Quegli armeni ostaggi in Azerbaigian e dimenticati da tutti (Tempi 08.11.25)

Vanno avanti a Baku i processi farsa contro 23 armeni, rinchiusi in isolamento. Molti hanno tentato il suicidio in cella nell’indifferenza della comunità internazionale
Quindici politici e funzionari dell'Artsakh, rapiti durante l'invasione azera, assistono all'udienza preliminare del processo presso il tribunale militare di Baku, in Azerbaigian, il 17 gennaio 2025
Quindici politici e funzionari dell’Artsakh, rapiti durante l’invasione azera, assistono all’udienza preliminare del processo presso il tribunale militare di Baku, in Azerbaigian, il 17 gennaio 2025 (foto Ansa)

Da quasi un anno, il regime dittatoriale di Baku inscena un processo farsa contro i leader dell’Artsakh e altri sette cittadini armeni. Lunedì scorso, il pubblico ministero del tribunale militare dell’Azerbaigian ha dichiarato che gli imputati sono responsabili di crimini commessi tra il 1988 e il 20 settembre 2023, dal movimento di liberazione del Karabakh fino all’attacco azero e alla pulizia etnica degli armeni dell’Artsakh.

Tentativi di suicidio in carcere

I 23 prigionieri armeni sono stati messi in isolamento completo dopo la chiusura della sede del Comitato internazionale della Croce Rossa a Baku. I familiari non riescono a ottenere alcuna informazione indipendente sulle loro condizioni. Dalle foto disponibili sembra che il loro stato di salute non sia ottimale e ci sono stati persino tentativi di suicidio, come riportato da Siranush Sahakyan, avvocata dei detenuti presso la Corte Europea.

I parenti sottolineano che, in un regime così autoritario, è purtroppo naturale che qualunque accusa possa essere inventata contro persone indifese. Nonostante siano imputati di decine di gravi reati, i detenuti mantengono la speranza di tornare presto in patria, confidando di trascorrere il prossimo Capodanno non in carcere a Baku, ma accanto ai propri cari.

In Azerbaigian la giustizia non esiste

Il movimento per l’autodeterminazione dell’Artsakh nacque come risposta legittima alle violenze e discriminazioni sistematiche subite dagli armeni del Nagorno-Karabakh. Le stragi di Sumgait, Kirovabad e Baku, tra il 1988 e il 1990, segnarono l’inizio di una politica di pulizia etnica che oggi raggiunge la sua forma più brutale: la deportazione, già avvenuta nel 2023, e l’annientamento sistematico delle tracce storiche e culturali del popolo autoctono dell’Artsakh.

Il regime dittatoriale di Baku, fondato su un’ideologia di odio etnico e dotato di una magistratura completamente asservita al potere, usa i tribunali come strumenti di propaganda e repressione. Appare evidente che ogni “documento” o “testimonianza” prodotti in tali processi è privo di legittimità e valore giuridico.

Il silenzio internazionale

Inaccettabile è inoltre il silenzio delle grandi potenze — Stati Uniti, Francia e Russia — che per trent’anni hanno riconosciuto i leader della repubblica autoproclamata dell’Artsakh come interlocutori legittimi nei negoziati dell’Osce. E ancora più grave è l’indifferenza delle autorità armene, che assistono senza reagire al destino dei propri compatrioti incarcerati.

Questi prigionieri non sono imputati, ma ostaggi di un sistema barbarico. E ogni giorno di silenzio della comunità internazionale è un giorno in più di complicità con la dittatura e con i suoi crimini contro la verità e la giustizia.

L’attuale governo dell’Armenia dovrebbe rendersi conto dell’illusione di poter costruire la pace senza giustizia, senza che la controparte riduca la propria retorica anti-armena quotidiana che alimenta l’espansionismo e la pressione costante sul popolo armeno.

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