Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha ricevuto una delegazione guidata dal copresidente della commissione di partenariato parlamentare Ue-Armenia, Nils Ushakovs, per discutere delle relazioni bilaterali e delle prospettive di cooperazione. Pashinyan ha evidenziato il dialogo attivo tra Armenia e Unione europea, sottolineando l’importanza delle riforme democratiche nel Paese e del supporto europeo per la loro attuazione. Ha inoltre ribadito il valore degli accordi raggiunti durante l’incontro di alto livello Armenia-Ue-Usa e ha definito positivo il recente colloquio con il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa a Monaco. Tra i temi affrontati, la liberalizzazione dei visti per i cittadini armeni, che secondo Pashinyan favorirebbe lo sviluppo del turismo e maggiori contatti tra le persone. Si è parlato anche della normalizzazione delle relazioni con l’Azerbaigian, del progetto regionale “Crocevia della pace” per il ripristino delle comunicazioni e delle questioni legate alla demarcazione dei confini. Il primo ministro ha infine presentato la strategia del governo per una politica estera equilibrata e liberale e per lo sviluppo del progetto “Vera Armenia”.
Gli irruenti tentativi di Donald Trump di imporre dei cessate il fuoco a Gaza ed in Ucraina mostrano più che mai come questi due teatri di guerra siano intrecciati e si alimentino a vicenda. Il presidente americano sta tentando di imporre un unico grande Patto di Abramo che parte dal Golfo e termina nel Donbass e che vuole ridisegnare i rapporti di forza tra gli attori di queste regioni o che in queste hanno interessi. Ciò che succede in Ucraina ha dirette conseguenze sul Medio Oriente, e viceversa.
Questo grande intreccio tra le guerre, che Papa Francesco ha definito una “guerra mondiale a pezzi”, emerge con chiarezza leggendo “Vite al Fronte” (Rizzoli), l’ultimo libro di Luca Steinmann, in libreria dal 25 febbraio. Reporter di guerra per La7 e Repubblica e analista geopolitico per Limes, Steinmann nel 2022 era stato quasi l’unico giornalista occidentale al seguito delle truppe russe mentre invadevano l’Ucraina, esperienza che lo aveva portato a scrivere “Il Fronte Russo”, diario di guerra in cui racconta le esperienze da lui vissute tra i soldati di Putin. Con “Vite al Fronte” Steinmann continua con il diario di guerra, questa volta non concentrandosi solo sul conflitto russo-ucraino, a cui comunque dedica una parte importante, ma portando il lettore alla scoperta di zone di crisi e di campi di battaglia spesso inesplorati in diverse zone del pianeta: in Israele, in Libano, in Siria, in Turchia, in Giordania, nel Nagorno Karabakh. Raccontando esperienze vissute in prima persona, dà voce senza filtri alle persone che incontra mostrando, attraverso le loro tragiche vite sconvolte dai combattimenti, come i loro destini siano intrecciati tanto quanto lo sono le scelte politiche dei rispettivi governi.
L’intreccio emerge con forza nel conflitto israelo-palestinese. Steinmann incontra gli ebrei russi e ucraini in fuga dall’invasione del 2022, che ha riaperto in loro le ferite della memoria dei pogrom e della Shoah, ereditate dai racconti dei propri padri e dei propri nonni. Fuggiti in Israele, si ritrovano trascinati nella guerra di Gaza e vanno ad abitare dove un tempo abitavano i palestinesi fuggiti durante la Nakba nel 1948. Di questi ultimi Steinmann va a incontrare discendenti, che vivono in tragiche condizioni in Libano e Siria, dove a loro volta subiscono sanguinose guerre alle quali alcuni di loro prendono direttamente parte, arruolandosi nei gruppi armati. E talvolta combattendosi addirittura tra loro. Tutti serbando i ricordi e le paure, tramandate di generazione in generazione, delle tragedie e delle espulsioni subite dai propri genitori e nonni.
Andando a rintracciare le loro storie (insieme a quelle di tanti altri popoli come gli armeni, gli azerbaigiani, i ribelli siriani e quelli che hanno sostenuto Assad, i cristiani del Libano, i giovani sciiti che si arruolano in Hezbollah ed i russi del gruppo Wagner) Steinmann attraversa le guerre raggiungendo zone inesplorate dal resto della stampa. Accompagnandosi a civili e soldati, getta luce senza filtri su ciò che avviene in territori di cui spesso si parla dall’esterno senza però conoscerli da dentro: la quotidianità di chi ogni giorno subisce i bombardamenti a tappeto e quella dei soldati in trincea; le fughe di massa e le esistenze nei campi profughi; gli scontri armati e le ritirate dei soldati; i saccheggi e le crisi economiche. Con una prosa scorrevole “Vite al Fronte” racconta le guerre senza approccio ideologico o moralistico, dando voce ai loro protagonisti in modo diretto, contestualizzandone i racconti una cornice geopolitica ben illustrata.
Unico rammarico è che Steinmann non sia riuscito ad entrare nella Striscia Gaza durante i bombardamenti, osservandoli soltanto dal suo perimetro. Dal kibbutz di Beeri, epicentro della strage del sette ottobre, osserva per esempio i missili verso Gaza e quelli che decollano da essa, venendo intercettati dallo scuso antimissilistico israeliano. Vede all’orizzonte le nubi nere che si alzano dopo i colpi adnati a segno, sente le esplosioni e visita le distruzioni. Ma, come d’altra parte tutto il resto della stampa occidentale, non ha accesso alle zone in mano a Hamas.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-24 20:41:572025-02-25 20:43:46La guerra senza filtri (Haffingtonpost 24.02.25)
Gli irruenti tentativi di Donald Trump di imporre dei cessate il fuoco a Gaza ed in Ucraina mostrano più che mai come questi due teatri di guerra siano intrecciati e si alimentino a vicenda. Il presidente americano sta tentando di imporre un unico grande Patto di Abramo che parte dal Golfo e termina nel Donbass e che vuole ridisegnare i rapporti di forza tra gli attori di queste regioni o che in queste hanno interessi. Ciò che succede in Ucraina ha dirette conseguenze sul Medio Oriente, e viceversa.
Questo grande intreccio tra le guerre, che Papa Francesco ha definito una “guerra mondiale a pezzi”, emerge con chiarezza leggendo “Vite al Fronte” (Rizzoli), l’ultimo libro di Luca Steinmann, in libreria dal 25 febbraio. Reporter di guerra per La7 e Repubblica e analista geopolitico per Limes, Steinmann nel 2022 era stato quasi l’unico giornalista occidentale al seguito delle truppe russe mentre invadevano l’Ucraina, esperienza che lo aveva portato a scrivere “Il Fronte Russo”, diario di guerra in cui racconta le esperienze da lui vissute tra i soldati di Putin. Con “Vite al Fronte” Steinmann continua con il diario di guerra, questa volta non concentrandosi solo sul conflitto russo-ucraino, a cui comunque dedica una parte importante, ma portando il lettore alla scoperta di zone di crisi e di campi di battaglia spesso inesplorati in diverse zone del pianeta: in Israele, in Libano, in Siria, in Turchia, in Giordania, nel Nagorno Karabakh. Raccontando esperienze vissute in prima persona, dà voce senza filtri alle persone che incontra mostrando, attraverso le loro tragiche vite sconvolte dai combattimenti, come i loro destini siano intrecciati tanto quanto lo sono le scelte politiche dei rispettivi governi.
L’intreccio emerge con forza nel conflitto israelo-palestinese. Steinmann incontra gli ebrei russi e ucraini in fuga dall’invasione del 2022, che ha riaperto in loro le ferite della memoria dei pogrom e della Shoah, ereditate dai racconti dei propri padri e dei propri nonni. Fuggiti in Israele, si ritrovano trascinati nella guerra di Gaza e vanno ad abitare dove un tempo abitavano i palestinesi fuggiti durante la Nakba nel 1948. Di questi ultimi Steinmann va a incontrare discendenti, che vivono in tragiche condizioni in Libano e Siria, dove a loro volta subiscono sanguinose guerre alle quali alcuni di loro prendono direttamente parte, arruolandosi nei gruppi armati. E talvolta combattendosi addirittura tra loro. Tutti serbando i ricordi e le paure, tramandate di generazione in generazione, delle tragedie e delle espulsioni subite dai propri genitori e nonni.
Andando a rintracciare le loro storie (insieme a quelle di tanti altri popoli come gli armeni, gli azerbaigiani, i ribelli siriani e quelli che hanno sostenuto Assad, i cristiani del Libano, i giovani sciiti che si arruolano in Hezbollah ed i russi del gruppo Wagner) Steinmann attraversa le guerre raggiungendo zone inesplorate dal resto della stampa. Accompagnandosi a civili e soldati, getta luce senza filtri su ciò che avviene in territori di cui spesso si parla dall’esterno senza però conoscerli da dentro: la quotidianità di chi ogni giorno subisce i bombardamenti a tappeto e quella dei soldati in trincea; le fughe di massa e le esistenze nei campi profughi; gli scontri armati e le ritirate dei soldati; i saccheggi e le crisi economiche. Con una prosa scorrevole “Vite al Fronte” racconta le guerre senza approccio ideologico o moralistico, dando voce ai loro protagonisti in modo diretto, contestualizzandone i racconti una cornice geopolitica ben illustrata.
Unico rammarico è che Steinmann non sia riuscito ad entrare nella Striscia Gaza durante i bombardamenti, osservandoli soltanto dal suo perimetro. Dal kibbutz di Beeri, epicentro della strage del sette ottobre, osserva per esempio i missili verso Gaza e quelli che decollano da essa, venendo intercettati dallo scuso antimissilistico israeliano. Vede all’orizzonte le nubi nere che si alzano dopo i colpi adnati a segno, sente le esplosioni e visita le distruzioni. Ma, come d’altra parte tutto il resto della stampa occidentale, non ha accesso alle zone in mano a Hamas.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-24 18:10:562025-02-28 18:12:12La guerra senza filtri (Huffington Post 24.02.25)
A quando i marziani e gli eschimesi? Con il suo recentissimo libro “Il Papa deve morire” l’autore Ezio Gavazzeni sostiene che l’islamista turco Alì Mehemet Agca il 13 maggio 1981 ha sparato a Papa Wojtyla, ferendolo gravemente all’addome, su incarico “dei terroristi armeni del gruppo ASALA”, incontrati al caffè Opera di Istanbul. E che Emanuela Orlandi molto probabilmente è stata rapita da loro.
Bum! Il mistero Orlandi si arricchisce di un altro scoop: l’ennesimo.
Ma cos’è l’ASALA, acronimo di Armenian Secret Army for the Liberation of Armenia?
Nata nel 1975, l’ASALA è o meglio era fino al 1988 era una organizzazione guerrigliera marxista leninista. Il suo principale obiettivo era costringere il governo turco a riconoscere pubblicamente la sua responsabilità per la morte di un milione e mezzo di armeni nel 1915, pagare il dovuto risarcimento agli eredi e cedere il territorio necessario per la creazione dello Stato dell’Armenia.
Stato promesso agli armeni nel 1920 con il trattato di Sevres (mai divenuto esecutivo) dal presidente USA Woodrow Wilson, donde la definizione di Armenia wilsoniana.
Che collegamento fra un turco e gli armeni?
Rapimento Orlandi e attentato a Wojtyla opera degli armeni? Per la moglie di Agca tutte bufale – Blitzquotidiano.it (foto ANSA)
Nata come Repubblica di Armenia nel 1918, durò due anni. Dopo una serie di guerre, nel 1936 nasce la Repubblica Socialista Sovietica dell’Armenia, assorbita nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS). Morta la quale, nel 1991 è finalmente rinata come Repubblica Armena, tuttora esistente.
Riconosciuta come responsabile dell’uccisione di oltre 30 diplomatici turchi in tutto il mondo e del ferimento di molti altri, l’ASALA negli anni ’80 è stata inserita dagli USA nell’elenco delle organizzazioni terroristiche.
“Ho studiato 400 prove di servizi segreti, polizia vaticana, Digos e molto altro”: lo ha dichiarato Gavazzeni al settimanale Gente per spiegare come sia arrivato a indicare l’ASALA come mandante del tentato omicidio di Papa Wojtyla e come probabile responsabile del rapimento di Emanuela Orlandi, Gavazzeni.
NON spiega però come ha fatto a procurarsi le “prove” della “polizia vaticana”, che non si sa neppure se siano mai esistite.
Tante ipotesi per Emanuela Orlandi
Chissà se e cosa dirà il magistrato in pensione Ilario Martella, che a suo tempo è stato tra coloro che si sono occupati sia dell’attentato al Papa che del mistero Orlandi. Non è venuto a capo di nulla, ma s’è convinto – come ha anche spiegato alla Commissione parlamentare Orlandi e Gregori – che Emanuela è stata rapita di fatto su ordine del Cremlino. Convinzione che ha espresso nel suo recente libro “Emanuela Orlandi, intrigo internazionale”.
Martella è perentorio: “C’è un’unica soluzione possibile”. Quale?
“I due casi [Emanuela Orlandi e Mirella Gregori: ndr] fanno parte di un unico disegno criminale, di una gigantesca e articolata operazione di distrazione di massa compiuta da uno dei servizi segreti più efficienti e famigerati della Guerra Fredda: la Stasi tedesca”.
Tedesca, ma nel senso di Germania Orientale, all’epoca con regime comunista e sudditanza all’Unione Sovietica.
Per parte sua, in attesa di poter ricevere e leggere il libro di Gavazzeni acquistato online, la signora Elena Rossi, italiana moglie di Agca, subito dopo avere letto le dichiarazioni di Gavazzeni ha inviato via Messenger a Gente il seguente messaggio:
“Buongiorno. Ho appena letto il vostro articolo sull’attentato al Papa, che riporta una storia non vera. Ali Ağca, mio marito, un turco di estrema destra, non si sarebbe mai messo al servizio del terrorismo armeno. Ağca non ha incontrato nessun esponente dell’ Asala al caffè dell’Opera né altrove prima dell’attentato.
“Durante il mese di marzo 1981, Ağca era a Vienna insieme ad alcuni amici, che poi vennero interrogati e confermarono.Il tutto emerse chiaramente durante il secondo processo per l’attentato al Papa. Dunque non poteva trovarsi a Belgrado.
Ağca non ha mai avuto un passaporto giordano, e sfido chiunque a dimostrare il contrario. Aveva un unico passaporto turco, intestato a Faruk Özgün, con il quale è entrato varie volte in Italia senza alcun bisogno di chiedere il visto d’ingresso. Tutte bufale insomma.
“Un chiarimento definitivo sull’attentato al Papa del 13 maggio 1981, l’ho fornito io nel mio libro pubblicato lo scorso settembre. Pensavo di avere ripulito la scena da tutti i detriti, invece no, ecco che ne spuntano pure gli armeni… Quello che per gli altri è un caso di cronaca nera, per me è mio marito, la mia famiglia….
“Inoltre Gavazzeni non si è preoccupato minimamente di interpellare Ağca o me per capire se la sua “pista” poteva essere vera o meno.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-23 20:48:432025-02-25 20:49:37Rapimento Orlandi e attentato a Wojtyla opera degli armeni? Per la moglie di Agca tutte bufale (Blitzquotidiano 23.02.25)
Sos libertà religiosa in terra santa. “Quando un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme a lui”. Citano San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi i Patriarchi e i Capi delle Chiese di Gerusalemme, per manifestare la loro vicinanza fraterna al Patriarcato armeno della Città Santa. La municipalità di Gerusalemme, riferisce l’agenzia missionaria Fides, ha minacciato di confiscare e mettere all’asta le proprietà immobiliari patriarcali per coprire debiti fiscali accumulati negli ultimi decenni, che secondo i funzionari del comune avrebbero raggiunto cifre definite “astronomiche”. La ventilata confisca viene percepita come un’intimidazione dal Patriarcato armeno. Che contesta la portata delle cifre reclamate dagli agenti comunali addetti alle riscossione delle tasse, e le modalità con cui le cifre esorbitanti richieste sono state calcolate. Il processo di pignoramento, già avviato, era stato temporaneamente sospeso dopo una petizione presentata dal Patriarcato. Ma i funzionari comunali sostengono che i termini per presentare ricorsi e ridurre in maniera significativa sa somma reclamata sono ormai scaduti. Dal canto suo, il Patriarcato sottolinea che gran parte del presunto debito è legato a proprietà patriarcali già concesse in affitto allo stesso comune di Gerusalemme.
Foto di Christian Burri su Unsplash
Libertà religiosa a rischio
Un’udienza legale sulla controversia in atto è prevista per il 24 febbraio. E se il tribunale dovesse respingere la petizione, aprendo la strada al procedimento di confisca – avverte il Patriarcato – ciò costituirebbe un pericoloso precedente. E potrebbe aprire la strada a altre confische di beni appartenenti a altre istituzioni ecclesiali. Patriarchi e Capi delle Chiese di Gerusalemme hanno diffuso un comunicato congiunto. Per esprimere vicinanza e solidarietà al Patriarcato armeno “nella sua ricerca di giustizia” contro quello che viene definito come un “ordine ingiusto”. Le azioni intraprese contro il Patriarcato armeno sono “basate su un debito esorbitante e non verificato”. E appaiono “legalmente dubbie e moralmente inaccettabili”. Secondo i Patriarchi e i Capi delle Chiese di Gerusalemme, “È inconcepibile che le istituzioni cristiane, la cui missione per secoli è stata quella di custodire la fede, servire le comunità e preservare il patrimonio sacro della Terra Santa, debbano ora affrontare la minaccia di sequestro di proprietà in base a misure amministrative israeliane che ignorano il giusto processo”. E non tengono conto del ruolo del “comitato governativo istituito per negoziare tali questioni in via amichevole”. Con la minacciata confisca di beni – insistono i Capi delle Chiese di Gerusalemme – “si tenta di limitare il diritto di esistenza della Chiesa armena ortodossa, privandola delle risorse economiche necessarie per vivere e operare. E privando il popolo armeno locale della cura pastorale della loro Chiesa”. Inoltre “prendere di mira una Chiesa è un attacco a tutti, e non possiamo rimanere in silenzio mentre le fondamenta della nostra testimonianza cristiana nella terra di Cristo vengono scosse”.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-22 19:48:312025-02-23 19:55:09Terra santa, libertà religiosa in pericolo (In Terris 22.02.25)
Carissimi StilumCuriali, offriamo alla vostra attenzione alcuni elementi di valutazione su quanto sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania. Il primo è un articolo di Asbarez sull’attacco che Israele sta conducendo contro i cristiani armeni della città, una delle forme subdole di pulizia etnico-religiosa dei territori occupati.
***
Giovedì, il patriarca armeno di Gerusalemme, l’arcivescovo Nourhan Manougian, ha inviato una lettera di appello al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, chiedendo il suo intervento per porre fine alla minaccia di pignoramento della proprietà del Patriarcato armeno.
Mercoledì, il Patriarcato armeno di Gerusalemme ha annunciato che le proprietà storiche del Patriarcato erano sotto imminente minaccia di pignoramento da parte dei funzionari comunali per presunto mancato pagamento delle tasse dal 1994, un’affermazione che i funzionari della chiesa negano con veemenza.
Secondo quanto riferito, l’arcivescovo Manougian ha implorato Netanyahu di intervenire nella questione, prima di un’udienza in tribunale programmata per lunedì, secondo il cancelliere del Patriarcato, il reverendissimo Aghan Gogchyan. Il funzionario ha affermato che il Patriarcato ha chiesto la riconvocazione di una riunione del comitato governativo, fondato dallo stesso Netanyahu, e di “trovare una soluzione al problema”.
“Se il tribunale respingerà l’appello del Patriarcato il 24 febbraio 2025, il Comune sequestrerà e metterà all’asta le proprietà della Chiesa armena che possiede da secoli”, ha affermato Gogchyan in una nota.
I leader religiosi di altre confessioni a Gerusalemme hanno rilasciato giovedì una dichiarazione congiunta esprimendo la loro solidarietà al Patriarcato armeno in quella che hanno definito la “ricerca di giustizia contro un ingiusto ordine di pignoramento emesso dal Comune di Gerusalemme” e hanno condannato le minacce di pignoramento delle proprietà del Patriarcato.
“Le azioni intraprese contro il Patriarcato arminiano, basate su un debito fiscale Arnona non verificato ed esorbitante, sono legalmente dubbie e moralmente inaccettabili”, hanno affermato i firmatari.
“È inconcepibile che le istituzioni cristiane, la cui missione per secoli è stata quella di salvaguardare la fede, servire le comunità e preservare il sacro patrimonio della Terra Santa, debbano ora affrontare la minaccia di sequestro di proprietà in base a misure amministrative israeliane che ignorano il giusto processo. Particolarmente allarmante è il tentativo del comune di far rispettare una determinazione del debito senza controllo giudiziario e in sfida al comitato governativo istituito per negoziare tali questioni in buona fede. Questa mossa sconsiderata mette a repentaglio il Patriarcato armeno ortodosso e stabilisce un precedente pericoloso che potrebbe mettere a repentaglio le istituzioni cristiane in tutta la Terra Santa”, si legge nella dichiarazione.
Hanno osservato che questa azione “mina la libertà di religione, che è il fondamento di tutti gli altri diritti, poiché attraverso la confisca dei beni, si attenta al diritto di esistenza della Chiesa armena ortodossa, privandola delle risorse economiche necessarie per vivere e operare e privando il popolo armeno locale della cura pastorale della propria Chiesa”.
“Prendere di mira una Chiesa è un attacco a tutte, e non possiamo restare in silenzio mentre le fondamenta della nostra testimonianza cristiana nella terra del ministero di Cristo vengono scosse. Chiediamo al Primo Ministro Benjamin Netanyahu, al Ministro degli Interni Moshe Arbel e al Ministro Tzachi Hanegbi di intervenire immediatamente, congelare tutte le procedure di pignoramento e garantire che i negoziati riprendano all’interno del comitato governativo sopra menzionato per raggiungere una soluzione amichevole riguardo a questa questione nello spirito di giustizia”, si legge nella dichiarazione.
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Il secondo è questo articolo di InsideOver sempre centrato sulla pulizia etnica dei Territori Occupati illegalmente da Israele:
Israele ha indetto una gara d’appalto per circa 1.000 nuove case per i coloni nella Cisgiordania occupata.
Secondo il gruppo israeliano per i diritti umani Peace Now, le 974 case dei coloni pianificate amplieranno del 40 % l’insediamento illegale di Efrat, a sud di Gerusalemme, limitando ulteriormente la crescita della vicina città palestinese di Betlemme.
“Con il popolo israeliano concentrato sulla liberazione degli ostaggi e sulla fine della guerra, l’esecutivo di Netanyahu sta agendo a tutta velocità per imporre cambiamenti in Cisgiordania che comprometteranno ogni prospettiva di pace e dialogo”, ha dichiarato Peace Now che monitora l’attività degli insediamenti.
Nel frattempo, si è registrato anche un aumento degli attacchi da parte dei coloni israeliani contro la popolazione palestinese. Secondo l’agenzia ONU, il 2024 è stato l’anno più violento per le aggressioni dei coloni negli ultimi vent’anni.
Oggi sono oltre 500.000 i coloni israeliani (su 3 milioni di palestinesi) che risiedono nella Cisgiordania occupata e hanno abitazioni costruite su territori occupati illegalmente.
La comunità internazionale, inclusa l’ONU, considera tutti gli insediamenti e gli avamposti illegali secondo il diritto internazionale. L’ONU ha ripetutamente avvertito che la continua espansione degli insediamenti minaccia la fattibilità di una soluzione a due stati per il conflitto israelo-palestinese. A luglio la Corte internazionale di giustizia ha stabilito che l’occupazione era “illegale” e doveva essere smantellata il prima possibile.
Poi c’è la censura – incredibile – e le pressioni per far tacere Francesca Albanese, Relatrice dell’ONU su Gaza, nel suo viaggio in Germania. Le autorità universitarie parlano di critiche da direzioni diverse, fra cui l’ambasciatore israeliano a Berlino. La Germania grazie alla sua cattiva coscienza per il genocidio che ha compiuto, si rende complice di un secondo crimine analogo.
Nel giro di pochi giorni due importanti università tedesche hanno annullato gli eventi con il Relatore speciale delle Nazioni Unite sui Territori palestinesi occupati Francesca Albanese, a seguito delle pressioni dei governi statali.
Francesca Albanese avrebbe dovuto parlare alla Free University (FU) di Berlino il 19 febbraio insieme a Eyal Weizman, direttore britannico-israeliano dell’agenzia di ricerca Forensic Architecture. Ma le autorità universitarie hanno deciso di annullare l’evento pubblico dopo quella che il presidente dell’Università ha descritto come “massicce critiche ai due ospiti da direzioni diverse”. Un’altra lezione di Albanese, alla Ludwig Maximilian University di Monaco, era già stata annullata qualche giorno prima per motivi simili.
Tra le critiche rientrano anche le dichiarazioni dell’ambasciatore israeliano in Germania e del sindaco conservatore di Berlino Kai Wegner, che all’inizio di questo mese ha dichiarato al tabloid Bild : “Mi aspetto che la FU annulli immediatamente l’evento e prenda una posizione chiara contro l’antisemitismo”.
Oltre alla Albanese, altri accademici e giornalisti che sostengono i diritti dei palestinesi in Germania spesso esclusi da eventi o premi per le loro posizioni politiche. A maggio, la polizia antisommossa ha smantellato un accampamento di studenti pro-Palestina alla Free University di Berlino, dopo la campagna diffamatoria di Bild contro gli accademici che avevano firmato una lettera aperta che chiedeva il dialogo.
Proprio il Bild, il più grande quotidiano tedesco, ha avuto un ruolo di primo piano nello scandalo “Bibileaks”, attraverso la diffusione di informazioni errate fornitegli dall’assistente di Netanyahu agendo di fatto come un megafono della propaganda israeliana.
Insomma in Germania c’è poco, pochissimo spazio per esprimere solidarietà alla causa palestinese. E come ha detto la Albanese in un video registrato dopo la cancellazione delle lezioni universitarie: in Germania si sente “una mancanza di ossigeno” a causa della repressione della polizia, delle istituzioni, dei media.
Infine questo articolo di Internazionale, in cui il regista Basel Adra candidato all’Oscar racconta di come il suo paese in Cisgiordania è vittime di una cancellazione progressiva da parte dell’esercito israeliano e dei coloni.
Il nostro film va agli Oscar ma a Masafer Yatta ci cancellano
Durante la demolizione di una casa palestinese ad Al Jawaya, nella regione di Masafer Yatta, in Cisgiordania, 7 maggio 2024. (Emily Glick, Middle East Images/Afp)
Durante la realizzazione di No other land – il documentario che ho girato insieme a Yuval Abraham, Rachel Szor e Hamdan Ballal sulla lotta e la resistenza degli abitanti palestinesi della regione di Masafer Yatta, in Cisgiordania, di fronte ai tentativi israeliani di mandarci via – una domanda tornava con insistenza: qualcuno lo guarderà? Qualcuno s’interesserà?
Da quando il film è stato presentato al festival internazionale del cinema di Berlino nel 2024, la risposta è stata chiara: le migliaia di messaggi di solidarietà, le richieste su come poterlo guardare e gli inviti ai festival di tutto il mondo sono stati una dimostrazione del forte desiderio di ascoltare la nostra storia. Ora il film è perfino candidato a un Oscar.
È un risultato straordinario non solo per noi autori, ma anche per gli attivisti, gli amici e tutti i nostri alleati che trascorrono molto tempo sul campo, rischiando violenze e arresti nella lotta contro l’oppressione e la colonizzazione. È anche un riconoscimento agli avvocati che lavorano con ostinazione nei tribunali israeliani, determinati ad aiutare in ogni modo i palestinesi che vogliono restare a vivere sulle loro terre, in un sistema progettato per legittimare l’occupazione.
Ma soprattutto è una vittoria per la gente di Masafer Yatta, un gruppo di piccoli centri abitati all’estremità meridionale della Cisgiordania occupata, la cui resistenza riflette l’incrollabile attaccamento alla loro terra. Mentre l’occupazione tenta di cancellarne l’esistenza, la loro perseveranza continua a motivarci a resistere, a documentare e a combattere per la giustizia.
Nonostante il successo avuto dal film ai festival, tra i giornalisti e tra il pubblico, la situazione sul campo sta rapidamente peggiorando e il futuro sembra cupo. Negli ultimi sedici mesi i coloni e l’esercito israeliano hanno approfittato del clima di guerra per ridefinire la realtà della regione a favore dei coloni e dei loro avamposti, intensificando i tentativi di espellerci dalle nostre terre. In questi giorni l’esercito israeliano sta conducendo una vasta operazione di demolizioni a Khalet A-Daba, radendo al suolo case, servizi igienici, pannelli solari e alberi.
Anche se in questo articolo non posso parlare di tutti gli attacchi ed espropri più recenti ai danni dei residenti palestinesi, ho voluto evidenziare alcuni degli eventi più significativi delle ultime settimane per mostrare che, mentre riceviamo riconoscimenti a livello internazionale, la nostra realtà continua a essere quella di una lotta quotidiana contro l’annientamento.
L’occupazione israeliana dei territori palestinesi in Cisgiordania va avanti da decenni con insediamenti illegali. E negli ultimi mesi la loro violenza è fuori controllo
Khaled Musa Abdel Rahman al Najjar, 72 anni, vive con dieci suoi familiari nella comunità di Qawawis. Spesso la notte resta sveglio per timore degli attacchi dei coloni. “L’insediamento di Mitzpe Yair si trova a un chilometro a sudest, e dopo l’inizio della guerra nell’ottobre 2023 è stato creato un avamposto illegale a quattrocento metri di distanza”, mi dice. “I coloni hanno anche costruito una struttura in legno a duecento metri da casa mia, sulla quale hanno una visuale perfetta”.
Il 3 gennaio, poco dopo le tre di notte, Al Najjar ha sentito un cane abbaiare rumorosamente all’esterno di casa sua. “Ho preso la torcia e sono andato a controllare l’asino, che avevo legato per paura che i coloni lo rubassero. Ma non ho visto niente, perciò sono tornato dentro”.
Dieci minuti dopo ha sentito di nuovo abbaiare. “Sono tornato fuori e, all’improvviso, ho visto un colono avvicinarsi”, racconta Al Najjar. “Mi ha detto ‘Vieni qua’, e ha cercato di prendermi la torcia, ma io l’ho respinto. Altri tre coloni a volto coperto hanno cominciato a correre verso di me brandendo dei manganelli”.
“Ho cominciato a gridare per chiedere aiuto ma nessuno mi ha sentito”, continua. “Il primo mi ha colpito al braccio, facendomi cadere la torcia. Gli altri si sono uniti a lui, mi hanno scaraventato a terra e mi hanno colpito in tutto il corpo, finché non ho perso conoscenza. Mi sono sentito come se fossi caduto in un vespaio”.
Dopo averlo picchiato per diversi minuti i coloni sono andati via, lasciandolo a terra sanguinante. “Ho raccolto le forze e sono tornato in casa, con la testa e la fronte sanguinanti. Non riuscivo a parlare”. Poco dopo sono arrivati alcuni attivisti stranieri, che hanno accompagnato Al Najjar a prendere un’ambulanza che lo ha portato in ospedale a Yatta, la città più vicina.
Ricevute le prime cure, Al Najjar è stato poi trasferito in un ospedale più grande a Hebron, dove una tac ha rivelato un’emorragia cerebrale. “Sono stato ricoverato in terapia intensiva in condizioni critiche”, racconta. “Due giorni dopo sono stato dimesso, ma mi sto ancora riprendendo da quell’aggressione brutale”.
Non è la prima volta che Al Najjar è attaccato: nel 2001 un colono gli sparò allo stomaco usando una pistola presa in prestito da un soldato israeliano. Ancora oggi il corpo di Al Najjar ne porta le cicatrici.
Tuttavia, nonostante le gravi ferite e gli attacchi ripetuti, lui continua a resistere. “Nulla di ciò che fanno mi convincerà a lasciare questo posto”, mi dice mentre lo porto a casa dopo le dimissioni dall’ospedale. “Voglio solo vedere i miei nipoti e trascorrere del tempo con loro a casa mia”.
Nonostante tutto lo sconforto e la mancanza di speranza, persone come Khaled Al Najjar – che si rifiutano di lasciare la loro terra anche se subiscono brutali aggressioni – ci spingono a resistere, anche se ci sentiamo impotenti.
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Il furto delle terre
Dopo il 7 ottobre 2023, i coloni hanno costruito almeno otto nuovi avamposti in diverse parti della zona di Masafer Yatta. Nel villaggio di Tuba i coloni di Havat Maon hanno creato un nuovo avamposto non residenziale – alcune altalene e una bandiera israeliana – a soli cento metri dalle case della famiglia Awad. Spesso i coloni si danno appuntamento lì prima di provocare e attaccare i residenti palestinesi.
Il pomeriggio del 25 gennaio Ali Awad, 26 anni, era seduto nella sua jeep parcheggiata vicino a casa, quando ha notato sei coloni a volto coperto correre verso di lui. Uno aveva un fucile, un altro una bottiglia di benzina. “Volevo mettere in moto l’auto e scappare, ma poi ho visto mio cugino piccolo e i miei nonni anziani”, racconta. “Sono uscito e sono corso verso di loro per dirgli di allontanarsi. Poi ho sentito un rumore di vetri infranti”.
Masafer Yatta, 9 dicembre 2024. Sam Stein, un pacifista statunitense di origine israeliana, accompagna i bambini che vanno a scuola per proteggerli da eventuali attacchi dei coloni. (Khadija Toufik, Middle East Images/Afp)
Quando si è voltato, Awad ha visto una nube di fumo alzarsi. I coloni avevano dato fuoco alla sua auto. “Sapevano che usavo il fuoristrada per portare i bambini a scuola e per trasportare gli abitanti in città per sbrigare alcune commissioni da quando l’esercito aveva bloccato la strada percorribile dalle auto normali”, spiega.
Dopo aver dato fuoco alla jeep di Awad i coloni hanno rivolto le loro attenzioni al fienile, che conteneva dieci tonnellate di mangime, e hanno incendiato anche quello. “Per fortuna le fiamme non si sono diffuse”, dice Awad.
Ma la situazione è presto degenerata. Uno dei coloni è entrato con la forza a casa dello zio di Awad, Mahmoud, dove c’erano i suoi cugini piccoli Jouri, 6 anni, e Jude, 9 anni. “L’attacco è durato circa dieci minuti”, racconta Awad. “Il colono ha rotto i vetri in cucina, ha distrutto due mobili e ha mischiato le riserve di farina e il riso nella dispensa. Ha anche rovesciato un contenitore da cento chili di yogurt e ha spaccato un lavabo”.
All’ombra della guerra di Israele a Gaza, l’esercito israeliano ha applicato nuove restrizioni per i palestinesi proprietari di terreni in Cisgiordania
Successivamente la famiglia ha scoperto che probabilmente anche i bambini erano stati colpiti. “Jouri aveva un segno visibile di un colpo sulla schiena, mentre Jude era stato colpito al braccio destro”, riferisce. Awad ha denunciato l’incidente alla polizia israeliana, ma finora non ha ricevuto aggiornamenti.
Quattro giorni dopo, quando la famiglia si stava ancora riprendendo dall’attacco, uno dei coloni che fa il pastore è arrivato con i poliziotti e i soldati israeliani portando il suo gregge a pascolare su un terreno di proprietà palestinese.
“Quando mi sono svegliato ho trovato un esercito di fronte a casa mia”, racconta Awad. Si è scoperto in seguito che il colono diceva di essere stato attaccato da alcuni abitanti di Tuba che gli avevano rubato il telefono. Awad non era tra le persone accusate, ma è stato comunque arrestato insieme ad altri quattro abitanti del villaggio. “I soldati mi hanno umiliato durante l’arresto”, racconta Awad. “Mi hanno gettato faccia a terra sul pianale della jeep militare. Erano seduti intorno a me, e uno di loro mi ha tenuto il piede sulla schiena per tutto il tragitto. La mia mano destra sanguinava per quanto avevano stretto le manette”.
Awad ha tenuto le manette per ore prima di essere trasferito al commissariato di polizia dell’insediamento di Kiryat Arba per essere interrogato. Lui e altri due detenuti sono stati liberati in giornata, mentre altre due persone, tra cui suo zio Khalil, sono state trattenute per giorni prima di essere rilasciate.
Il ruolo dei soldati
All’ombra della guerra di Israele a Gaza, l’esercito israeliano ha applicato nuove restrizioni per i palestinesi proprietari di terreni in Cisgiordania, per esempio costringendoli a chiedere un permesso preventivo all’amministrazione civile ogni volta che vogliono andare nei loro campi coltivati. In molti casi i coloni entrano su questi terreni illegalmente, mentre ai legittimi proprietari palestinesi è impedito l’accesso.
Nel villaggio di Qawawis l’esercito aveva dato l’autorizzazione ad alcuni proprietari terrieri – tra cui la famiglia Hoshiyah – per andare nei loro campi il 14 gennaio, ma poi dieci minuti prima dell’orario stabilito per cominciare i lavori agricoli ha annullato il permesso senza spiegazioni. Una settimana dopo, il 22 gennaio, l’esercito ha autorizzato la famiglia ad accedere alle sue proprietà.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-21 20:42:102025-02-21 20:42:10Pulizia Etnico-Religiosa. Israele Attacca i Cristiani Armeni a Gerusalemme... (Stilum Curiae 21.02.25)
Domani, sabato 22 febbraio, a Venegono Superiore ci sarà una serata dedicata tutta all’Armenia con i massimi esperti italiani.
Venegono alla scoperta dell’Armenia
Un appuntamento dedicato all’Armenia, alla sua storia e alla sua cultura millenaria, con l’associazione Luogo Eventuale e l’Associazione Unione Armeni d’Italia. Domani, sabato, alle 20.45 nella sala consiliare del Municipio si terrà l’incontro “Armenia – 3.000 anni di storia e cultura”.
Interverranno i massimi esperti di Armenia in Italia: il politologo Aldo Ferrari, professore di culture del Caucaso presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, Pietro Kuciukian, console della Repubblica d’Armenia e Agopik Manoukian professore di sociologia presso l’Università di Trento.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-21 16:44:332025-02-22 16:45:38La storia dell'Armenia protagonista a Venegono (Primasaronno 21.02.25)
Yerevan si appresta a intraprendere la strada della candidatura formale, ma deve affrontare grosse sfide sul piano economico, politico e di sicurezza. Intervista all’ambasciatore Tigran Balayan, capo della missione dell’Armenia presso l’Unione europea
A Bruxelles si è acceso il radar su Yerevan. Dopo la presentazione del progetto di legge da parte del governo armeno al Parlamento nazionale sull’avvio del processo di adesione all’Unione europea, il Paese caucasico ha iniziato formalmente il suo percorso di avvicinamento politico all’Unione. L’Armenia potrà così organizzare un referendum popolare per incaricare il governo di presentare ufficialmente la richiesta di adesione.
Tuttavia, la strada verso Bruxelles non è così semplice. “Dobbiamo rimanere realisti, c’è molto da fare prima di presentare la domanda di adesione all’UE”, ha spiegato in un’intervista l’ambasciatore Tigran Balayan, capo della missione dell’Armenia presso l’Unione europea, parlando delle sfide sul piano economico, politico e della sicurezza, anche considerate le possibili conseguenze per i rapporti con il tradizionale partner russo.
Tigran Balayan
Cosa spinge l’Armenia ad aderire all’UE?
Se si osservano i risultati ottenuti dall’Armenia, si può notare che ogni singolo passo che abbiamo fatto per promuovere la libertà di parola, combattere la corruzione e proteggere i diritti umani è guidato dal desiderio e l’aspirazione a costruire uno Stato europeo – che abbia autorità responsabili, un Parlamento forte, istituzioni funzionanti e un’economia moderna. Questa è l’idea alla base del nostro progetto.
L’anno scorso è stato storico in termini di risultati raggiunti dall’UE e dall’Armenia. Tra questi, il vertice organizzato dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, il fatto di essere diventati il primo Paese non candidato all’UE a ricevere un Piano di resilienza e crescita e l’avvio del dialogo sulla liberalizzazione dei visti.
Inoltre, abbiamo ricevuto assistenza attraverso il Fondo europeo per la pace e abbiamo firmato e ratificato accordi con Europol ed Eurojust. Uno dei pilastri più importanti della sicurezza regionale è la Missione di osservazione dell’UE al confine tra Armenia e Azerbaigian, che ha portato un senso di stabilità. Il numero di incidenti al confine è diminuito del 95% dall’ottobre 2022, quando gli osservatori sono stati schierati per la prima volta.
Tutto questo processo è iniziato durante il discorso del primo ministro al Parlamento europeo nell’ottobre 2023, quando ha concluso affermando che l’Armenia è pronta ad avvicinarsi all’UE nella misura in cui l’UE lo ritiene possibile.
Come vedono i cittadini armeni questa possibilità?
Secondo gli ultimi sondaggi pubblicati alla fine del 2024 dall’IRI, il 56% della popolazione è favorevole all’adesione all’UE. Rappresenta un aumento significativo rispetto a due anni fa, quando il sostegno si aggirava intorno al 40-42%.
Quali sono i prossimi passi?
La Costituzione prevede che si debba tenere un referendum prima di presentare la domanda di partecipazione a qualsiasi organizzazione sovranazionale. Ciò significa che abbiamo bisogno di un referendum prima di presentare una domanda di adesione all’UE.
Nel frattempo, dobbiamo diversificare l’economia, costruire nuovi partenariati, aumentare la quota di esportazioni verso l’UE e altri mercati, e ridurre la nostra dipendenza economica ed energetica dai partner tradizionali.
Stiamo negoziando la nuova agenda di partenariato con l’UE, che potrebbe essere finalizzata entro un paio di mesi. Questi documenti coprono quasi tutte le possibili aree di cooperazione, compresa una nuova attenzione alla sicurezza e alla difesa. Consideriamo questa agenda di partenariato come una tabella di marcia per l’obiettivo dell’europeizzazione dell’Armenia.
L’Armenia ha presentato anche un progetto nazionale chiamato “Crossroads of Peace” (crocevia della pace), la visione del governo armeno sul futuro della regione e sul ruolo del Paese come centro di connettività e cooperazione. Questo progetto ha ricevuto un riscontro positivo da parte della Commissione e degli Stati membri e speriamo di vederlo incluso nell’iniziativa Global Gateway.
Che impatto ha la richiesta di adesione dell’Armenia all’UE sulle sue relazioni con la Russia?
Il ministro degli Esteri dell’Armenia si è recato a Mosca per una conversazione molto aperta sulle nostre azioni e motivazioni.
Come Paese sovrano, l’Armenia ha abbandonato la tradizione di mettere da parte i propri interessi nazionali in cambio di garanzie di sicurezza. Oggi il nostro interesse nazionale consiste nell’avvicinarci all’UE.
Il nostro compito di diplomatici è quello di minimizzare ogni potenziale impatto negativo che potrebbe derivare da azioni intraprese dalla Russia o da altri Paesi della regione. Non nascondiamo la nostra agenda, la discutiamo apertamente e lavoriamo per spiegare a tutti i nostri partner – Russia compresa – ciò che spinge i nostri obiettivi.
In questo discorso rientra anche l’adozione di sanzioni contro la Russia?
Gli scambi commerciali dell’Armenia con altri partner sono molto trasparenti e non vogliamo diventare il bersaglio di sanzioni secondarie. Stiamo agendo sulla base di queste convinzioni.
L’Armenia ha congelato la sua adesione all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO).Il Paese è pronto a proseguire su questa strada di riallineamento strategico?
Dopo che la CSTO non ha rilasciato nemmeno una dichiarazione politica quando l’Armenia è stata attaccata nel 2022, non solo la credibilità dell’organizzazione ma anche la sua essenza e il suo scopo sono crollati. Ecco perché abbiamo superato il punto di non ritorno. Non vediamo alcuna possibilità di tornare come membri a pieno titolo nel prossimo futuro.
Congelare la nostra adesione significa non solo ritirare i nostri rappresentanti dagli organi dell’organizzazione ma anche rifiutare di pagare la quota di adesione per il secondo anno consecutivo.
Questo significa che potrebbe esserci un ritiro dell’Armenia dall’organizzazione?
Potrebbe accadere, ma dipende dalle circostanze. Per il momento non ci sentiamo vincolati dalle decisioni di questa organizzazione, perché non partecipiamo al processo decisionale e non firmiamo le decisioni a nessun livello. Il ritiro è una questione tecnica: potrebbe accadere, ma è una questione giuridica.
In ogni caso, l’adesione formale non ha impedito di ricevere assistenza attraverso il Fondo europeo per la pace, né di costruire relazioni di difesa con i principali membri della NATO, tra cui Stati Uniti, Germania e Francia. Non credo che questa adesione formale sarà un impedimento per altre azioni future sulla strada europea.
Quando pensa che l’Armenia diventerà un Paese candidato all’UE?
Non fissiamo scadenze, perché dipendono non solo dall’Armenia ma anche dagli Stati membri. Quello che so per certo è che, a prescindere dai tempi di presentazione della domanda, abbiamo molto lavoro da fare. Siamo concentrati a fare proprio questo.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-20 20:39:282025-02-21 20:40:43La tortuosa strada dell’Armenia verso l’adesione all’UE (Osservatorio Balcani e Caucaso 20.02.25)
L’Armenia, piccola nazione caucasica, è una delle terre più antiche del mondo, con una storia ricca e complessa che affonda le radici nel IV secolo a.C. La sua posizione strategica tra l’Europa e l’Asia l’ha resa un crocevia di culture, tradizioni e influenze. Da sempre un luogo di incontro tra civiltà, l’Armenia è anche il primo paese ad adottare il cristianesimo come religione di stato nel 301 d.C., un evento che ha avuto un profondo impatto sulla sua cultura e identità. Dopo secoli di dominazioni straniere, tra cui quella persiana, ottomana e sovietica, l’Armenia ha dichiarato la sua indipendenza nel 1991, intraprendendo un cammino di crescita che affonda nella sua millenaria tradizione.
La storia dell’Armenia è indissolubilmente legata alla tragedia del genocidio armeno, perpetrato dall’Impero Ottomano durante la Prima Guerra Mondiale. Nel 1915, più di un milione di armeni furono deportati e uccisi, un evento che continua a segnare profondamente la memoria collettiva del popolo armeno. Oggi, il genocidio è un tema centrale nella narrativa e nell’arte armena, e molti dei rifugiati che riuscirono a scappare hanno trovato casa in tutto il mondo, portando con sé la cultura e le tradizioni di una terra distrutta ma non dimenticata.
Da un punto di vista artistico, la musica armena ha una grande tradizione, con strumenti tipici come il duduk (un antico strumento a fiato) che emana suoni evocativi e profondi. La scena musicale contemporanea dell’Armenia sta vivendo una crescita notevole grazie alla fioritura di nuovi talenti nel panorama mondiale. Un esempio è Tigran Hamasyan, un pianista e compositore la cui musica unisce la potenza dell’improvvisazione jazz, la musica folcloristica della sua terra natale, l’Armenia, e la potenza del rock. Tigran, appena trentenne, è considerato uno dei più straordinari musicisti della sua generazione.
Anche il cinema armeno ha guadagnato sempre più riconoscimenti internazionali negli ultimi decenni. Uno dei registi più importanti è Sergei Parajanov, un artista iconico che ha portato il cinema armeno nel mondo con opere come Il colore del melograno (1969), un film che mescola la poesia visiva con la tradizione armena e che ha avuto un impatto enorme nel panorama cinematografico mondiale. Parajanov ha sviluppato uno stile cinematografico unico, affrontando in chiave surrealista e visionaria le tradizioni popolari delle regioni caucasiche e ucraine. L’anno scorso è stato celebrato il centenario dalla sua morte.
La letteratura armena è altrettanto influente. Grandi scrittori come Hovhannes Shiraz, Yeghishe Charents, e William Saroyan, vincitore del Premio Pulitzer, hanno contribuito a rendere l’Armenia una nazione di grande tradizione letteraria. I temi della memoria storica, del genocidio e della lotta per la sopravvivenza sono al centro delle opere degli scrittori armeni, che raccontano una storia di resilienza e speranza. Shirvanzadeh, uno degli autori più significativi del periodo moderno, ha descritto con grande maestria la complessità delle esperienze sociali e politiche in Armenia.
Yerevan, in quanto capitale, è una testimonianza in continua evoluzione dell’eredità armena e ospita alcuni festival rinomati e conosciuti in tutto il mondo. Tra questi, il GAIFF (Golden Apricot International Film Festival) è rapidamente diventato una destinazione di prim’ordine per i registi regionali, in particolare quelli che promuovono i valori universali di pace, armonia culturale e comprensione reciproca. Di conseguenza, il GAIFF presenta una moltitudine di film che rappresentano varie nazioni, etnie e religioni, che ritraggono collettivamente la piena ricchezza dell’umanità. Il GAIFF si differenzia dagli altri festival cinematografici perché è più piccolo e quindi più intimo, ma nonostante ciò suscita attenzione e rispetto a livello internazionale.
Degna di nota è infine Vardavar, una delle festività più colorate e vivaci dell’Armenia, celebrata con grande entusiasmo durante l’estate, solitamente a metà luglio. La sua tradizione affonda le radici in tempi antichi e ha origini pre-cristiane, quando veniva associata alla divinità del sole e dell’acqua. Con l’adozione del cristianesimo, la festa è stata assimilata nella tradizione armena come una celebrazione della Trasfigurazione di Cristo, ma la sua caratteristica principale è rimasta invariata: il gioco con l’acqua. Durante Vardavar, le persone si sparano acqua a vicenda per le strade, un atto che simboleggia la purificazione e la rinnovata energia della natura. Le famiglie si riuniscono, i giovani si sfidano in giochi d’acqua, e la città si trasforma in un’enorme festa all’aperto. La festività rappresenta anche un’occasione di convivialità, un momento di condivisione e di gioia collettiva, con danze, canti e piatti tradizionali che accompagnano le celebrazioni.
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-20 20:37:012025-02-21 20:39:17Armenia, una terra in dinamismo (Duerighe 20.02.25)
(ANSA) – ROMA, 20 FEB – L’ambasciatore d’Italia a Jerevan, Alessandro Ferranti è stato ricevuto dal primo ministro della Repubblica di Armenia, Nikol Pashinyan. Nel corso del colloquio, nel ricordare i profondi legami storici che uniscono Italia e Armenia, gli interlocutori si sono impegnati a compiere ogni sforzo volto a dare nuovo impulso alla cooperazione bilaterale in ogni settore.
In particolare, si è fatto cenno all’importanza di un ulteriore rafforzamento della collaborazione tra i due Paesi in ambito economico-commerciale, turistico e culturale. (ANSA).
http://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.png00adminwphttp://www.comunitaarmena.it/wp-content/uploads/2022/08/Logo_armenia-04-1-300x92.pngadminwp2025-02-20 20:36:102025-02-21 20:36:43L'ambasciatore Ferranti incontra il primo ministro armeno (Ansa 20.02.25)
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