che una cosa non si risolva, fai una commissione! Il primo ad essere sorpreso di questa notizia sono stato io, perché il dialogo con le religiose, che è stato registrato e poi pubblicato su “L’Osservatore Romano”, era un’altra cosa, su questa linea: “Noi abbiamo sentito che nei primi secoli c’erano la diaconesse. Si potrà studiare questo? Fare una commissione?…”. Niente di più. Hanno chiesto, sono state educate, e non solo educate, ma anche amanti della Chiesa, donne consacrate. Io ho raccontato che conoscevo un siriano, un teologo siriano che è morto, quello che ha fatto l’edizione critica di Sant’Efrem in italiano. Una volta, parlando delle diaconesse – quando io venivo, alloggiavo in Via della Scrofa e lui abitava lì – a colazione, mi ha detto: “Sì, ma non si sa bene cosa erano, se avessero l’ordinazione…”. Certamente c’erano queste donne che aiutavano il vescovo; e lo aiutavano in tre cose: la prima, nel Battesimo delle donne, perché c’era il Battesimo per immersione; la seconda, nelle unzioni pre e post battesimali delle donne; e la terza – questo fa ridere – quando c’era la moglie che andava dal vescovo a lamentarsi perché il marito la picchiava, il vescovo chiamava una di queste diaconesse, la quale vedeva il corpo della donna per trovare lividi che provassero queste cose. Ho detto questo. “Si può studiare?” – “Sì, io dirò alla [Congregazione per la] Dottrina della Fede che si faccia questa Commissione”. Il giorno dopo [sui giornali]: “La Chiesa apre la porta alle diaconesse!”. Davvero, mi sono un po’ arrabbiato con i media, perché questo è non dire la verità delle cose alla gente. Ho parlato con il Prefetto della [Congregazione per la] Dottrina della Fede, che mi ha detto: “Guardi che c’è uno studio che ha fatto la Commissione Teologica Internazionale negli anni Ottanta”. Poi ho parlato con la presidente [delle Superiore Generali] e le ho detto: “Per favore, mi faccia arrivare una lista di persone che Lei crede che si possa prendere per fare questa Commissione”. E mi ha inviato la lista. Anche il Prefetto mi ha inviato la lista, e adesso è lì, sulla mia scrivania, per fare questa Commissione. Io credo che si sia studiato tanto sul tema nell’epoca degli anni Ottanta e non sarà difficile far luce su questo argomento. Ma c’è un’altra cosa. Un anno e mezzo fa, io ho fatto una commissione di donne teologhe che hanno lavorato con il Cardinale Ryłko [Presidente del Pontificio Consiglio per i Laici], e hanno fatto un bel lavoro, perché è molto importante il pensiero della donna. Per me la funzione della donna non è tanto importante quanto il pensiero della donna: la donna pensa in un altro modo rispetto a noi uomini. E non si può prendere una buona decisione, buona e giusta, senza sentire le donne. Alcune volte, a Buenos Aires, facevo una consultazione con i miei consultori, li sentivo su un tema; poi facevo venire alcune donne e loro vedevano le cose con un’altra luce, e questo arricchiva tanto, tanto; e poi la decisione era molto, molto feconda, molto bella. Io devo incontrare queste donne teologhe, che hanno fatto un buon lavoro, che si è però fermato. Perché? Perché il Dicastero per i laici adesso cambia, si ristruttura. E io aspetto un po’ che ciò avvenga per continuare questo secondo lavoro, quello delle diaconesse. Un’altra cosa circa le donne teologhe – e questo io vorrei sottolinearlo –: è più importante il modo di capire, di pensare, di vedere le cose delle donne che la funzionalità della donna. E poi ripeto quello che dico sempre: la Chiesa è donna, è “la” Chiesa. E non è una donna “zitella”, è una donna sposata con il Figlio di Dio, il suo Sposo è Gesù Cristo. Pensi su questo e poi mi dice cosa pensa…

Padre Lombardi:
Allora, dato che ha parlato delle donne, facciamo fare un’ultima domanda ad una donna; dopo, ne faccio una e concludiamo…. Così dopo un’ora La lasciamo in pace. Cindy Wooden, che è responsabile di Cns, che è l’Agenzia cattolica degli Stati Uniti.

Cindy Wooden – Cns:
Grazie Santità. Nei giorni scorsi, il Cardinale tedesco Marx, parlando ad una grande conferenza molto importante a Dublino, sulla Chiesa nel mondo moderno, ha detto che la Chiesa cattolica deve chiedere scusa alla comunità gay per aver marginalizzato queste persone. Nei giorni successivi alla strage di Orlando, tanti hanno detto che la comunità cristiana ha qualcosa a che fare con questo odio verso queste persone. Cosa pensa lei?

Papa Francesco:
Io ripeterò la stessa cosa che ho detto nel primo viaggio, e ripeto anche quello che dice il Catechismo della Chiesa Cattolica: che non vanno discriminati, che devono essere rispettati, accompagnati pastoralmente. Si possono condannare, non per motivi ideologici, ma per motivi – diciamo – di comportamento politico, certe manifestazioni un po’ troppo offensive per gli altri. Ma queste cose non c’entrano con il problema: se il problema è una persona che ha quella condizione, che ha buona volontà e che cerca Dio, chi siamo noi per giudicarla? Dobbiamo accompagnare bene, secondo quello che dice il Catechismo. E’ chiaro il Catechismo! Poi ci sono tradizioni in alcuni Paesi, in alcune culture che hanno una mentalità diversa su questo problema. Io credo che la Chiesa non solo debba chiedere scusa – come ha detto quel Cardinale “marxista” [Cardinale Marx] – a questa persona che è gay, che ha offeso, ma deve chiedere scusa anche ai poveri, alle donne e ai bambini sfruttati nel lavoro; deve chiedere scusa di aver benedetto tante armi… La Chiesa deve chiedere scusa di non essersi comportata tante, tante volte… – e quando dico “Chiesa” intendo i cristiani; la Chiesa è santa, i peccatori siamo noi! – i cristiani devono chiedere scusa di non aver accompagnato tante scelte, tante famiglie… Io ricordo da bambino la cultura di Buenos Aires, la cultura cattolica chiusa – io vengo da là! –: da una famiglia divorziata non si poteva entrare in casa! Sto parlando di 80 anni fa. La cultura è cambiata, grazie a Dio. Come cristiani dobbiamo chiedere tante scuse, non solo su questo. Perdono, e non solo scuse! “Perdono, Signore!”: è una parola che dimentichiamo – adesso faccio il pastore e faccio il sermone! No, questo è vero, tante volte il “prete padrone” e non il prete padre, il prete “che bastona” e non il prete che abbraccia, perdona, consola… Ma ce ne sono tanti! Tanti cappellani di ospedali, cappellani dei carcerati, tanti santi! Ma questi non si vedono, perché la santità è “pudorosa” [ha pudore], si nasconde. Invece è un po’ sfacciata la spudoratezza: è sfacciata e si fa vedere. Tante organizzazioni, con gente buona e gente non tanto buona; o gente alla quale tu dai una “borsa” un po’ grossa e guarda dall’altra parte, come le potenze internazionali con i tre genocidi. Anche noi cristiani – preti, vescovi – lo abbiamo fatto questo; ma noi cristiani abbiamo anche una Teresa di Calcutta e tante Terese di Calcutta! Abbiamo tante suore in Africa, tanti laici, tante coppie di sposi santi! Il grano e la zizzania, il grano e la zizzania. Così Gesù dice che è il Regno. Non dobbiamo scandalizzarci di essere così. Dobbiamo pregare perché il Signore faccia in modo che questa zizzania finisca e che ci sia più grano. Ma questa è la vita della Chiesa. Non si può porre un limite. Tutti noi siamo santi, perché tutti noi abbiamo lo Spirito Santo dentro, ma siamo – tutti noi – peccatori. Io per primo. D’accordo? Grazie. Non so se ho risposto… Non solo scusa, ma perdono!

Padre Lombardi:
Santo Padre, mi permetto di fare io un’ultima domanda e poi La lasciamo andare in pace…

Papa Francesco:
Non mi metta in difficoltà….

Padre Lombardi:
Riguarda il prossimo viaggio in Polonia, a cui stiamo già cominciando a prepararci. E Lei vi dedicherà la preparazione in questo mese di luglio. Se ci dice qualcosa sui sentimenti con cui va verso questa Giornata Mondiale della Gioventù, in questo Giubileo della Misericordia. E un altro punto, un po’ specifico, è questo: noi abbiamo visitato con Lei il Memoriale di Tzitzernakaberd, durante la visita in Armenia, e Lei visiterà anche Auschwitz e Birkenau, durante il viaggio in Polonia. Io ho sentito che Lei desidera vivere questi momenti più col silenzio che con le parole, sia come ha fatto qui, forse anche a Birkenau. Quindi volevo chiederle se ci voleva dire se avrebbe fatto lì un discorso o se preferiva, invece, fare un momento di preghiera silenziosa con una sua motivazione specifica.

Papa Francesco:
Due anni fa, a Redipuglia, ho fatto lo stesso per commemorare il centenario della Grande Guerra. A Redipuglia sono andato in silenzio. Poi c’era la Messa e alla Messa ho fatto la predica, ma era un’altra cosa. Il silenzio. Oggi abbiamo visto – questa mattina – il silenzio…. Era oggi? [P. Lombardi: No, ieri] Io vorrei andare in quel posto di orrore senza discorsi, senza gente, soltanto i pochi necessari… Ma i giornalisti è sicuro che ci saranno!… Ma senza salutare questo, questo… No, no. Da solo, entrare, pregare… E che il Signore mi dia la grazia di piangere.

Padre Lombardi:
Grazie Santità. Allora La accompagneremo anche nella preparazione di questo prossimo viaggio e La ringraziamo tantissimo per il tempo che ci ha dedicato. Adesso si riposi un po’, mangi anche Lei… E si riposi anche nel mese di luglio, poi.

Papa Francesco:
Grazie tante! Di nuovo grazie, grazie anche per il vostro lavoro e per la vostra benevolenza.

La rosa bianca di Papa Francesco ai martiri armeni (Teleradiopadrepio.it 28.06.16)

“Fare della memoria un segno di pace”: è questo il messaggio che ci giunge dal viaggio di Papa Francesco in Armenia in ricordo del genocidio del 1915 subito da quel popolo per mano dei Turchi e protrattosi, poi, per oltre un quinquennio con la dispersione di famiglie intere, adulti e bambini in molti paesi del mondo. Lo scorso anno la Chiesa Armena ha santificato un milione e mezzo di quegli uomini, donne e minori che subirono il massacro anche perchè cristiani: essi non rinunciarono mai alla loro fede, come risulta dalle memorie familiari tramandate. La cerimonia in onore dei martiri presso il memoriale a loro dedicato nella Repubblica Armena ha suscitato toni di elevata partecipazione emotiva nei tanti che hanno assistito attraverso la diretta televisiva. La rosa bianca che Francesco ha deposto, poggiandola personalmente a poca distanza dalla fiamma ardente, rimane impressa nella mente, un gesto semplice fatto dal Papa anche in nome di tutti noi che stabilmente ci proponiamo di seguirlo negli insegnamenti. E’ quella armena una Chiesa antica che già nel 301 d.C. fu dichiarata religione di stato, prima che a Roma l’imperatore Costantino avviasse il processo di apertura verso i Cristiani. Analizzando la storia del Cristianesimo, apprendiamo che furono il concilio di Costantinopoli del 448 d.C. e quello di Calcedonia del 451 d.C. a sancire il distacco della Chiesa copta di Egitto ed Etiopia, della giacobitica di Siria e di quella armena gregoriana dalla romana. Infatti una dottrina teologica, che negava la natura umana in Gesù Cristo affermandone l’unica natura divina, si era diffusa nel V – VI secolo ad opera di Eutiche e poi del patriarca di Antiochia Severo. I due concili dichiararono tale dottrina, il monofisismo, eresia. Papa Francesco, sebbene tali divisioni che provengono da lontano, ha abbracciato i fratelli armeni continuando, come aveva fatto lo scorso anno in San Pietro, a definire il loro sterminio come il primo genocidio del XX secolo, a cui poi seguì quello degli Ebrei. Ma in realtà anche nel passato la posizione dei nostri papi era stata molto sensibile alla causa armena, come prova la lettera, consegnata negli scorsi anni da Roma agli Armeni, quale testimonianza di come Benedetto XV fosse intevenuto presso Costantinopoli per tentare di fermare quell’efferato martirio. Egli stesso, d’altra parte, così come il Suo successore Pio XI, accolse anche a Castel Gandolfo bambini e famiglie che erano riusciti a raggiungere l’Italia. Noi cattolici ci sentiamo rincuorati nell’apprendere il comportamento di questi due Papi, che non riuscirono a bloccare la strage, ma che tentarono comunque di muoversi in favore di quei fratelli cristiani lontani, mentre i governanti di tutte le nazioni restavano indifferenti ai fatti, facendo finta di non sapere e di non vedere. Papa Francesco continua la sua opera verso la pace al motto di far leva su ciò che ci unisce per superare ciò che ci divide, o meglio ciò che ci ha diviso e ha dato vita a situazioni di lotta, incomprensioni, scontri e inimicizie nel campo della fede; di una fede che, comunque, è cristiana e si basa sull’essere tutti fratelli e figli della Santissima Trinità. Un profondo e doveroso grazie a Papa Francesco che, da una parte continua a strabiliarci, dall’altra a condurci e rassicurarci con la Sua presenza e con il Suo amore che abbraccia tutti gli uomini del mondo e il mondo stesso come natura mirabile che Dio ha creato e a noi affidato.

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Papa in Armenia: mons. Minassian su genocidio, “la storia è scritta sulle sue pagine. Non c’è nulla da nascondere” (SIR 28.06.16)

La storia, al di là di tutte le autorità umane, è scritta sulle sue pagine dal 1915. Quindi non c’è niente da nascondere”. Risponde così monsignor Raphael Minassian, ordinario per gli armeni dell’Europa dell’Est, alle reazioni diplomatiche che l’utilizzo del termine “genocidio” da parte di Papa Francesco nel suo viaggio in Armenia hanno provocato. “Il Papa – dice il vescovo in una intervista al Sir –  è un uomo molto pragmatico, malgrado la sua posizione come Pontefice. La parola che ha utilizzato, è quella che ha sempre pronunciato fin  da quando era cardinale a Buenos Aires e poi il 12 aprile del 2015. E’ stato lui stesso a spiegarlo. E’ una parola che non cambierà con gli anni, rimane sempre la stessa per indicare la stessa verità. Non può cambiare ad ogni occasione. Utilizzare la stessa parola in diversi discorsi per il Santo Padre è dire una verità che ha pronunciato il 12 aprile 2015 e quando era cardinale. La storia, al di là di tutte le autorità umane, è scritta sulle sue pagine dal 1915 e negli anni in cui si consumava questo genocidio. Quindi non c’è niente da nascondere. Noi che siamo la prima generazione dopo il Genocidio, siamo psicologicamente e profondamente toccati da questa tragedia”. Il fratello del vescovo Minassian è uno dei discendenti del Genocidio che il Papa ha potuto salutare al complesso dedicato alla memoria delle vittime del Metz Yeghérn. “Io non potevo essere lì, perché dovevo aspettare il Papa a Gyumri ma è la storia della mia famiglia perché mio padre è uno dei bambini che è andato in Italia ospite a Castel Gandolfo del Santo Padre. Fu poi seguito dai padre salesiani con i quali è cresciuto, ha studiato e  si è preparato a diventare sacerdote. Ma un anno prima della sua ordinazione, ha conosciuto mia mamma”.

Il Papa è comunque andato in Armenia pellegrino di unità e di pace. “Dal primo giorno che è arrivato qui – sottolinea infatti Minassian -, il Papa non ha cessato di pregare ed invitare tutti per la pace. Sono gli uomini delle grandi potenze a fare la guerra. A loro spetta oggi accogliere questa voce. Perché il Papa non sta compiendo un dovere ma un atto umano per la salvezza dell’umanità, per mettere la pace e vivere sotto gli occhi di Dio. Tutti, anche un contadino, comprendono la portata di questi richiami. Rimangono solo le potenze a capire il suo appello per la pace”.

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Silvard Atajian, 104 anni, una delle poche sopravvissute al massacro armeno (Articolo21.or 26.06.16)

Un milione e mezzo di alberi, un milione e mezzo di morti. Ogni pianta, intorno al Memoriale del genocidio degli armeni sulla collina delle rondini di Yerevan, visitato oggi da Papa Bergoglio, rappresenta una vita strappata per mano dell’esercito turco tra il 1915 e il 1922. Ma i morti di quel genocidio non si possono contare, molti cadaveri non sono mai stati ritrovati: migliaia di armeni furono condotti nei deserti della Mesopotamia per essere definitivamente sterminati. A Deir ez Zor, in Siria, la destinazione finale: anche lì c’è Memoriale – identico a quello di Yerevan – a testimoniare il primo genocidio del Novecento.
Lo ha ribadito più volte, in questi giorni, Papa Francesco, durante il suo viaggio in Armenia. È tornato a pronunciare la parola “genocidio” riferendosi al massacro patito dagli armeni durante l’impero ottomano, anche oggi, da Khor Virap, a poche centinaia di metri dal confine turco. “Edifichiamo ponti”, ha detto, firmando una dichiarazione congiunta con il patriarca Karekin. Parole di pace interpretate come una provocazione da parte di Ankara, indice – secondo il vicepremier turco Canikli – di una “persistente mentalità da Crociate”. Già lo scorso anno, quando il Papa parlò per la pirma volta di genocidio, Erdogan aveva ritirato il suo ambasciatore in Vaticano. La Turchia, a distanza di 100 anni, non è ancora disposta a riconoscere quello stermino, nonostante sia stato definito un crimine contro l’umanità dalle Nazione Unite già nel ’48, poi, nell’87, dal Parlamento europeo e dai parlamenti di vari paesi, l’ultimo, quello tedesco, poche settimane fa.
A Yerevan, il mese scorso, abbiamo incontrato Silvard Atajian, una delle poche sopravvissute a quel massacro di massa. Oggi ha 104 anni, ne aveva soltanto tre anni quando i turchi raggiunsero il villaggio in cui viveva con la sua famiglia, ai piedi del monte Mussa Dagh, sulla costa mediterranea orientale. “Ero molto piccola, ma di quegli anni ricordo la paura, le fughe, le deportazioni, la preoccupazione di mio padre che ci doveva difendere”, racconta mentre apre uno scrigno incastonato di conchiglie che le regalò il marito 85 anni fa. Ci mostra le foto del padre e dello zio che hanno combattuto fino all’ultimo, contro l’esercito ottomano, per portare in salvo la loro famiglia.
I “quaranta giorni del Moussa Dagh” furono uno dei pochi episodi di resistenza attiva da parte degli armeni. Mentre il Movimento dei Giovani Turchi aveva iniziato ad attuare il suo piano di sterminio, la famiglia di Silvard si era organizzata per resistere: “Si sapeva perfettamente che l’esercito turco sarebbe arrivato per deportarci, e non per aiutarci, come aveva fatto credere inizialmente. Da più parti arrivavano voci di come i turchi stavano uccidendo i nostri fratelli armeni. Per questo ci si era attrezzati. Hanno resistito finché non ci venne a salvare una nave francese che ci portò in Egitto. Siamo rimasti lì 5 anni, ma poi abbiamo tentato di tornare in Armenia. Ogni volta che siamo stati costretti a scappare, non è passato un giorno senza che desiderassimo ritornare. È un’istinto, un richiamo profondo che rimbomba sempre nelle orecchie”, continua a raccontare, “Io avevo solo quattro anni, ma ho nitido il ricordo di tutte le deportazioni: prima in Egitto, poi in Siria, ad Aleppo, poi il rimpatrio in Armenia e lì l’esilio sovietico. Anche quelli sotto l’Urss furono anni difficili: Stalin ci considerava pericolosi e ha attuato contro di noi una grandissima repressione. La nostra famiglia fu abbastanza fortunata perché non venne esiliata in Siberia, come accadde invece a molti armeni”.
A Yerevan, pur nelle difficoltà, Silvard ha costruito la propria casa e fatto nascere i suoi cinque figli. Racconta che soltanto uno oggi vive in Armenia, gli altri sono tra l’Europa e gli Stati Uniti. “Se mi guardo indietro non riesco a trovare nessun bel ricordo – dice – ho passato la mia vita a scappare. E nemmeno oggi so in quale parte del mondo siano dispersi i miei cari”. Ad occuparsi di lei, ancora lucidissima, nella piccola casa nella capitale armena, la nipote Nune, che racconta: “Ogni giorno prende tra le mani le foto dei suoi cari, uccisi dall’esercito turco sotto i suoi occhi. Mia nonna sta ancora aspettando la vittoria della giustizia. Vedrà un raggio di sole soltanto quando la Turchia ammetterà le sue colpe e un giorno tutti gli armeni potranno tornare nella loro madre terra”.

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ASIA/TURCHIA – Armeni manifestano per chiedere l’elezione di un nuovo Patriarca (Agenzia Fides 24.06.16)

Istanbul (Agenzia Fides) – Con un’iniziativa senza precedenti, un gruppo di cristiani turchi della Chiesa armena apostolica hanno organizzato una manifestazione di protesta nella giornata di ieri, giovedì 23 giugno, ad Istanbul, davanti alla sede del loro Patriarcato, per chiedere l’elezione di un nuovo Patriarca. L’episodio rivela il grado di tensione vissuto all’interno della comunità armena presente in Turchia, riguardo alla guida del Patriarcato.
Dal 2008 il Patriarca armeno di Costantinopoli, Mesrob II, è stato colpito dal morbo di Alzheimer in una forma che lo ha rapidamente ridotto allo stato vegetativo. Secondo le leggi turche, la carica di Patriarca è a vita, e un nuovo Patriarca armeno non può essere eletto finchè il suo predecessore è ancora vivo. Dal 2008, per l’amministrazione ordinaria del Patriarcato, l’Arcivescovo Aram Atesyan esercita le funzioni patriarcali in qualità di Vicario patriarcale. Ma negli ultimi tempi le critiche e il malessere nei suoi confronti si sono accentuati, soprattutto dopo la lettera da lui inviata al Presidente turco Tayyip Erdogan, in cui il Vicario patriarcale esprimeva il “rammarico suo e degli armeni” per la risoluzione votata dal Parlamento tedesco sul riconoscimento del Genocidio armeno, definito da lui come un tentativo di strumentalizzare le tragedie del popolo armeno per interessi di “politica internazionale” (vedi Fides 14/6/2016).
Secondo un comunicato, pervenuto all’Agenzia Fides, il gruppo di manifestanti ha depositato una corona nera davanti al Patriarcato armeno, con la scritta: “Vogliamo eleggere noi stessi il nostro Patriarca”. Le leggi canoniche in vigore dispongono che l’elezione di un nuovo Patriarca può avvenire solo in caso di morte o di dimissioni volontarie del suo predecessore. (GV) (Agenzia Fides 24/6/2016).

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Viaggio del Papa in Armenia: rassegna stampa completa (dal 23 al 27 giugno 2016)

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>> Visit To The First Christian Nation / Pope Francis (Video) 


 


 




 

Turchia. E’ legge l’immunità all’Esercito (Nena, 25.06.16)

Il parlamento ha passato la proposta che salva militari e membri dei servizi segreti dai processi per abusi contro i civili. Tutto coperto dalla volatile etichetta del “controterrorismo”

Roma, 25 giugno 2016, Nena News – L’immunità ai soldati è legge: la proposta presentata all’inizio di giugno dal Ministero della Difesa è stata approvata ieri dal parlamento turco. Garantisce ai militari impegnati “in operazioni di controterrorismo” una copertura legale nel caso di abusi e crimini commessi durante le azioni sul campo.

L’espressione “controterrorismo” può avere significati ampi, che la politica può arricchire a seconda delle esigenze. Di certo dentro ci finisce la campagna militare in corso a sud est, contro il Pkk, ma soprattutto contro la popolazione civile.Sebbene pochi giorni fa il premier Yildirim parlasse di operazione conclusa, così non è: gli scontri terrestri continuano, come aumentano i villaggi sotto coprifuoco e i raid aerei contro presunte postazioni kurde.

Ora i soldati che commetterranno abusi – le comunità kurde ne hanno pronta una lunga lista: edifici residenziali assediati, utilizzo di armi chimiche, omicidi di civili (oltre 600 quelli accertati), raid indiscriminati in aree residenziali – non subiranno conseguenze. I poteri dell’esercito, così come quelli dei servizi segreti, si ampliano a dismisura. E con loro quelli del presidente Erdogan che sulle forze armate mantiene il controllo: secondo la nuova normativa, spetterà al governo – in particolare il primo ministro – dare il permesso per giudicare soldati sospettati di abusi. Ma anche civili impegnati in attività di controterrorismo, come i funzionari dei servizi segreti.

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