Storia della montagna dove cinquemila armeni trovarono la salvezza e dei sette villaggi che si ribellano alla catastrofe. I quaranta giorni del Mussa Dagh (Idolomiti 01.07.25)

Il grande romanzo di Franz Werfel racconta la vicenda, basata su fatti reali, di sette villaggi armeni che dal luglio 1915 all’inizio di settembre resistettero agli assalti turchi sul massiccio del Mussa Dagh, a sud del golfo di Alessandretta, per essere infine salvati da alcune navi da guerra francesi

Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

“Per qualche piccola imprecisione del divino ordine dell’universo, per la bonaria corruttibilità di qualche cherubino affezionato alla terra natale, pareva che nelle contrade del Mussa Dagh si fosse rinserrato un residuo, un riflesso, un ultimo sapore di Paradiso”.

 

Così Franz Werfel descrive il massiccio del Mussa Dagh, che si erge fra la baia di Antiochia e il golfo di Alessandretta. Qui, come in altre regioni dell’Impero ottomano, fino alla Prima guerra mondiale il popolo armeno viveva in pace con i vicini musulmani. Una vita condotta per secoli secondo tradizioni antichissime, scandita sul ritmo delle stagioni.

 

Tutto cambia con lo scoppio della Grande guerra. Il governo ultranazionalista dei “Giovani Turchi” insegue il progetto di turchizzare l’intero territorio anatolico, e per questo stabilisce di deportare l’etnia armena, presente fin dal VII secolo a.C. Le deportazioni ufficialmente prevedono un reinsediamento degli Armeni in Siria; in realtà l’obiettivo è l’eliminazione di un’etnia che non può essere assimilata.

Considerato il prototipo dei genocidi del Novecento, quello degli Armeni si consuma a partire dalla primavera del 1915, quando, dopo arresti di massa della popolazione, hanno inizio le marce forzate che conducono al deserto di Deir el-Zor, nel cuore della Siria. Pochissimi saranno quelli che raggiungeranno vivi la meta.

 

Franz Werfel (1890–1945) ritratto nel 1927 da Georg Fayer

 

Questo è il contesto storico da cui prende le mosse il grandioso romanzo di Franz Werfel, scrittore e drammaturgo austriaco di origine ebraica che, al pari di milioni di Armeni, sperimenterà a propria volta l’esperienza drammatica dell’esilio dopo l’annessione dell’Austria alla Germania, nel 1938.

 

Scritto febbrilmente a partire dal 1929, dopo un soggiorno a Damasco in cui aveva avuto la possibilità di ascoltare molte storie di sopravvissuti al genocidio, e pubblicato nel 1933, I quaranta giorni del Mussa Dagh racconta la storia di sette villaggi armeni che si ribellano alla catastrofe, trovando sulle balze del Mussa Dagh temporaneo rifugio.

 

Il romanzo, strutturato su tre libri, è incentrato inizialmente sulla figura di Gabriele Bagradian, facoltoso armeno che vive a Parigi e che nel 1914, a seguito della morte del fratello, ritorna, in compagnia della moglie e del figlio tredicenne Stefano, nella proprietà di famiglia situata nel villaggio di Yoghonoluk, ai piedi del Mussa Dagh.

Impossibilitato a partire a causa dello scoppio della guerra, Gabriele assiste al progressivo precipitare degli eventi. Suo malgrado diventa guida per la popolazione dei sette villaggi che convince a trasferirsi sul massiccio, dove, anche grazie alle sue competenze militari di ex ufficiale dell’esercito ottomano, organizza una tenace resistenza.

 

Una donna armena inginocchiata accanto al corpo di una bambina morta durante le deportazioni in Siria

 

In oltre novecento pagine di grande letteratura, Werfel ci conduce in seguito attraverso le vicende vissute dalle cinquemila persone che seguono Bagradian in questa eroica quanto disperata ricerca di salvezza, entra nell’animo di diversi personaggi, li segue nelle loro scelte, nelle azioni, nei sentimenti: dal momento di lasciare i villaggi alle battaglie che dovranno affrontare contro li milizie turche inviate per annientarli, dalla dura vita sulla montagna ai momenti più critici, quando la speranza di salvezza vacilla. Eroi e vili, uomini di cultura e semplici, personaggi che sprofonderanno nell’abisso e altri che saranno in grado di riscattarsi: la narrazione li abbraccia in pagine che raggiungono vette di intensità come solo la grande letteratura sa fare.

 

Intorno, il Mussa Dagh, l’immensa montagna divenuta rifugio, ma che rischia di diventare anche trappola mortale. Questo accade, per esempio, quando i difensori decidono di usare il fuoco contro le truppe turche causando un grandioso incendio che risparmia l’accampamento solo grazie al vento che spira contro i nemici.

 

“E di ora in ora l’incendio cresceva e si propagava […]. Si estinse solo davanti alle balze nude della parete scoscesa sotto il Bastione sud e in una insenatura di roccia, che protesse la Sella Nord. Il verde rigoglio di quell’alpe benedetta dalle sorgenti, quella meraviglia della costa siriaca trionfò ancora una volta con bandiere fiammeggianti per giorni e giorni, fino a che di tutto non rimase che un immenso campo d’ostacoli, cosparso di brace carbonizzata”.

 

Ma Werfel non si limita a raccontare vicende personali. Indossati i panni dello storico, presenta al lettore il contesto, le scelte dei politici, i tentativi falliti di chi, come il pastore protestante tedesco Johannes Lepsius, tentò di opporsi ai disegni genocidari del governo turco. Emblematico il capitolo Intermezzo degli dei, in cui Werfel ricostruisce l’incontro, realmente avvenuto, fra il pastore e l’onnipotente ministro della guerra turco Enver Pascià.

 

“Le sue stimabili intenzioni m’interessano – dice Enver in tono di considerazione, – ma naturalmente devo respingerle. […] Se io concedo ad uno straniero di recare aiuto agli armeni, creo con ciò un precedente, che riconosce l’intromissione di personalità straniere e quindi di potenze estere. […] No, mio signor Lepsius, questo è impossibile, io non posso concedere che degli stranieri benefichino questa gente. Gli armeni debbono vedere soltanto in noi i loro benefattori”.

Il pastore cadde sulla sedia. Tutto è perduto! Fallito! Ogni altra parola è superflua. Almeno quell’uomo fosse malvagio, pensa con desiderio, almeno fosse Satana. Ma non è malvagio e non è Satana, è simpatico come un fanciullo, quel grande inesorabile assassino di moltitudini.

 

Civili armeni in marcia forzata sorvegliati da soldati turchi

 

Quaranta giorni dura la resistenza armena sul Mussa Dagh, dalla fine di luglio ai primi di settembre. Poi tutto sembra precipitare: l’esaurimento delle scorte di cibo, la pressione del nemico, la stanchezza e la disperazione sono sul punto di vincere. E quando un secondo incendio distrugge l’accampamento pare giunta davvero la fine. Ma dalla catastrofe germoglia la speranza: il fuoco viene avvistato da un incrociatore francese che naviga non lontano dalla costa e che soccorre i difensori.

 

Un romanzo corale da tornare a rileggere a centodieci anni dal primo genocidio del Novecento, in cui la montagna di Mosè è protagonista salvifica e ci ricorda quanto stretto sia il legame fra uomo e ambiente. In un tempo in cui la guerra e il nazionalismo sembrano aver sostituito la pace e il dialogo, I quaranta giorni del Mussa Dagh ci ricorda quanto è stato e interroga il nostro presente senza memoria.

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