La Turchia ha davvero commesso un genocidio contro gli armeni? Ecco cosa è avvenuto tra il 1915 e 1923 continua (Geopop 17.12.24)

Il 24 aprile di ogni anno gli armeni di tutto il mondo si raccolgono nelle commemorazioni del Genocidio che il loro popolo soffrì per mano dei turchi durante e dopo la Prima Guerra Mondiale. L’evento è negato da Ankara, ma viene riconosciuto da vari Stati e organizzazioni, comprese l’Italia e l’Unione Europea.

Con l’espressione “Genocidio Armeno” (“Մեծ եղեռն/Medz Yeghern” – “Il Grande Male/Il Grande Genocidio”, in lingua armena) si intende la sistematica distruzione fisica del popolo armeno e della sua identità culturale portata a compimento nel periodo compreso tra il 1915 ed il 1923 dai turchi (con la fattiva collaborazione di numerose tribù curde) che ebbe come esito finale la completa eliminazione dell’elemento armeno dal panorama etno-culturale dell’Anatolia (la penisola sulla quale si distende la Turchia), provocando tra 600.000 e 2 milioni di morti. Parliamo di un evento la cui eco continua a produrre i suoi effetti ancora oggi, negato da Ankara, ma riconosciuto da una trentina di Stati e da organizzazioni internazionali, tra cui l’Italia e l’Unione Europea. L’evento è commemorato dagli armeni ogni 24 aprile.

Gli armeni e l’Impero Ottomano: una storia travagliata

Gli armeni, popolo indoeuropeo di antichissima origine, hanno tradizionalmente abitato per millenni una vasta area montuosa situata a cavallo tra la penisola anatolica, il Caucaso, l’altopiano iranico e il Medio Oriente che, proprio grazie a loro, è nota nella maggior parte del mondo col nome di “Altopiano Armeno” oppure “Tauro Armeno”. In quest’area si sviluppò nel corso dei secoli la loro civiltà, la quale visse costantemente a contatto con le altre popolazioni limitrofe (per esempio, gli assiri) nonché con i grandi imperi che, ad un tempo, hanno dominato l’area (per esempio l’Impero Persiano e l’Impero Romano).

Gli armeni entrarono in contatto con le genti turche a partire dalla seconda metà del XI secolo d.C. quando, dopo la sconfitta subita dall’Impero Romano d’Oriente nel corso della battaglia di Manzicerta (26 agosto del 1071 d.C.), l’area di loro tradizionale stanziamento cadde stabilmente nelle mani dei turchi Selgiuchidi. A questi ultimi succedettero nel 1299 gli Ottomani, il cui potere sarebbe durato per 623 anni, sino al 1922, poco dopo la fine della Prima Guerra Mondiale.

Per gran parte della parabola storica dell’Impero Ottomano, gli armeni, pur confinati giuridicamente in una posizione di “inferiori” in base al sistema dei “millet” che separava i sudditi della “Sublime Porta” in base all’appartenenza religiosa, riuscirono comunque a ritagliarsi una posizione di estrema rilevanza a livello politico, economico e culturale all’interno del grande stato multinazionale e multiconfessionale.

A partire dal 1700 però, con l’inizio della lunga decadenza ottomana, la loro condizione sociale (come quella delle altre minoranze) andò via via peggiorando tanto che, quando il movimento rivoluzionario/riformatore dei cosiddetti “Giovani Turchi” (formalmente: Comitato Unione e Progresso) organizzò, nel 1908, una rivoluzione per abolire la monarchia assoluta e riformare e modernizzare l’Impero, gli armeni (così come le altre minoranze etno-religiose) la appoggiarono entusiasicamente sperando che questo avrebbe significato l’inizio di una nuova era.

Il Genocidio Armeno
La fiducia con la quale gli armeni salutarono l’instaurazione del governo dei “Giovani Turchi” si dimostrò assolutamente mal riposta. Essi infatti istituirono una spietata dittatura militare con a capo il triumvirato composto dai ministri İsmail Enver Pasha, Mehmed Talât Pasha e Ahmed Cemâl Pasha che nel 1914 spinsero l’Impero Ottomano a entrare in guerra dalla parte degli Imperi Centrali (Germania, Austria-Ungheria e Bulgaria) contro le potenze dell’Intesa, in particolare la Russia.

La guerra però andò malissimo per i turchi, tanto che il triumvirato al potere decise, specialmente dopo la sconfitta sofferta tra il 22 dicembre del 1914 ed il 17 gennaio 1915 nella battaglia di Sarikhamis contro la Russia, di accusare gli armeni e le altre etnie cristiane all’interno dell’Impero di preparare una sollevazione filorussa e di voler pugnalare i musulmani alle spalle.

I volti di alcuni tra le centinaia di intellettuali armeni arrestati e deportati nella notte tra il 23 ed il 24 aprile 1915. Credit: Soviet Armenian Encyclopedia, Settimo Volume
Nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915, centinaia di membri dell’intellighenzia dell’influente comunità armena di Costantinopoli vennero arrestati e deportati verso le aree interne dell’Impero. Nelle settimane e nei mesi successivi gli ordini di deportazione vennero estesi a tutto il territorio dell’Anatolia coinvolgendo la totalità della popolazione armena locale. Milioni di armeni di ogni età ed estrazione sociale vennero deportati a piedi in condizioni terrificanti fino alle zone desertiche attorno alla città siriana di Deir ez-Zor che divennero una sorta di enorme “campo di concentramento a cielo aperto” per i poveri malcapitati.

Peraltro, gli armeni non furono le uniche vittime delle politiche del governo dei “Giovani Turchi” dato che, parallelamente, essi ordinarono la deportazione e lo stermino anche dei greci e degli assiri e solo il deterioramento della situazione al fronte nell’ultimo periodo della guerra impedì che anche i cristiani maroniti libanesi e gli ebrei di Palestina subissero sorte analoga.

Non si deve credere però che l’odissea degli armeni e delle altre popolazioni cristiane dell’Anatolia si sia conclusa con la fine della Prima Guerra Mondiale, dato che negli anni successivi, nel corso di quella che è passata alla storia come “Guerra d’Indipendenza Turca” (1919-1923), il generale Mustafa Kemal Atatürk a tutti gli effetti portò a compimento quanto era stato lasciato in sospeso dai “Giovani Turchi” completandone l’opera di pulizia etnica ai danni delle comunità non musulmane, base dell’istituzione su base etnonazionale della moderna Repubblica di Turchia.

Una memoria negata e un futuro incerto
E’ molto difficile dire con certezza quale sia stato il prezzo finale in termini di vite umane che il genocidio armeno ha inflitto al suo popolo. La maggior parte delle fonti parlano di un numero di vittime che va dai 600.000 a 1.500.000 (quest’ultima è la cifra più ricorrente nei libri di storia) ma è qui necessario specificare che le stesse fonti limitano l’arco temporale dell’indagine al periodo compreso tra il 1915 ed il 1918.

Se venissero contati anche gli eccidi della “Guerra d’Indipendenza Turca”, allora il totale potrebbe toccare i 2.000.000, su una popolazione totale di armeni, dentro e fuori dall’Impero Ottomano, che non superava i 3.500.000. Il risultato pratico di questo violento processo di eradicazione fu che, dopo il 1923, la plurimillenaria presenza del popolo armeno nelle sue terre d’origine ha completamente cessato di esistere.

Oggi, nella moderna Turchia, vivono non più di 40-50.000 armeni, per la quasi totalità concentrati nella città di Istanbul mentre tutto ciò che è rimasto di loro nei territori interni dell’Anatolia sono le rovine di un glorioso passato. Centinaia di migliaia di superstiti si sparsero in giro per il mondo gettando le basi per quella che oggi è la fiorente diaspora armena (“Spyurk”) che conta milioni di individui, soprattutto in Russia e nei paesi occidentali. Sorte analoga è toccata ai greci e agli assiri, anch’essi a tutti gli effetti scomparsi dal territorio anatolico.

Per decenni i sopravvissuti e i loro discendenti hanno lottato per ottenere giustizia, ma tale circostanza non si è mai verificata. Ancora oggi, infatti, sebbene 34 Paesi abbiano riconosciuto il genocidio armeno come “genocidio” in piena regola (l’Italia è tra questi), e benchè vi sia stato un pronunciamento quasi unanime a riguardo da parte della comunità internazionale degli storici, esso non ha ancora ottenuto quel riconoscimento internazionale complessivo e totale che ha invece ottenuto la Shoah ebraica avvenuta durante la Seconda Guerra Mondiale.

Vi sono inoltre tre Paesi (il Pakistan, l’Azerbaigian e la Turchia) che negano in maniera esplicita che vi sia mai stato un genocidio. La questione del negazionismo turco relativamente al genocidio armeno è importante non solamente per ciò che attiene alla riconciliazione tra armeni e turchi e al dialogo tra l’Unione Europea e la Repubblica di Turchia, ma anche per valutare le realistiche possibilità di permanenza della Turchia nel campo del cosiddetto “Occidente allargato”.

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La comunità armena di Trieste: «Qui siamo rimasti in dieci famiglie. Le nostre radici vanno tutelate» (Il Piccolo 15.12.24)

La storia della comunità armena disegna un itinerario di inestimabile valore nel centro di Trieste. La chiesa di via Giustinelli è solo la testimonianza più vistosa: dal colle di San Vito, primo e più importante insediamento, fino a corso Italia e via Muratti, di esempi ce ne sono tantissimi e ciascuno di essi è collegato a suo modo al passato della città.

A Trieste la chiesa degli armeni ancora in stallo: «Servono 5 milioni per il suo restauro»
L’esterno della chiesa degli armeni di via Giustinelli, con il campanile e il crocifisso Fotoservizio Massimo Silvano

Il comitato Ararats, fondato nel 2016 proprio per valorizzare la storia peculiare degli armeni-triestini rispetto al resto della Penisola, organizza ciclicamente questo piccolo tour tra le vie del centro città, collaborando con altri enti e associazioni locali. «Oggi la comunità armena è formata da una decina di famiglie», racconta la vicepresidente del comitato Adriana Hovhannessian. Dopo la pandemia, il lavoro di chi collabora con Hovhannessian si è fatto più complicato: «I membri attivi sono pochi e non abbiamo una sede. Però, per essere così pochi, il lavoro fatto è più che soddisfacente».

Seguiamo il percorso che Ararats ha ideato per illustrare il passato della comunità armena a Trieste. «Si parte da San Giusto – continua Hovhannessian – dove si trova una lapide che attesta la presenza di un vescovo armeno in città nel Settecento». Da qui il pretesto con cui ripercorrere le origini della comunità nel territorio giuliano, che alla fine del Settecento contava 550 persone. Sono due le spinte che hanno portato molte famiglie a cercare fortuna a Trieste: da un lato c’entra il fattore religioso, legato ai movimenti dei padri mechitaristi, dall’altro quello commerciale, vista la nota attrazione del porto franco.

Da San Giusto si scende in direzione di via Ciamician, uno dei più illustri rappresentanti della storia armena triestina. L’itinerario si perde così tra le strade del colle di San Vito, molte delle quali recano cognomi armeni: dai più noti come Ananian ai meno scontati come Hermet. Si passa davanti ai più celebri palazzi, si respira più in generale un’atmosfera comune, le cui tracce sono recate dall’architettura e da un medesimo “tocco” artistico-culturale.

Una delle ultime tappe è corso Italia, davanti al palazzo ora sede dell’hotel Modernist che rientra nell’enorme eredità immobiliare di Gregorio Ananian. Il giro si conclude al laboratorio di ottica Zingirian in via Muratti, all’interno del quale è ancora presente un quadro che riporta il Padre nostro in lingua armena.

Alla luce di uno spaccato così ricco di suggestioni, non possono che sorgere alcune domande. Benché così prolifica per la storia di Trieste, la comunità armena appare oggi ancora poco conosciuta, come fosse rimasta in secondo piano rispetto ad altre minoranze. Certo un ruolo l’hanno giocato i numeri esigui delle famiglie rimaste di cui si diceva all’inizio. Eppure i numeri non danno una risposta esaustiva. «Rispetto ad altre culture come quella ebraica – riflette Hovhannessian – gli armeni hanno una facilità di integrazione maggiore con la comunità d’arrivo». Il che ha anche riflessi concreti, dato ad esempio dal fatto che essi non sono tenuti al rispetto dell’endogamia. Se la «facilità di integrazione» ha fatto la fortuna di molti cittadini armeni, al contempo ha acuito il rischio di dispersione delle radici nazionali. «A Trieste – confessa Hovhannessian – sono l’unica che sa ancora parlare la lingua armena». —

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A Trieste la chiesa degli armeni ancora in stallo: «Servono 5 milioni per il suo restauro» (Il Piccolo)

Armeni in fuga: la “nuova” Siria targata Turchia ricorda troppo il passato (InsiderOver 15.12.24)

Il regime siriano di Bashar al-Assad è crollato e in soli dieci giorni la fine del Governo che da oltre cinquant’anni dominava a Damasco ha portato i militanti d’opposizione a conquistare la parte del Paese in mano agli ex lealisti e ha stravolto la mappa del Paese levantino. Ora che il governo di transizione di Mohammad al-Bashir, vicino al gruppo militante Hay’at Tahrir al-Sham, si è insediato a Damasco, il Paese guarda con attenzione al futuro, e in particolare vi guardano le minoranze che a lungo hanno contribuito a costituire una Siria plurale. Cosa resterà di questo Paese dopo tredici anni di guerra civile? A chiederselo sono i curdi e le vaste minoranze cristiane, tra cui gli armeni.

La storia degli armeni in Siria è di lungo corso e legata ai grandi drammi dell’ultimo secolo. “Per poter capire la situazione degli armeni in Siria bisogna guardare alla storia”, dice a InsideOver il professor Baykar Sivazliyan, a lungo docente di Lingua e cultura armena presso l’Università degli Studi di Milano e oggi presidente dell’Unione degli Armeni d’Italia. “Mezzo secolo fa gli armeni in Siria erano oltre 200mila”, nota Sivazliyan, “e c’era grande gratitudine per il fatto che l’insediamento più consistente fosse stato favorito dall’aiuto dato dagli arabi del Paese ai sopravvissuti del genocidio del 1915”.

Gli armeni e la Siria, una lunga storia di convivenza

I massacri di armeni nell’Impero Ottomano e la politica genocidiaria condotta dal governo di Istanbul durante la Grande Guerra generarono una “geografia del dolore” per questo popolo perseguitato che si sovrappose, drammaticamente, con luoghi della Siria tornati a far parlare di sé negli anni cupi della guerra civile. Tra il 1915 e il 1916, centinaia di migliaia di armeni furono costretti a vere e proprie marce della morte dall’Anatolia al deserto siriano, diretti a Deir ez-Zor. Gli anni bui del genocidio videro gli arabi di Siria prodigarsi, in diversi casi, a favore dei deportati: la memoria armena ricorda, ad esempio, il contributo dato dal sindaco di Deir ez-Zor, Haj Fadel Al-Aboud, per alleviare le condizioni drammatiche dei deportati.

Baykar Sivazliyan

Quello fu l’inizio di un rapporto che, nota Sivazliyan, “è durato per decenni. La guerra civile”, dice il presidente della comunità armena in Italia, ha creato grandi sconvolgimenti: “già dieci anni fa questo numero si era dimezzato”, a poco tempo dallo scoppio del conflitto del 2011. Europa e Usa sono stati i principali luoghi di destinazione della comunità armena in fuga dalla Siria. L’avanzata dei militanti filo-turchi che ha travolto il regime di Assad ha portato con sé un aumento delle fughe di armeni dalle aree investite dall’offensiva: “Pensiamo ad Aleppo. Prima della guerra vi vivevano almeno 80mila armeni, ad oggi stando alle informazioni più recenti in nostro possesso non ne restano più di 15mila, e in totale in tutta la Siria saremo attorno ai 40mila“.

“A prescindere dal giudizio politico sul regime di Assad, che non è il centro della questione”, nota il docente, “sottolineiamo l’emersione di una profonda sfiducia da parte di molti armeni di fronte all’avanzata di forze legate a una potenza ingombrante come la Turchia, che al nostro popolo evoca tempi bui della storia, e la cui ingerenza in Siria si è fatta sempre più palese”. Del resto, Sivazliyan nota che “l’attenzione mediatica si è spostata sulla Siria nei giorni dell’offensiva, ma era mesi che il Paese si era surriscaldato e le forze turche e i loro alleati avevano iniziato una crescente pressione su comunità come quella dei curdi, e questo genera un sentimento di sfiducia”.

Un destino incerto

Insomma, “il destino degli armeni è incerto”, e lo è ad Aleppo, a Damasco o in località dove questa comunità è molto radicata, come l’area di Chessab vicino Latakia. Ad ora non si registrano vessazioni da parte dell’ex opposizione ora al governo. “I rappresentanti dei rivoltosi hanno avuto numerosi contatti con la comunità e la Chiesa armena dando ampissime rassicurazioni che non succederà nulla”, segnala Sivazliyan, ma l’attenzione è alta: “Se inizieranno ad imporre l’ideologia islamista, a segregare i ragazzi e le ragazze nelle scuole o a trattare gli armeni come cittadini di serie B, sarà un problema. Però capisco i miei connazionali che appena hanno visto la situazione, malgrado le garanzie date in questi giorni, sono andati via”, nota il presidente. Due anni fa Chessab è stata attaccata da gruppi filo-turchi che hanno colpito il patriarcato armeno, divelto diverse tombe nei cimiteri e “richiamato alla mente scene che pensavamo dimenticate”, nota l’accademico armeno.

L’ipotesi di trovarsi in una Siria filo-turca e legata alle volontà politiche di Recep Tayyip Erdogan ha spinto molti armeni a non sentire più il Paese come casa propria. E fresco è ancora, nota Sivazliyan, “il ricordo dell’esodo degli armeni dal Nagorno-Karabakh, che ha portato il nostro Paese, di meno di 3 milioni di abitanti, ad accogliere 120mila profughi scacciati dagli azeri, dopo le recenti guerre e la conseguente pulizia etnica, strategie avallate dalla Turchia di Erdogan, dalla regione che rappresenta una delle culle della nostra storia”, il tutto “nel silenzio del mondo e ignorate dalla stragrande maggioranza dei media occidentali”. Impossibile cancellare i traumi della storia, recente e remota, su un popolo: la sensazione che gli armeni possano non sentire più la Siria come casa propria emerge, ed è una delle problematiche a cui la nuova leadership dovrà dare risposta. Ammesso che abbia intenzione di farlo.

«Monsieur Aznavour», il cantautore della vita (Il Manifesto 14.12.24)

Diretto da Mehdi Idir e Grand Corps Malade, Monsieur Aznavour ripercorre la costruzione di un monumento: la storia di un uomo dalla volontà di ferro, nato Aznavourian cento anni fa. Dal ragazzino figlio di profughi armeni agli esordi nella canzone in coppia con Pierre Roche, poi l’incontro con Edith Piaf fino ai primi successi e al decollo di un’incredibile carriera musicale che lo vedrà metter in fila più di 1.300 canzoni, molte delle quali destinate alla gloria. Ne esce fuori un sorprendente omaggio a una figura unica, il cui percorso artistico ed esistenziale merita ammirazione e rispetto perché disseminato di mille difficoltà, che non gli impediscono tuttavia di realizzare i suoi sogni più folli, nonostante l’accanimento feroce dei suoi detrattori, che fin dall’inizio della sua carriera non hanno mai smesso di mettere in croce «le petit Charles», questo figlio di profughi basso e brutto, senza grazia, con la voce nasale, velata e come arrugginita.

Lui però ha capito che solo il lavoro poteva essere la chiave per arrivare laddove sognava di arrivare. Per cui non ha mai smesso di faticare: «17 ore al giorno» fino alla fine. La sua giovinezza se ne va via così in un soffio. Colui che diventerà il più internazionale dei «cantautori» francesi non ha avuto il tempo di frequentare nessuna scuola, se non quella della strada, e qualche veloce corso di teatro.

Ogni capitolo prende il nome da una canzone: quasi a dimostrare quanto la vita dell’artista (le sue lotte, i suoi amori, i suoi incontri) abbia nutrito il suo lavoro: da Les deux guitares, scritta per ricordare la sua infanzia, a La Bohème, un brano degli anni ’60 che parla invece della sua giovinezza, e così via. Ma il successo straordinario del film è dovuto soprattutto all’imponente lavoro di identificazione fisica dell’attore franco-algerino Tahar Rahim con il suo modello canoro. Una scelta apparentemente inopportuna, visto che l’interprete del Profeta di Audiard somiglia poco e niente ad Aznavour. Invece guardando il film il risultato man mano viene fuori ed è impressionante. Rahim rende la messa in scena del suo personaggio non solo credibile, ma sempre più realistica attraverso i suoi gesti, gli sguardi, le intonazioni, fino a essere perfettamente Aznavour anche quando canta. È lui infatti a interpretare tutte le canzoni del film, tranne alcuni passaggi su note talmente acute da rendere il suo timbro troppo diverso da quello del cantante armeno. Come è noto, il «botto» nella carriera del nostro chansonnier avviene quando, per uscire dal tunnel dell’anonimato decide di «ridimensionare» il suo imponente naso.

ALLO STESSO modo Tahar Rahim, aiutato da alcuni accenni di protesi, riesce a fondersi con il personaggio e a trasmettere i suoi gesti e la sua energia in particolare nelle interpretazioni di brani come Je m’voyais déjà o Comme ils disent sulla vita notturna di un travestito. Degli altri attori, da ricordare Bastien Bouillon nella parte di Roche, il pianista compositore in coppia con Charles nel periodo a cavallo tra gli anni ’40 e ’50; e soprattutto Marie-Julie Baup nel ruolo di una sontuosa Édith Piaf.
Un biopic un po’ saggio e a volte accademico nella sua struttura narrativa, ma gli va riconosciuto che si tratta di un grande film di attori. Una messa in scena che si muove tra il classico e la nouvelle vague, anche se a volte rischia movimenti di macchina ambiziosi di grande effetto. Quello che gli manca è forse un po’ di profondità, di cattiveria critica, come per esempio la tragedia e la morbosità che Olivier Dahan vedeva in La Môme, il film su Piaf. Così nonostante le canzoni e le emozioni, Monsieur Aznavour non riesce a farci arrivare il lirismo, a volte doloroso, di quel modo di fare musica tipico di Monsieur Aznavour.

L’ambasciatore De Riso lascia l’Armenia (Aise 13.12.24)

JEREVAN\ aise\ – Nelle scorse due settimane, l’ambasciatore d’Italia a Jerevan Alfonso Di Riso ha effettuato le rituali visite di commiato, in occasione della conclusione della propria missione in Armenia.
Di Riso ha avuto il piacere di incontrare: il presidente della Repubblica Vahagn Khachaturyan; il primo ministro Nikol Pashinyan; il presidente dell’Assemblea Nazionale Alen Simonyan; il vice primo ministro Mher Grigoryan; il ministro per l’Educazione, la Scienza, la Cultura e lo Sport Zhanna Andreasyan; e il vice ministro degli Affari Esteri Paruyr Hovhannisyan.
Durante i colloqui si è discusso della situazione geopolitica regionale e dello stato delle relazioni bilaterali, con particolare attenzione ai diversi settori di mutua e proficua collaborazione.
L’ambasciatore è stato inoltre ricevuto da Karekin II, catholicos di tutti gli armeni.
Le varie personalità hanno espresso il profondo riconoscimento per l’attività dell’Ambasciata d’Italia e dell’ambasciatore Di Riso, manifestando gratitudine per il personale impegno profuso nella promozione e nel rafforzamento dei rapporti tra i due Paesi, come anche dimostrato dalle reciproche visite di alto livello che hanno avuto luogo negli ultimi anni e dai numerosi progetti comuni avviati.
L’ambasciatore Di Riso, dal suo canto, ha espresso un sentito ringraziamento per la proficua collaborazione e per il clima di mutua fiducia e stima in cui ha potuto svolgere il proprio mandato. Dando voce a un pensiero condiviso anche dalle alte cariche politiche armene, l’ambasciatore Di Riso ha evidenziato che Roma e Jerevan hanno un ulteriore notevole potenziale di cooperazione e che è interesse comune metterlo il più possibile a frutto. (aise)

Dal vino al turismo gastronomico: il riscatto dell’Armenia (Repubblica 13.12.24)

I voli diretti tra Milano e Yerevan partono e tornano sempre pieni: ci sono i russi che passano dalla capitale armena per entrare in Europa ma soprattutto ci sono i turisti, attratti dalle tante sfaccettature di questo piccolo paese del Caucaso. Piccolo solo geograficamente, perché l’Armenia ha segnato la storia mondiale fin dall’antichità: prima nazione ad adottare il cristianesimo come religione di stato (nel 301 d.C.), qui si trova la cantina vinicola più antica del mondo (6mila anni) e la scarpa di pelle più antica, una destra numero 37 creata circa 5.500 anni fa. E se i suoi monasteri, molti dei quali patrimonio Unesco, rappresentano da sempre un richiamo per i viaggiatori, oggi si sceglie l’Armenia anche per i suoi paesaggi naturali, per i suoi ottimi vini e per la ricca cucina.

Turismo in crescita

Non è un caso che Lonely Planet l’abbia inserita nel Best in Travel 2025, la raccolta di previsioni degli esperti su dove viaggiare il prossimo anno. Merito dei paesaggi, della vibrante cultura e della possibilità di fare esperienze destinate a rimanere nella memoria. E, ovviamente, anche della facilità di accesso: dall’Italia la separano quattro ore di volo e i collegamenti aerei sono aumentati rispetto all’anno scorso. La prima è stata Wizz Air, che nel 2023 ha aperto la tratta Venezia Yerevan, seguita quest’anno da voli diretti anche da Milano Malpensa e da Roma Fiumicino. A questi si è aggiunto anche il collegamento diretto di FlyOne da Malpensa alla capitale armena.

 

Di pari passo, aumenta il numero di visitatori: nei primi otto mesi dell’anno, dall’Italia sono arrivati 12.350 turisti (il 2023 si è chiuso con oltre 14.200). Si registra una crescita costante dal 2019, eccettuati ovviamente i due anni di lockdown, un trend che mette la Penisola tra i mercati target dal punto di vista turistico.

Oltre le rotte di massa

“Essere riconosciuti da Lonely Planet come una delle mete imperdibili per il 2025 – sottolinea Susanna Hakobyan, direttore ad interim del Tourism Committee dell’Armenia – mette in luce il fascino unico, la storia e l’ospitalità che rendono l’Armenia speciale”. L’obiettivo, ora, è far scoprire tutte le sfaccettature del paese, che oltre agli antichi monasteri includono molto altro. Non a caso, lo slogan scelto dall’ente del turismo è The Hidden Track: “Non vediamo l’ora di accogliere visitatori da tutto il mondo per esplorare percorsi meno noti”.

 

Terra ricca di storia, antica e recente, l’Armenia è una destinazione culturale da scoprire tutto l’anno e dove l’ospitalità è un valore ancora molto sentito. Si parte dalla capitale Yerevan, che nei piani di Aleksandr Tamanian, l’architetto che nel 1924 fece il primo piano regolatore della capitale, doveva essere una città giardino. Oggi qui risiedono un milione di armeni (sono 2,7 milioni in totale) e il centro storico garantisce ristoranti, locali, il monumentale Cascade, l’iconico complesso di scale e fontane simbolo della città con le tre statue di Botero e le altre opere d’arte regalate alla città dal collezionista Gerard Cafesjian, naturalizzato americano ma di origine armena. E poi l’imperdibile Museo di storia dell’Armenia in piazza della Repubblica, fondato nel 1919 per custodire reperti preziosi per l’umanità: dalla scarpa più antica del mondo alla scrittura cuneiforme, fino alla rappresentazione del sistema solare creata oltre mille anni prima della nascita di Cristo. A 20 km da Yerevan si trova la cattedrale Etchmiadzin, patrimonio Unesco: costruita nel 301 d.C., è la sede della Chiesa apostolica armena ed è stata riaperta al pubblico lo scorso settembre dopo anni di lavori di ristrutturazione.

L’identità armena

Fa parte dell’offerta della capitale anche la fabbrica di brandy Ararat, fondata nel 1887 e il cui simbolo richiama quella che a tutti gli effetti è considerata la montagna sacra degli armeni. L’Ararat, dove secondo il racconto biblico si fermò l’arca di Noè, oggi è in territorio turco ma domina l’Armenia e fa parte della sua identità storica e culturale: un’immagine potente che unisce anche gli armeni della diaspora, sette milioni di persone (tra cui i genitori di Charles Aznavour, molto legato alla madre patria tanto da finanziare gli aiuti dopo il terremoto che colpì l’Armenia nel 1988) scappate dopo il genocidio perpetrato tra il 1915 e il 1916, che causò la morte di un milione e mezzo di armeni. La storia, le immagini e i numeri sono visibili nel museo costruito accanto al memoriale del genocidio armeno, a Yerevan.

 

 

Ararat e vigneti
Ararat e vigneti 

 

 

La cima innevata dell’Ararat domina il monastero Khor Virap, dove si può visitare la grotta nella quale san Gregorio l’illuminatore fu tenuto prigioniero per 13 anni da re Tiridate III, che poi si convertì adottando, nel 301, il cristianesimo come religione di stato. È un luogo di grande impatto scenografico, con la montagna sacra da un lato e i vigneti dall’altro.

L’antica tradizione del vino

La tradizione vinicola in Armenia è molto antica: del resto, lo racconta anche la Bibbia che fu Noè a piantare la vite da cui ricavare il vino. E infatti nella grotta Areni-1, nella regione di Vayots Dzor, è stata ritrovata una cantina di oltre 6mila anni fa, a testimonianza di quanto il vino rappresenti una parte fondamentale della cultura armena. E piace sempre di più: dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, che aveva privilegiato la produzione di brandy a discapito di quella del vino, l’Armenia ha investito per ripristinare la viticoltura e i vitigni autoctoni, tra cui l’Areni a bacca rossa e il Voskahat, a bacca bianca. Oggi si contano 150 cantine (erano 25 nel 2019) tra piccoli imprenditori e grandi realtà, impegnate a sviluppare l’enoturismo con musei, degustazioni ed esperienze tra i vigneti. Un esempio è la cantina Momik Wines ad Areni, a conduzione familiare: produce 4mila bottiglie all’anno e si trova sulla wine route Vayots Dzor Areni. “Arrivano molti turisti, soprattutto dall’Italia – racconta Nver Ghazaryan, proprietario insieme alla moglie Narine – oltre a pranzare con vista sul vigneto, possono fare una degustazione dei nostri vini durante la quale spieghiamo il terreno, la qualità delle uve. L’anno prossimo apriremo tre cottage con le camere per ospitare i turisti”.

 

Diversi sono i numeri di Armenia Wines, cantina che ogni anno produce 40 milioni di bottiglie vino, il 60% delle quali è destinato all’export in Russia, Cina, Stati Uniti e Polonia. L’azienda, che ha anche una produzione annua di 35 milioni di bottiglie di brandy, offre ai turisti visite guidate nello stabilimento, un ristorante aperto a pranzo e cena con specialità tipiche locali e un museo dedicato alla storia del vino armeno, visitato da 12mila persone all’anno.

 

 

Monastero di Noravank
Monastero di Noravank 

 

Viaggio enogastronomico

Non solo buon vino: si viene in Armenia anche per fare turismo enogastronomico perché la cucina tipica è di qualità e usa ingredienti e preparazioni che si ritrovano anche in quella greca, turca e iraniana. Dal pane lavash, patrimonio immateriale Unesco che viene cotto nel tradizionale forno interrato, alle pregiate trote del lago Sevan, luogo di villeggiatura estivo con i suoi monasteri di epoca medievale. Proprio sulle sponde del Sevan c’è un ristorante particolare, considerato uno degli esempi più belli di architettura sovietica: di proprietà statale, è accanto a quella che un tempo era la Casa degli scrittori, voluta dal regime sovietico per ospitare gli artisti.

 

Un pasto armeno si apre sempre con un varietà di insalate e verdure: pomodori, cetrioli, melanzane, il matsum, ovvero lo yogurt, formaggi. E poi piatti a base di riso come il gaphama, una zucca intera cotta al forno e ripiena di riso, uvetta, frutta secca e cannella, carne alla griglia o in umido, e i dolci, tra cui il gata, la torta tipica.

Sedersi a una tavola armena, magari dopo una giornata passata a esplorare il tempio di Garni, unico esempio di architettura greco-romana in Armenia affacciato sulla gola del fiume Garni, il monastero di Geghard, patrimonio Unesco, o quello di Noravank, in mezzo alle pareti di roccia rossa che lo circondano, è la degna conclusione di un viaggio destinato a rimanere a lungo nella memoria.

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Lutto nel mondo della filosofia, scompare Siobhan Nash-Marshall, ha esplorato le origini dei genocidi (Il Messaggero 13.12.24)

E’ scomparsa nella sua casa di New York Siobhan Nash-Marshall, intellettuale, docente di filosofia teoretica al Manhattanville College di New York, autrice di importanti lavori sul genocidio armeno al punto da essere definita la nuova Hanna Harendt per le ricerche filosofiche sulle radici genocidarie. Era malata da tempo e la sua morte ha avuto una grande eco in tutto il mondo, soprattutto all’interno delle comunità armene sparse nel mondo. Poliglotta, parlava diverse lingue, tra cui l’italiano imparato all’Università di Padova e alla Cattolica di Milano,  recentemente aveva partecipato ad una cerimonia alla Camera dei Deputati per il conferimento di un premio alla scrittrice Antonia Arslan, autrice della Masseria delle Allodole, il fortunato romanzo che racconta le origini della sua famiglia scampata ai massacri sotto l’allora impero ottomano e pubblicato vent’anni fa. Il lavoro più importante firmato dalla professoressa Nash Marshall è un un volume intitolato “The Sins of the Fathers. Turkish Denialism and the Armenian Genocide” il primo di una trilogia dedicata al cosiddetto “Tradimento della Filosofia” che poi ha portato agli orrori di tutto il Novecento, compresa la Shoah.

E lo spiegava così: «L’Illuminismo cartesiano significa dividere il mondo della ragione da quello materiale, il mondo dell’esperienza da quello del pensiero. Penso dunque sono. L’approccio di Cartesio però è devastante, congiunto successivamente all’Illuminismo e alla Rivoluzione francese. In pratica quando la filosofia cessa di essere amore della sapienza ma progetto demiurgico per cambiare il mondo. Fichte, Herder, Bentham, Hegel, Marx: il pensiero dell’Ottocento – ad eccezione di Antonio Rosmini – ha come scopo precipuo quello di rendere perfetto il mondo. Il genocidio, allora, è giustificato, terribilmente, da una specifica visione del mondo». Tra tutti i genocidi, soprattutto tra quello armeno e quello ebraico, esiste un legame filosofico. E lo stesso Hitler, secondo Nash Marshall, prese a modello l’efficienza turca nel gestire il genocidio armeno, replicando il ‘metodo’ con gli ebrei. In una recente intervista questo intreccio veniva spiegato così: «La politica antiarmena, in Germania, cominciò nel tardo Ottocento, quando una massiccia pubblicistica mostrava l’armeno come ‘l’ebreo d’Oriente’, come ‘il virus’. La Germania aveva mire espansionistiche verso l’Impero Ottomano e interesse nel dileggiare gli armeni. Quanto a Hitler, certo, vide nel genocidio armeno una possibilità realizzata. Se i Turchi ce l’avevano fatta, anche Hitler, allora, avrebbe potuto compiere gli stessi orrori senza particolari pericoli. Le analogie sono agghiaccianti: anche nel nazismo, ad esempio, ha un peso il ‘motivo biologico’ già cavalcato dai Giovani Turchi, in era di darwinismo rampante. I turchi, bravi figliocci del materialismo tedesco e francese, misuravano i crani per dimostrare che erano loro i veri autoctoni di Turchia». Per uscire da questa spirale che Nash Marshall chiamava “il tradimento della filosofia”, occorrerebbe «recuperare la concretezza filosofica, altrimenti – come è già drammaticamente accaduto – ci troveremo a decidere che cosa è umano e cosa non lo è, indipendentemente dalla realtà dei fatti».

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La nostra amica Siobhan ha attraversato l’ultimo confine (Tempi 13.12.24)

Siria, Marco Travaglio. Una Storia assai Probabile di Padelle e Braci. A Vantaggio di Chi? (Stilum Curiae

Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae offriamo alla vostra attenzione questo commento sulle vicende siriane di Marco Travaglio, pubblicato da Infosannio, che ringraziamo per la cortesia. In Siria intanto si  scatenano le vendette – senza processo – contro gli alawiti, la setta islamica a cui appartengono gi Assad, ed è stata bruciata la tomba dell’ex presidente Hafez El Assad. Un panorama rassicurante…buona lettura e diffusione.

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La padella e la brace
(di Marco Travaglio
“L’idea di avere in Siria un nuovo Califfato jihadista al posto della tirannide degli Assad riempie di entusiasmo gli scemi di guerra atlantoidi. Rimbambiden, Macron, Ursula, Metsola, Kallas e Zelensky esultano per la fine della dittatura senz’accorgersi che ne è già iniziata un’altra, che ci odia più della precedente. Repubblica e Stampa squadernano l’album fotografico del capo dei cosiddetti “ribelli” al Jolani, segnalandone la poetica somiglianza con Fidel Castro. Ma sul web c’è chi giura che il simpatico seguace di al Zarqawi e al Baghdadi, grande fan dei massacri delle Torri Gemelle e del 7 Ottobre, ricercato dagli Usa con taglia di 10 milioni come uno dei terroristi più pericolosi del mondo, ricordi anche Borat (al netto del costumino con sospensorio e bretelle), Che Guevara, Gesù e forse – parlando con pardòn – Draghi. Il Foglio tripudia per le “due vittorie dell’Occidente dietro la caduta di Assad” (non una: due).
Sambuca Molinari gongola per “il successo della Turchia di Erdogan”, l’autocrate e macellaio di curdi che, essendo iscritto al club Nato, sfugge alla spiacevole distinzione “aggressore/aggredito”. Infatti anche la pulizia etnica di 120 mila armeni in Nagorno Karabakh a opera dei suoi complici azeri è stata, per Sambuca, un “successo”.
Pensare che, siccome Assad era (anche) amico di Putin e dell’Iran, la sua caduta sia una benedizione, è roba da menti malate che scambiano la geopolitica per un derby di calcio. I mujaheddin erano belli e buoni quando combattevano (con le nostre armi) gli invasori russi, poi divennero “talebani” brutti e cattivi quando (sempre con le nostre armi) combattevano gli invasori Nato.
Saddam era un caro amico quando combatteva (con le nostre armi, anche chimiche) gli ayatollah, poi divenne un puzzone quando, finite le nostre armi chimiche, inventammo che le avesse ancora per poterlo invadere ed esportare la democrazia in Iraq mettendo gli sciiti al posto dei sunniti.
Solo che questi crearono il Califfato dell’Isis e ci toccò combatterli con l’aiuto di russi, iraniani e siriani, un po’ meno cattivi di prima, e col sacrificio dei curdi, poi mollati nelle grinfie di Erdogan.
Intanto Obama e altri geni spasimavano per le Primavere Arabe, che però vinsero le elezioni in Egitto: allora le schiacciammo con il golpe di Al Sisi. Per non parlare della Libia dopo Gheddafi. Ora che si insediano a Damasco i reduci Isis&al Qaeda, con una decina di bande di tagliagole pronte a scannarsi per il potere, i soliti gonzi parlano di “Siria liberata”, “primavera siriana”, “jihadisti moderati” e “pragmatici”.
Si illudono che, se uno è cattivo, il suo nemico sia buono. E che, se uno perde, l’altro vinca.
Prima o poi capiranno che, nel nuovo caos mondiale, sono tutti cattivi e perdiamo tutti.
Marco Travaglio

Scoperta in Armenia una delle più antiche chiese cristiane al mondo (Scienzenotizie 12.12.24)

Un edificio dalla forma ottagonale che riscrive la storia dell’Armenia. Si tratta di una chiesa cristiana, la cui scoperta è stata di recente annunciata, e che si ritiene essere una delle più antiche del Paese. Del resto il Paese sarebbe stato il primo stato cristiano al mondo dopo la conversione al cristianesimo del re Tiridate III. Nella zona non era comune avere edifici con questa forma ma lo era nelle chiese di tutto il mondo, poiché il numero 8 aveva un significato simbolico nel contesto biblico.

La struttura è stata individuata nell’antica città di Artaxata e risalirebbe alla metà del IV secolo d.C. Pertanto si tratta della chiesa più antica del Paese documentata archeologicamente e fornisce ulteriori prove del cristianesimo primitivo in Armenia, come dichiarato da Achim Lichtenberger, professore presso l’Università di Münster, in una nota.

“Finora le chiese ottagonali erano sconosciute qui”, ha dichiarato Mkrtich Zardaryan dell’Accademia nazionale delle scienze in Armenia in una dichiarazione, “ma le conosciamo molto bene dalla regione del Mediterraneo orientale, dove sono apparse per la prima volta nel IV secolo d.C.” Le prime chiese cristiane, ricordano gli esperti, avevano spesso la forma di un ottagono, che era un simbolo della resurrezione di Gesù e, più in generale, della rinascita della vita.

Il ritrovamento, datato al radiocarbonio alla metà del IV secolo d.C., presenta una struttura ottagonale di circa 100 piedi di diametro con un semplice pavimento in malta e piastrelle in terracotta. I ricercatori hanno notato che le estensioni a forma di croce mostravano resti di piattaforme di legno. Gli archeologi hanno anche trovato resti di marmo che suggeriscono che la chiesa fosse riccamente decorata con materiali importati dal Mediterraneo.

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Al via in Armenia Forum Globale contro il crimine di genocidio (Ansa 12.12.24)

YEREVAN – “Il rischio di genocidi al mondo è sempre più presente, ed è urgente trovare modi più rapidi di intervenire per prevenirli, e l’unica vera garanzia in questo riguardo è il rispetto del diritto internazionale.

Ma è altresì chiaro che per rendere questa garanzia effettiva serve cooperazione internazionale sul piano politico”.

Lo ha detto il ministro degli esteri armeno, Ararat Mirzoyan, durante il suo discorso introduttivo al quinto Forum Globale contro il crimine di genocidio, in corso a Yerevan, in Armenia. L’Armenia è promotore del Forum Globale contro il crimine di genocidio dal 2015 e ha organizzato in passato 4 edizioni nel 2015, 2016, 2018 e 2022. Presenti a Yerevan diverse personalità di spicco tra cui l’ex presidente lettone Egils Levits, l’inviata speciale Onu Francesca Albanese, il presidente della repubblica d’Armenia Vahagn Khachaturyan, il direttore del Istituto Wiesenthal di Vienna per gli studi sull’Olocausto Jochen Böhler, ed il primo procuratore capo della Corte penale internazionale Luis Moreno Ocampo. “La corte penale internazionale e i tribunali speciali hanno un ruolo chiave nella prevenzione e nella persecuzione dei genocidi”, ha spiegato Levits. “L’invasione russa in Ucraina, ad esempio, porta segni di volontà di genocidio, come le uccisioni, i trasferimenti forzati di bambini, e la volontà di cancellare fisicamente un identità. Ci sono tutte le indicazioni della necessità di un tribunale speciale a riguardo. Preoccupazioni simili desta il comportamento delle truppe israeliane a Gaza”, ha aggiunto l’ex presidente lettone. “L’importanza di riconoscere un genocidio è legata alla possibilità di poter curare le ferite lasciate, un genocidio non riconosciuto è un ferita aperta che viene passata alle future generazioni”, ha concluso Levits nel suo discorso di apertura.

“Il diritto umanitario internazionale è stato massacrato e distrutto a Gaza ed è una delle prime vittime di questo massacro. Israele ha trasformato Gaza in uno spazio senza civili in cui tutti si ha licenza di uccidere chiunque, e ora vediamo questo sistema riprodursi anche in altre parti della regione. Questo oltre ad essere un crisi umanitaria è una crisi del diritto internazionale”. Lo ha affermato Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu sui diritti umani nei territori palestinesi occupati, parlando al Forum Globale contro il crimine di genocidio in corso a Yerevan, in Armenia. “Gaza oggi con oltre 40.000 persone uccise e 17.000 mila bambini uccisi è distrutta ed eliminata dalla storia, Gaza non esiste più come la conoscevamo”, ha concluso Albanese.

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