Henrikh Mkhitaryan: un ambasciatore dell’Armenia tra calcio e cultura (News.sport 21.11.24)

Il centrocampista ha rivelato aspetti poco noti della sua vita e il desiderio di rappresentare il suo popolo, sottolineando l’importanza dell’intelligenza dentro e fuori dal campo.


Un calciatore con due lauree

Henrikh Mkhitaryan, intervistato dal Corriere della Sera, ha svelato un lato inedito della sua personalità, raccontando con orgoglio dei suoi successi accademici: “Ho due lauree: una in Sports management e l’altra in Economia.” Un percorso che dimostra come il talento calcistico possa convivere con un forte impegno intellettuale.

Mkhitaryan ha anche parlato della sua capacità di leggere il gioco, collegandola a una visione più ampia: “Ci sono giocatori che vedono le cose prima degli altri. Questa è intelligenza calcistica.”


Ambasciatore culturale

Uno degli obiettivi di Mkhitaryan è portare alla ribalta la cultura armena, facendosi portavoce della sua storia e tradizioni: “Conoscendo me, la gente conosce un po’ l’Armenia. Prima la confondevano con Albania o Romania, ma adesso sanno dov’è. Siamo il primo popolo a riconoscere la religione cristiana.” Inoltre, ha trovato affinità con l’Italia, paese che ama per il suo stile di vita: “Siamo simili agli italiani nel modo di vivere.”


Intelligenza dentro e fuori dal campo

Rispondendo a una domanda provocatoria sull’intelligenza, Mkhitaryan ha chiarito la sua visione: “Non credo si possa essere intelligenti in campo senza esserlo fuori. Si vede subito chi lo è davvero e chi invece finge.” Con queste parole, il giocatore evidenzia come le qualità mentali si riflettano tanto nella carriera sportiva quanto nella vita quotidiana.


Commento personale
Mkhitaryan rappresenta un esempio positivo di come lo sport possa diventare un mezzo per valorizzare la cultura e promuovere il dialogo tra popoli. La sua dedizione sia dentro che fuori dal campo dimostra che il calcio può essere uno strumento di ispirazione non solo per i tifosi, ma anche per chi cerca modelli di crescita personale e culturale.

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Quando “genocidio” viene usato a sproposito. È voler distruggere interamente un popolo (ll Giornale 20.11.24)

Genocidio è voler distruggere interamente un popolo, una nazione, un’etnia, un gruppo religioso oppure una razza: espressione, quest’ultima, ancor oggi in uso. Abbiamo scritto distruggere «interamente» e non «in parte» perché «interamente» fu l’espressione intesa per decenni e adottata in origine dall’avvocato Raphael Lemkin (polacco) che inventò appunto l’espressione «genocidio» nel 1944 per definire il genocidio armeno; lo fece in un suo libro, Axis Rule in Occupied Europe, e l’espressione fu usata per la prima volta durante il processo di Norimberga del tardo 1945: l’intenzione era fornire il diritto internazionale di strumenti idonei a garantire la tutela di un popolo, di una nazione, di un’etnia eccetera. Per comprendere quindi l’espressione «genocidio» in questa attualità dove è grande la confusione sotto il cielo (persino il cielo di San Pietro) andrebbe ricordato che fu pubblicamente Hitler, nel 1939, a dire che in Polonia bisognava ammazzare senza preoccuparsi: «Chi mai si ricorda, oggi, dei massacri degli armeni?». E invece non ne siamo ancora usciti: la nazione di Erdogan nega ancor oggi il genocidio degli armeni e nel 1980, negli Usa, fu promosso un museo sugli olocausti ma le minacce turche per escludere i riferimento agli armeni ottennero soddisfazione; nel 1982, la Turchia fece analoghe pressioni per impedire un convegno a Tel Aviv dedicato alla Shoah che doveva affrontare anche la questione armena; nel 2000, il ministro dell’Istruzione israeliano disse che il genocidio degli armeni sarebbe stato inserito nei programmi scolastici, ma la Turchia, per rappresaglia, non partecipò alla celebrazione per la nascita di Israele; nel 2006 Francia approvò una legge che punisce chi propaga teorie negazioniste sul genocidio, e questo, attenzione, mentre una durissima legge turca oggi incarcera chi solo lo menziona.

A complicare le cose, allora come oggi, fu l’Onu. Tra il 1946 e il 1948 codificò il reato di genocidio, e il passaggio che riguardava «gli atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte» fu scambiata per una volontà di distruggere anche espressamente «in parte», e non per una volontà che banalmente non era stata soddisfatta per intero. Il messaggio nazista tuttavia era stato chiaro: l’Olocausto degli ebrei e dei rom fu delegato a motivazioni esclusivamente razziali, e si parla di etnie destinate perciò non alla sudditanza, come altre, ma alla morte e basta. Di tutti. L’Onu, col tempo, prese peraltro ad associare il reato di genocidio ai crimini di guerra e contro l’umanità, e la confusione fu ancora più grande. Ciascuna nazione, poi, apportava magari delle piccole modifiche alle Convenzione sul genocidio del 1948 (cui l’Italia aderì nel 1967) e la Francia, per esempio, incluse il reato di genocidio tra quelli commessi ai danni di «un gruppo determinato sulla base di qualsiasi criterio arbitrario». Oggi, nel marasma dottrinario, si parla di «genocidio di sviluppo» (se le vittime ostacolano un progetto economico), «genocidio dispotico» (contro gli oppositori), «genocidio retributivo» (tra gruppi che abitano uno stesso spazio) e «genocidio ideologico» (per motivi religiosi o politici).

Ed eccoci finalmente all’oggi, a Israele, i cui metodi di guerra impiegati nella Striscia di Gaza, secondo l’Onu, «hanno le caratteristiche di un genocidio» come affermato nel novembre scorso. Ma, comunque la si pensi, gli israeliani non vogliono distruggere tutti i palestinesi in quanto tali: vogliono distruggere quelli che vorrebbero distruggere Israele o che siano ritenuti complici nel volerlo fare; non è che il Mossad vada in giro per il mondo ad ammazzare tutti i palestinesi, o preveda il loro sterminio come popolo sino ad estinguerne le prevalenze genetiche. Si può certo stra-discutere dell’enorme numero di vittime civili, del rispetto dei diritti umani, di eventuali crimini di guerra: ma «genocidio», orma. è divenuto un termine d’uso comune che sottintende l’omicidio di tanta gente di uno stesso posto.

I nazisti volevano cancellare dal genere umano «tutti» gli ebrei, «tutti» i rom, «tutti» gli omosessuali e «tutti» i disabili e i malati di mente: fu questo il tentativo di genocidio. I nazisti non volevano fare lo stesso con polacchi, ucraini, russi e bielorussi: anche se ne fecero fuori una decina di milioni. Esempi più recenti? L’etnia hutu, in Ruanda, nel 1994, voleva estinguere l’intera etnia tutsi. Ma non è il caso di fare elenchi, sarebbero sterminati e comunque giustamente discutibili. Il problema è che, oggi, c’è chi vorrebbe trasformare l’espressione genocidio nell’equivalente de «l’assassinio di qualsiasi persona o popolo da parte di un governo», traducibili anche come «democìdio». E nonostante il Novecento sia stato già definito come «il secolo dei genocidi», le scienze moderne si stanno ingarellando nel retrodatare tutti i «genocidi» sin dall’alba dell’uomo moderno, quando l’homo Sapiens (teoria diffusa) compì il primo genocidio della Storia spazzando via tutti i Neanderthal, anche se impiegò 10mila anni; sino a tempi teoricamente anche più bui, quando spagnoli e portoghesi fecero fuori (complici le malattie) 70 milioni di nativi americani su ottanta, o, restando al Messico, dissolsero 24 milioni di messicani lasciandone vivi solo un milione; per non parlare della strage di aborigeni in Australia, del solo africano su quattro sopravvissuto nella tratta oceanica dall’Africa alle Americhe. Tutto per scoprire che il peggiore dei reati non è neppure un reato, ed è scandalosamente in uso anche alle scimmie antropomorfe a noi più vicine: e si può chiamare missione di pace, intervento umanitario, operazione di polizia internazionale: ma resta e si chiama guerra.

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Le paure degli armeni dopo la pulizia etnica in Nagorno Karabakh (Internazionale 20.11.24)

Nel 2023, l’invasione del Nagorno Karabakh da parte dell’Azerbaigian ha riportato la regione, abitata da secoli da armeni e già teatro di un sanguinoso conflitto dopo la caduta dell’Unione Sovietica, sotto il controllo del governo di Baku. La guerra ha provocato l’esodo forzato di oltre 120mila persone verso il sudest dell’Armenia. Il paese si trova così ad affrontare un’emergenza umanitaria e finanziaria senza precedenti, dovendo garantire casa, cibo e assistenza sanitaria a migliaia di rifugiati.

Intanto, dopo il cessate il fuoco mediato dalla Russia, i negoziati di pace tra Armenia e Azerbaigian per la definizione del confine tra i due paesi restano molto complicati e una nuova escalation non si può escludere.

Il video reportage di Cecilia Fasciani, Alberto Zanella e Clara Leonardi.

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Da sapere
Trent’anni di guerra

Al momento della nascita dell’Unione Sovietica il territorio del Nagorno Karabakh fu assegnato alla repubblica dell’Azerbagian, anche se abitato in larghissima maggioranza da armeni.

Con la disgregazione dell’Urss, nel 1991, le repubbliche sovietiche diventano stati indipendenti e il 2 settembre la regione annuncia la secessione dall’Azerbagian, autoproclamandosi repubblica dell’Artsakh (non riconosciuta dalla comunità internazionale). Il 26 novembre l’Azerbaigian annulla il regime di autonomia per la regione, dando inizio alla fase più intensa del conflitto per il controllo dell’area, conosciuto come guerra del Nagorno Karabakh (1991-1994), che provoca circa 30mila morti e centinaia di migliaia di profughi, soprattutto azeri, costretti a fuggire dalla regione in Azerbaigian.

Il cessate il fuoco del 1994 firmato a Biškek, capitale del Kirghizistan, è una vittoria per l’Armenia, che prende anche il controllo di una parte dei territori azeri al confine con il Nagorno Karabakh.

Il conflitto rimane latente fino alla “guerra dei quattro giorni”, nel 2016, che si conclude con la mediazione della Russia.

Il 27 settembre 2020 un’offensiva azera scatena la seconda guerra del Nagorno Karabakh, un’intensa escalation militare di 44 giorni che si conclude con la vittoria dell’Azerbaigian. Baku riconquista alcuni territori persi nel 1994 e anche diverse aree della repubblica dell’Artsakh. Il cessate il fuoco è siglato il 10 novembre, sotto la supervisione di Mosca.

Nel 2022 nuovi scontri armati riaccendono le tensioni sui confini. Nell’estate del 2023 Baku blocca le vie d’accesso alla regione, provocando una crisi umanitaria. Il 19 settembre 2023 l’Azerbaigian attacca il Nagorno Karabakh, bombardando la capitale Stepanakert e i territori circostanti. Il giorno successivo arriva la resa armena e si raggiunge un accordo per un cessate il fuoco. Nei mesi successivi la comunità armena terrorizzata abbandona la regione. Centoventimila profughi vengono accolti nella vicina Armenia.

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L’Armenia dopo le elezioni americane (Osservatorio Balcani e Caucaso 20.11.24)

Nei rapporti Armenia e Stati Uniti non sono previsti nell’immediato sostanziali cambiamenti rispetto a quanto già avviato negli ultimi quattro anni, anche se Trump in campagna elettorale si è speso per gli armeni del Karabakh

20/11/2024 –  Marilisa Lorusso

La seconda guerra per il Nagorno Karabakh è esplosa mentre era in corso la prima presidenza di Donald Trump. Allora come adesso, gli Stati Uniti erano uno dei tre co-presidenti – insieme a Francia e Russia – del gruppo di Minsk, il cui obiettivo dichiarato era una risoluzione pacifica del conflitto.

Il peso del gruppo di Minsk era allora molto differente da oggi: dopo la svolta militare del conflitto, le fratture all’interno di questa triade per la guerra in Ucraina, e la denuncia della sua legittimità di esistere da parte dell’Azerbaijan, di fatto il gruppo esiste solo sulla carta.

Nel 2020 la situazione era differente: i triumviri lavoravano in stretta coordinazione, e il gruppo era strutturato con uno staff permanente che concordava le proprie mosse. All’esplosione della guerra la prima reazione era arrivata da Parigi, seguita da Washington e poi da Mosca, che in voce univoca avevano chiesto un immediato stop ai combattimenti.

Donald Trump aveva effettivamente negoziato un cessate il fuoco, poi però totalmente ignorato dai belligeranti, oltre a non essere stato comunicato agli stessi altri co-presidenti. La prima presidenza Trump, nel conflitto fra Armenia-Azerbaijan e l’allora secessionista Nagorno Karabakh, pareva essere al traino degli altri co-presidenti, con la Russia che era uscita dal conflitto con il ruolo protagonista di mediatore unico.

La presidenza Biden, nell’interludio fra Trump 1 e Trump 2, si è ritagliata un ruolo di sostanza nella mediazione del conflitto imprimendo un proprio marchio nell’approccio di risoluzione negoziata di un accordo di pace: essere facilitatori di incontri bilaterali.

Sotto l’auspicio dell’amministrazione statunitense uscente sono stati creati gli spazi per incontri bilaterali, senza un mediatore presente, fra le parti a differenza per esempio dell’approccio russo che vede il mediatore sempre presente e quanto concordato a triplice firma, con la Russia come garante.

Fermo restando il fatto dolente: nessuno dei tre co-presidenti è riuscito a impedire l’atto finale della guerra e l’esodo della popolazione armena del Karabakh.

I rapporti Armenia-USA (e UE)

La scelta armena di ri-strutturare la propria sicurezza nazionale con un approccio multilaterale e non esclusivo ha favorito un intensificarsi del dialogo con gli USA. Da parte statunitense c’è stata apertura in questo senso sia in via bilaterale, sia in coordinazione con i partner europei.

L’apice di questa cooperazione è stato il vertice USA-UE-Armenia del 5 aprile 2024, che ha suggellato e dato nuovo impulso ad un anno di intensi scambi diplomatici fra le parti. Per l’Armenia le istituzioni più coinvolte sono state il Primo ministro, il ministero degli Esteri e il consiglio di Sicurezza nella persona di Armen Grigoryan che ha incontrato spesso delegazioni americane e ha visitato gli States in più occasioni.

Sono stati vari i capitoli di cooperazione aperti, e di questo uno in particolare ha disturbato molto tanto la Russia quanto il suo alleato strategico (dal 2022), l’Azerbaijan: la cooperazione militare.

Da quest’anno un consigliere militare americano sarà presente in Armenia (un civile, dipendente del dipartimento di Stato, non della Difesa), come esperto incaricato di fornire consulenza nella riforma delle forze armate e del sistema di difesa. Si sono poi tenute diverse forme di esercitazioni e workshop su vari aspetti della messa in sicurezza del paese, fra le quali la Eagle Partner.

C’è poi il grosso capitolo della cooperazione e dell’assistenza economica americana. A giugno c’è stato il secondo incontro del Strategic Dialogue Capstone. Sia in via diretta, sia attraverso varie agenzie – fra cui USAID – l’amministrazione Biden ha notevolmente incrementato la disponibilità finanziaria di supporto all’Armenia. USAID, pesantemente attaccata sia a Tbilisi che a Baku ha trovato in Yerevan l’unico partner bendisposto verso i suoi rappresentanti ed interventi nel Caucaso del Sud.

Trump 2

Alcuni dei pacchetti finanziari approvati per l’Armenia si estendono per tutto il 2025, per cui è improbabile che nell’immediato ci sarà un netto cambiamento di quanto è stato avviato negli ultimi quattro anni. E la domanda ovviamente è se ci sarà un cambiamento, se si tornerà a una Washington meno pro-attiva con l’Armenia, se si continuerà nel seminato, o se si rafforzerà la cooperazione.

L’Armenia è ad oggi il paese nella regione più dichiaratamente interessato a intensificare e approfondire la collaborazione euro-atlantica. La Georgia sembra aver fatto una netta retromarcia, mentre l’Azerbaijan è interessato a incrementare la cooperazione economica, lasciando però fuori dal quadro i capitoli dei diritti umani e società civile.

L’Armenia vuole il riconoscimento delle proprie credenziali di paese che ha investito nello sviluppo democratico e del diritto, e vuole le tutele che ha scoperto – malamente – di non avere.

Il governo di Nikol Pashinyan ha un forte bisogno di ricompattare il consenso rispetto alle sue scelte, anche attraverso un sostanziale boom economico che allevi la drammatica povertà nel paese e aiuti a digerire una sconfitta militare di portata epocale.

Le congratulazioni del primo ministro armeno  a sono state tempestive e benauguranti: “Le mie più sentite congratulazioni a Donald Trump per la sua impressionante vittoria come 47° Presidente degli Stati Uniti. Presidente-eletto, non vedo l’ora di lavorare con lei per costruire relazioni bilaterali strategiche Armenia-USA basate sui nostri valori, priorità e interessi condivisi.”

In campagna elettorale Donald Trump si è fatto protettore dei cristiani e ha scritto sul social network Truth  : “Kamala Harris NON HA FATTO NULLA mentre 120.000 cristiani armeni venivano orribilmente perseguitati e sfollati con la forza in Artsakh [armeno per Nagorno-Karabakh]. I cristiani in tutto il mondo non saranno al sicuro se Kamala Harris sarà Presidente degli Stati Uniti. Quando sarò Presidente, proteggerò i cristiani perseguitati, lavorerò per fermare la violenza e la pulizia etnica e ripristineremo la PACE tra Armenia e Azerbaijan”.

In campagna elettorale, si sa, ogni voto conta, e solo il tempo mostrerà se questa appassionata dedizione alla causa dei karabakhi e alla pace con Baku serviva per ingraziarsi il voto armeno, o se Donald Trump è disposto veramente a portare avanti un braccio di ferro con la Russia per l’Armenia.

Il rapporto Mosca-Yerevan ha avuto a lungo caratteristiche di esclusività, soprattutto per quanto riguarda la sicurezza militare. Ora che Yerevan è aperta a altre opzioni, Mosca mostra tutto il suo nervosismo, sia sull’acquisto di armi da paesi NATO che sulla collaborazione militare con Washington.

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L’istituto Grandis di Cuneo ai Giorni della Cucina Italiana in Armenia (La Guida 20.11.24)

Tra gli ospiti di quest’anno alle Giornate della Cucina Italiana a Yerevan in Armenia c’è anche l’istituto Grandis di Cuneo con il professor Prato e l’allieva Elomri Omaima. L’inauiguirazione dell’evento si è tenuta presso il bar italiano Martini Royal. All’evento erano presenti anche il Consigliere dell’Ambasciata d’Italia Andrea Peduto, Vice Capo Missione, e Alessandro Liberatori, Direttore dell’Ufficio di Rappresentanza a Mosca dell’ICE.
Oltre al Grandis ospiti dell’edizione ci sono l’Istituto superiore Minervini di Caluso col il prof. Meli Fausto e gli allievi Monaco Lorenzo, Echamouti Iman che hanno presentato autentici piatti italiani, hanno condiviso i segreti per preparare i tradizionali tagliolini, agnolotti e panna cotta, che hanno preparato e fatto assaggiare agli ospiti. “I tagliolini sono una pasta bolognese fatta con farina e uova. Non c’è acqua, solo uova. Questo piatto è fatto a mano, utilizzando solo ingredienti naturali. La panna cotta, servita per dessert, è dolce, ma non troppo. Questo è un dessert che è conosciuto in molti paesi del mondo. Lo prepariamo con caramello e fragole per evidenziarne il gusto delicato” hanno spiegato i componenti del Team Piemonte. E quando gli è stato chiesto qual è la base della cucina italiana, hanno risposto che la cosa principale è il messaggio: “Il cibo unisce le persone a tavola, crea i momenti migliori e regala ricordi caldi. Questo è ciò che vogliamo condividere con il mondo”.
Le Giornate della Cucina Italiana a Yerevan si svolgono nell’ambito dell’iniziativa internazionale Settimana della Cucina Italiana nel Mondo e sono organizzate con il supporto dell’Ambasciata d’Italia in Armenia, dell’Agenzia per il Commercio Estero ITA, dell’Accademia Italiana della Cucina e di numerosi altri sponsor della Provincia di Cuneo.

L’Unione Europea guarda al Caucaso: €10 mln all’Armenia per l’efficienza energetica (Energiaitalia 20.11.24)

A completamento di un precedente prestito da 25 mln di Euro della Banca europea per gli investimenti (BEI), l’Unione Europea garantirà all’Armenia altri 10 mln, per l’efficientamento energetico.

L’Unione Europea guarda al Caucaso

Le misurre volte efficientamento energetico dell’Armenia – nel settore edilizio – potranno contare sul sostegno dell’Unione Europea (UE), in virtù di un finanziamento da 10 mln di Euro.

La linea di credito completerà un precedente prestito da 25 mln che la Banca europea per gli investimenti (BEI) aveva concesso a Yerevan (la capitale armena) lo scorso anno. La municipalità di Yerevan utilizzerà il finanziamento per ristrutturare oltre 100.000 metri quadri (m²) di edifici, rivalorizzandoli.

Nello specifico, l’accento è stato posto sulla riduzione del consumo energetico e delle emissioni di anidride carbonica (CO₂). Secondo i piani iniziali, saranno ristrutturati sei policlinici e trentadue asili.

Il nuovo valore degli edifici

Le misure chiave del pacchetto di finanziamenti sosterranno il montaggio dei nuovi involucri degli edifici, la sostituzione delle finestre e l’installazione di caldaie più efficienti. Inoltre, si procederà all’assemblaggio di sistemi solari per l’acqua calda e l’illuminazione a risparmio energetico. Oltreché minimizzare gli sprechi, sarà garantita una migliore abitabilità degli edifici.

Al contempo, l’impegno delle istituzioni comunitarie nei confronti dello Stato asiatico, nel Caucaso meridionale, ha rimarcato la precisa volontà di rafforzare quelle direttrici geoeconomiche. La mole dei lavori che ha pianificato l’Armenia, per altro, potrebbe anche attrarre diversi investitori esteri.

La pluralità delle iniziative energetiche per l’Armenia

L’iniziativa è infatti allineata al Piano economico e di investimento dell’Unione Europea per il Partenariato orientale. Il tutto, in ossequio al contributo attivo nei confronti di ‘Green Yerevan‘ e alla transizione energetica nazionale. È inoltre del progetto Global Gateway della Commissione europea.

L’insieme di queste iniziative ha offerto un sostegno attivo alle politiche di contrasto ai cambiamenti climatici e alle misure di sviluppo sostenibile.

Lo ha ribadito anche il Ministro delle Finanze armeno Vahe Hovhannisyan che ha spiegato: “Il progetto sosterrà gli obiettivi ambientali ed economici a lungo termine dell’Armenia. Si favorirà il risparmio energetico, la riduzione delle emissioni di carbonio e il potenziamento delle infrastrutture pubbliche. Contestualmente si miglioreranno i servizi pubblici essenziali, come la sanità e l’istruzione”.

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Il risveglio del vino armeno: una rivoluzione tra storia e geopolitica (Gamberorosso.it 19.11.24)

Sarà che gli armeni sono un popolo che ha vissuto il peggio – il genocidio del 1915, la dittatura sovietica, la perdita del Nagorno Karabakh; una ferita recente – ma l’energia che emana dal mondo del vino cresce, sale, monta e non si arrende neanche davanti ai cortocircuiti della storia. In cinque anni il settore è letteralmente esploso: piantare una vigna, aprire una cantina, produrre vino, farlo degustare e accogliere i turisti è diventato un investimento remunerativo; oltre che figo, moderno, occidentale e di tendenza. Lo sanno bene nella capitale Yerevan dove spopolano i winebar come InVino, 600 etichette armene; il Decant WineShop&Bar, un localino più intimo su Moskovyan street, cuore della movida; e il Mov, ristorante di design con bella carta di etichette autoctone. 

Un patrimonio millenario tra rischi geopolitici

La matematica, si sa, non è un’opinione: in Armenia il numero di cantine è sestuplicato, erano 25 nel 2019 e già 150 a settembre 2024; sempre che nel frattempo non siano spuntati altri “funghetti”. Perché in larga parte sono piccoli produttori, a volte piccolissimi; vigneron da poche migliaia di bottiglie, a volte centinaia.
Ottimo! Se ci non fossero l’incertezza e l’incognita degli sviluppi geopolitici; nel caso dell’Armenia gli scomodi vicini e i conflitti internazionali. La piccola Repubblica – 2,7 milioni di persone, il primo Paese cristiano al mondo (301 d.C.) – è situata nel Caucaso meridionale.
A est c’è l’Azerbaijan, che nel 2023 ha conquistato l’ultimo lembo di Nagorno Karabakh, dopo due guerre seguite al crollo dell’URSS; di cui entrambe i Paesi facevano parte.
A ovest c’è la Turchia, relazioni gelide e confini chiusi dai tempi del genocidio “negato” di 1,5 milioni di armeni, sotto l’Impero Ottomano. A nord per fortuna c’è la Georgia, in sana competizione soltanto sul vino. A sud, però, c’è l’Iran, buoni rapporti commerciali e diplomatici, ma non certo il posto sicuro del momento. Da Teheran, tra l’altro, arriva gran parte del flusso turistico internazionale; tanti iraniani che qui possono bere “in libertà”. Aggiungi l’influenza e le interferenze della vicina Russia – primo importatore, l’80% dell’export di vino armeno – e capisci che essere artefici del proprio destino è una frase molto bella. 

“La guerra è una preoccupazione costante anche per la viticoltura, perché molti vigneti si trovano vicino ai confini e quindi è molto pericoloso anche soltanto prendersene cura, oltre all’incognita di non sapere con certezza se potremo mantenerli in futuro. Però siamo forti, manteniamo lo spirito giusto e continuiamo a fare il meglio. Siamo certi che i nostri progetti avranno successo”. 

A parlare è Zaruhi Muradyan, direttrice di Vine and Wine Foundation of Armenia (VWFA), a margine dell’ottava Conferenza Internazionale sul Turismo del Vino, organizzata dalle Nazioni Unite (UN Tourism), proprio in Armenia, lo scorso settembre, nel Paese dove l’enoturismo è il fenomeno emergente del post Covid. “Prima non esisteva”, sottolinea la Muradyan, che è anche produttrice con la piccola Zara Wines e figura di punta di un embrione di “donne del vino” armene. La VWFA è invece l’agenzia governativa nata nel 2016 per promuovere la rinascita enologica, innescata a inizio 2000 dagli investimenti dei ricchi armeni “figli” della diaspora (altri 8 milioni nel mondo). Su tutti l’imprenditore “argentino” Eduardo Eurnekian, proprietario di Karas (“anfora”), 400 ettari nella regione vinicola dell’Armavir, vista sul monte Ararat – la “montagna sacra”, da un secolo in territorio turco – e consulenza enologica di Michel Rolland.

Vini naturali e turismo: l’Armenia guarda al futuro

Degustazione Monte Dimats

Il settore vinicolo, con i suoi 16mila ettari e 14 milioni di litri (il doppio del 2014), è oggi controllato da una manciata di grandi cantine. Tra queste l’Armenia Wine Companyfondata nel 2006: con 12 milioni di bottiglie tra vino, cognac e brandy, la più grande e l’unica con un wine museum. Un’altra è Armas, della famiglia Aslanyan, 100 ettari di vigne tra 700 e 1.800 metri d’altezza, e consulenza dell’enologo italiano Emilio Del Medico. E ancora: Noa, dello svizzero Jakob Schuler, già azionista di maggioranza al Castello di Meleto, a Gaiole in Chianti, folgorato dai vini di uve areni sulle vie del Vayots Dzor, l’area più pregiata e soleggiata, un terroir ricco di argilla e pre-fillosserico, con altitudini tra i 1.200 e 1.800 slm. In questa regione nel 2007 fu scoperta tra l’altro dagli archeologi la cantina più antica del mondo: la grotta di Areni, con anfore e reperti del 4.100 a.C. 

Grotta Areni

Troviamo poi tante piccole e giovani aziende, mosse dalla voglia di fare e da un senso di riscatto e recupero di una tradizione millenaria, interrotta soltanto sotto il dominio sovietico (1921-1991), quando Stalin puntò sulla Georgia per il vino e sull’Armenia per il cognac e i distillati. Fu espiantato allora un ricco patrimonio di autoctoni per far posto alle uve bianche kangoun. Tra le varietà sopravvissute, in maggioranza uve da tavola, 31 oggi sono quelle vinificate: a parte la rossa areni e la bianca voskehat, tanti vitigni dai nomi difficili, haghtanakkhndoghnikhatoun kharji e altre fertili materie prime per cantine come Trinity, ex boutique winery nata nel 2016. Produce 100mila bottiglie – la metà per vigneron privi di macchinari – e qualche migliaio di ancestrali in anfora, senza lieviti aggiunti. L’enologo Artem Parseghyan “si diverte” a far ascoltare ai vini musica classica e spirituale in fase d’affinamento, rock e Pink Floyd in fermentazione.

Hrachya, Samvel e Aram Machanyan

Il filone degli autoctoni e dei naturali è cavalcato anche da Alluria Wines, dei fratelli Hrachya, Samvel e Aram Machanyan, tempo fa andati in Turchia orientale a cercare il vigneto del nonno, nella terra perduta con la pulizia etnica del 1915-16, e riportare a casa qualche barbatella. I tre facevano un altro mestiere e giocavano con il vino, poi nel 2017 la “svolta imprenditoriale” e la consulenza di enologi georgiani. Oggi fanno enoturismo e 42mila bottiglie, tra cui un rosso da uve del Nagorno Karabakh: il khndoghni (“che ci sia la gioia”), un paradosso etimologico a vedere come è andata con l’Azerbaijan. Partita chiusa: 120mila profughi a settembre 2023 scappati dall’ultimo lembo di terra contesa.
C’erano pure le vigne di Grigori Avetissyan, vignaiolo-combattente in prima linea, “ritiratosi” in Armenia con Kataro Wine. Gli islamici azeri gli hanno postato i video di sfregi e sversamenti di vasche e botti. Il vino è proprio una bevanda da cristiani. 

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ARMENIA: Trump e le relazioni con gli Stati Uniti (Eastjounal 19.11.24)

Di Denise Gislimberti

La recente elezione di Donald Trump negli Stati Uniti ha suscitato un’ampia attenzione a livello globale, soprattutto nello spazio post-sovietico, dove molti paesi seguono con interesse i possibili cambiamenti nella politica estera americana.

America e Armenia

In Armenia, l’opinione pubblica appare divisa, soprattutto a causa della presenza importante di propaganda russa nel paese. Da un lato, una parte ha visto in Kamala Harris un positivo continuum rispetto all’amministrazione Biden. D’altra parte, chi è più orientato verso la Russia vede una presidenza democratica come un pericoloso incentivo al distacco da Mosca e all’avvicinamento all’Occidente. Questa fetta preferisce quindi una presidenza repubblicana, ritenendo che Trump, con il suo pragmatismo, potrebbe allinearsi meglio agli interessi di Putin.

La domanda resta: in che modo i risultati delle elezioni americane influenzeranno l’ambiente geopolitico dell’Armenia, le sue relazioni con i principali alleati e le sue ambizioni nel Caucaso meridionale?

Le promesse elettorali di Trump

Durante la campagna elettorale, Donald Trump ha menzionato esplicitamente la questione armena e lodato la comunità armena americana, per accattivarsene il sostegno. Le sue promesse includevano l’impegno a “proteggere i cristiani perseguitati, fermare la violenza e la pulizia etnica e stabilire la pace tra Armenia e Azerbaigian”. Inoltre, il neoeletto Presidente ha cercato di manifestare il proprio sostegno anche in occasione di una telefonata con Sua Santità Aram I, il Catholicos della Grande Casa di Cilicia. Durante la conversazione, Trump ha ribadito il suo sostegno agli armeni di Artsakh (Nagorno-Karabakh), impegnandosi per la pace regionale. Aram I ha espresso gratitudine per il sostegno e ha sottolineato l’importanza vitale della leadership globale degli Stati Uniti in questo momento critico. Ha condiviso le sue aspettative per una maggiore attenzione alla questione dell’Artsakh sotto una nuova amministrazione, per quanto riguarda le garanzie internazionali per la sicurezza e lo status del Nagorno Karabakh, nonché la responsabilità azera per la ‘pulizia etnica’ avvenuta nell’ottobre 2023.

Tuttavia, in Armenia, queste dichiarazioni sono state accolte con cautela, specialmente alla luce dell’approccio passato dell’ex presidente alle questioni estere. Molti ricordano infatti il mancato supporto dell’amministrazione Trump ad un dialogo per la risoluzione pacifica a seguito della guerra del 2020 tra Armenia e Azerbaigian, conflitto che si concluse con una devastante sconfitta per i primi. Una buona fetta dell’opinione pubblica, dunque, dubita che la rielezione porterà un supporto concreto, ma che piuttosto rappresenti un rischio, poiché si teme ciò possa favorire la già solida posizione azera.

Il partenariato strategico tra Armenia e USA

Nel corso degli anni, gli Stati Uniti hanno supportato lo sviluppo democratico dell’Armenia, contribuito alla sua economia e affrontato questioni storiche delicate. Una delle mosse più significative è stata il riconoscimento ufficiale del genocidio armeno da parte dell’amministrazione Biden nel 2021, decisione che ha avuto una profonda risonanza in Armenia.

I due paesi hanno firmato vari accordi, che riflettono l’interesse dell’Armenia nel diversificare le sue partnership internazionali. Questa cooperazione ha portato a notevoli investimenti americani, rafforzando le potenzialità per futuri legami economici e diplomatici, anche grazie alla forte influenza della diaspora armena presente negli Stati Uniti. Negli ultimi anni, il governo armeno, guidato da Nikol Pashinyan e dal partito Contratto Civile, ha inoltre adottato una linea di politica estera volta ad ottenere una maggiore autonomia da Mosca. Tuttavia, dato l’atteggiamento complesso di Trump, l’Armenia potrebbe assistere ad un raffreddamento in specifiche aree di collaborazione. L’eventualità di un riavvicinamento tra Stati Uniti e Russia è un altro fattore che può complicare ulteriormente la politica estera armena. Scenario che, infatti, potrebbe rallentare o persino ostacolare il processo di integrazione occidentale del paese, costringendo l’Armenia a rivedere il suo percorso di allontanamento dall’influenza russa. Se gli Stati Uniti consentissero a Mosca di rafforzare la sua posizione nello spazio post-sovietico, l’Armenia potrebbe trovarsi in una situazione precaria. Una Russia priva di contrappesi occidentali potrebbe rafforzare la sua influenza su quest’ultima, limitando la capacità del paese di perseguire politiche estere indipendenti.

Cosa ci riserva il futuro?

Mentre l’Armenia guarda al futuro, l’incertezza persiste. L’attuale contesto geopolitico suggerisce diversi scenari possibili, ma non è chiaro quale strada prevarrà. Per l’Armenia, questo è un momento di opportunità ma anche di rischio. Rafforzare le partnership sia con gli Stati Uniti sia con la Russia potrebbe offrire all’Armenia una maggiore leva, ma l’equilibrio delicato che deve mantenere potrebbe rapidamente inclinarsi di fronte a pressioni esterne. In mezzo a queste dinamiche globali e regionali, le priorità interne dell’Armenia restano chiare. In cima all’agenda vi è il desiderio di garantire una pace duratura con l’Azerbaigian e di formalizzare le relazioni diplomatiche con la Turchia. Questi obiettivi si allineano con la strategia più ampia dell’Armenia per stabilizzare la regione e migliorare la crescita economica. Il ministro dell’economia armeno ha sottolineato l’importanza di mantenere relazioni calorose con gli Stati Uniti. Ha rassicurato il pubblico che, indipendentemente dai cambiamenti nel panorama politico statunitense, le relazioni sono radicate in valori condivisi e interessi comuni, e che il partenariato strategico del paese con Washington è destinato a durare. Tuttavia, l’esito di questi sforzi dipenderà non solo dalle sue decisioni, ma anche dall’evoluzione delle politiche dei poteri globali come Stati Uniti e Russia.

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Anush Babajanyan Acque maltrattate vincitore del Premio Romano Cagnoni (photoluxfestival 18.11.24)

Luogo: Palazzo Guinigi, Via Guinigi, 29

Giorni e orari di apertura:
Lunedì – Giovedì dalle 15:00 alle 19:00
Venerdì – Domenica dalle 10:00 alle 19:00

La scarsità d’acqua in Asia Centrale è il punto di partenza del viaggio di Anush Babajanyan lungo le rive dei fiumi Syr-Darya e Amu-Darya, dalle loro foci nel Mar d’Aral alle loro sorgenti nel cuore delle montagne, attraversando i quattro Paesi dell’area indagata: Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan. Una situazione sconosciuta, che questo lavoro ha portato al centro dell’attenzione internazionale, con una lunga ricerca incentrata sulle conseguenze che la carenza di risorse idriche e l’assenza di politiche di gestione anti-spreco hanno sull’ambiente e sulla popolazione, cui si aggiunge l’impatto della crisi causata dai cambiamenti climatici. Nel corso degli anni, Anush è entrato in contatto diretto con le persone, testimoniandone i diversi aspetti della vita quotidiana e dell’aggregazione, con una rara capacità di ascolto, le preoccupazioni e le speranze per un futuro molto incerto e il dramma di possibili conflitti tra popoli che da sempre vivono in armonia. E con le persone, l’autore si sofferma a lungo, facendo emergere la loro capacità di adattamento e la loro volontà di trovare soluzioni per il cambiamento, per salvaguardare l’ecosistema e garantirne le prospettive future.
Battered Waters è stato riconosciuto dalla Giuria, presieduta da Patricia Franceschetti
Cagnoni, come: «Il progetto a lungo termine che ha interpretato con originalità e sensibilità il tema di questa edizione. Una serie fotografica che documenta la grave crisi idrica che colpisce quattro Paesi dell’Asia centrale, senza sbocchi sul mare e che soffrono di scarsità d’acqua, concentrandosi sulla questione ambientale – come questione cruciale del nostro tempo ed elemento essenziale per gli esseri viventi – e facendo emergere allo stesso tempo l’umanità e la resilienza delle persone che lottano per sopravvivere.
La dedizione e la perseveranza dell’autore trasmettono messaggi profondi attraverso le fotografie, capaci di renderci consapevoli».

BIOGRAFIA
La fotografa armena Anush Babajanyan è membro della VII Photo Agency e National Geographic Explorer. Anush concentra il suo lavoro su narrazioni sociali e storie personali. Oltre a lavorare ampiamente nel Caucaso meridionale, continua a fotografare in Asia centrale e in tutto il mondo. Anush Babajanyan ha recentemente pubblicato il suo libro sul Nagorno-Karabakh, intitolato A Troubled Home.
Anush è la vincitrice del Canon Female Photojournalist Grant 2019 e una vincitrice del Prix Photo Terre Solidaire. Ha vinto nella categoria Long Term Projects del World Press Photo 2023 Contest. Le sue fotografie sono state pubblicate su The New York Times, Washington Post, National Geographic, Foreign Policy Magazine e altre pubblicazioni internazionali.

Pasinyan e la nuova Armenia dal ‘volto pulito’ (Asianews 18.11.24)

Per la prima volta dalla “rivoluzione di velluto” del 2018 il premier armeno si è mostrato con il volto rasato dalla barba. Un gesto per ammiccare alla necessità di “riportare a zero” il Paese, un’espressione da lui usata sempre più spesso per invitare a “guardare all’Armenia reale e non al Paese dei sogni”.

Erevan (AsiaNews) – Il premier armeno Nikol Pašinyan ha compiuto il gesto simbolico di radersi la barba, per la prima volta dalla “rivoluzione di velluto” del 2018, diffondendo anche un video molto ad effetto in stile TikTok, con il trucco dell’asciugamano che si scopre sulla barba e quindi sul viso ripulito, per indicare la “necessità di ripartire da zero nella costruzione della statualità dell’Armenia”. Tutti sono rimasti piuttosto spiazzati, essendo l’immagine del “barbuto Pašinyan” molto legata al percorso che aveva compiuto per tutto il Paese, radunando i suoi sostenitori per riuscire infine a raggiungere il potere con il suo movimento dell’Accordo Civile, confermandolo poi nelle competizioni elettorali successive.

Qualcuno pensa che Pašinyan abbia anche voluto marcare la differenza con il volto attuale dell’opposizione nei suoi confronti, il vescovo Bagrat Galstanyan dalla caratteristica barba monastica, che dalla sua diocesi periferica di Tavowš, ai confini con l’ostile Azerbaigian, ha compiuto a sua volta un pellegrinaggio popolare fino a Erevan, per radunare i “patrioti” che chiedono le dimissioni del primo ministro. Come hanno commentato alcuni osservatori, il taglio della barba (con l’occhiolino finale) nelle consuetudini dei maschi armeni si fa dopo una forte perdita alle carte, oppure per essere stato superato in qualche altro tipo di competizione.

Non avendo aggiunto parole di spiegazione al video, Pašinyan ha inteso ammiccare alla necessità di “riportare a zero” l’Armenia, un’espressione da lui usata sempre più spesso per intendere che “bisogna guardare all’Armenia reale, non al Paese dei sogni che fuoriesce dai propri territori”. Il dibattito riguarda direttamente le relazioni con l’Azerbaigian e l’occupazione del Nagorno Karabakh, l’ultimo trauma vissuto in conseguenza di un conflitto trentennale, ma la visione di Pašinyan si rivolge all’intera coscienza storica armena, sempre troppo legata all’antico passato di un popolo che riempiva i territori dell’Asia romana, prima dell’arrivo dei turchi ottomani.

La mattina prima di radersi il viso, il premier aveva definito “una grande tragedia” la dichiarazione di indipendenza del 1990, in cui si elencano i territori che costituiscono l’integrità territoriale dell’Armenia ex-sovietica, comprendendo le parti contese con l’Azerbaigian, ciò che oggi costituisce il principale ostacolo alla conclusione delle trattative di pace con Baku. Ai tempi sovietici la repubblica dell’Armenia era separata dal “Distretto autonomo del Nagorno Karabakh”, ripreso con la forza nel 1992.

Per spiegare la sua posizione, Pašinyan aveva aggiunto nel discorso al parlamento di Erevan che “la nostra mentalità sociale collettiva, la nostra psicologia sociale, oggi è di fatto contraria a un’autentica concezione della statualità, inconsciamente ognuno di noi si pone contro lo Stato”. Il problema è che negli ultimi 600 anni, l’Armenia ha goduto dell’indipendenza soltanto negli ultimi 35, e la “mentalità antistatale” si è formata quando non c’era lo Stato ed “eravamo soltanto una colonia”, mentre oggi il 49enne leader del governo propone di “ripulirsi” non solo il volto, ma la coscienza stessa.

All’Armenia a suo parere serve una nuova Costituzione, non soltanto per togliere le espressioni sgradite agli azeri, ma rendere il Paese “realmente in grado di proporsi e di concorrere nelle nuove condizioni geopolitiche”. Oltre alla conclusione definitiva delle trattative con l’Azerbaigian, il governo armeno sta cercando infatti di stringere rapporti con tanti Paesi dell’Asia (a cominciare dall’India) e dell’Europa, con un rapporto privilegiato con la Francia, e soprattutto con la Turchia, superando le antiche ostilità e mettendo in secondo piano anche la storica diatriba sul genocidio degli armeni di oltre un secolo fa.

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