Valter Vecellio. Haigaz chiamava: «Mikael… Mikael…» Armenia 1915. Una testimonianza in un libro di Alessandro Litta Modignani (Tellusfolio.it 18.08.15)

Per capire cosa significa la disperazione (e l’orrore) che sono in quel grido strozzato, «Mikael… Mikael…» evocato nel libro, si deve andare alla pagina 63, capitolo 17. Ma il lettore non abbia fretta di andarci, non c’è bisogno: non è un poliziesco dove l’autore gioca a rimpiattino con chi legge, e dissemina tracce qua e là ben occultate, per vedere chi dà scacco matto e scopre il colpevole. Qui no. Qui c’è solo da aver pazienza; sopportare che pagina dopo pagina il cuore ti si stringa per la pena: lo devi decidere davvero che vuoi andare avanti nella lettura, conoscere un orrore che si dipana pagina dopo pagina: una sofferenza reale, una persecuzione subita e patita, senza scopo o ragione, come del resto sono tutte le persecuzioni, le sofferenze.
«Mikael… Mikael…» è un’invocazione, un urlo disperato; come se ne possa sopravvivere, è un mistero. A chi scrive fa pensare a quel non meno disperato e disperante «Eli’, Eli’, lemà sabactàni?» che si dice sia stato pronunciato da un Figlio che non sa capacitarsi del perché il Padre lo condanna a un martirio così doloroso ed atroce. Che padre può mai essere? E come si fa a parlare di «amore»?
Qui il martirio, l’orrore, non sono imposti da un padre a un figlio; qui è un fratello verso/contro un fratello. Non ha perché, tutto quello che porta a quel disperato «Mikael… Mikael…», o meglio: a voler inforcare gli occhiali della real-politik, della contabilità dei diversi averi, dell’«essere» che si trasforma in potere, forse sì: un perverso perché, un’abominevole logica, la si può individuare. Come la si può individuare, in tempi a noi più vicini, in Tibet, in Cecenia, in quelle insanguinate lande che corrono tra l’Irak e la Libia; in Messico… e prima ancora in Cambogia, Vietnam, nella Cina di Mao e nell’Unione Sovietica di Stalin; in Centro e Sud America, dove non si deve dimenticare che nel «giardino di casa» dello Stato più democratico del mondo, c’era un certo tipo di Cile, un certo tipo di Argentina, un certo tipo di Brasile e Paraguay…; e poi, ancora: El Salvador, il Guatemala, Panama… Milioni di croci, per quelle banane, per quegli ananas.
Torniamo a Mikael, paradigma dell’orrore ignorato solo perché consapevolmente si vuole voltare la testa. Nessuno può dire, a proposito delle persecuzioni e dei massacri subiti e patiti dagli armeni da parte dei turchi: «Non sapevo, lo ignoravo». L’ignoranza non è un qualcosa che assolve, è comunque una colpa. Qui più che mai. perché si sapeva e si poteva sapere; come si sapeva e si poteva sapere degli ebrei, dei rom e di tutti quei «diversi» perseguitati e sterminati perché considerati «perversi».
Alessandro Litta Modignani che ha curato questa tremenda testimonianza (cento pagine appena, ma che fatica, che oppressione, leggerle; ma non sottraetevi a questa fatica, a questa oppressione: conoscere, sapere, è un dovere), pubblicata da Libri-liberi (16 euro, post fazione di David Meghnagi), ci racconta che il protagonista di questa storia, Mikail Mikaelian, «era un uomo semplice e mite». In famiglia lo chiamavano zio, era «un uomo di buona cultura, un medico autorevole e stimato, ma non un vero intellettuale, sicuramente non uno scrittore… fino all’ultimo restò un tipico francese benpensante moderato, convinto sostenitore del generale De Gaulle e del suo partito conservatore. Fu marito, padre, nonno esemplare…». Questo libro, dunque? Una testimonianza, in prima persona; raccolta e curata da Litta Modignani. «Nel centenario del genocidio armeno», annota, «sono fiero di consegnare al pubblico italiano la dolorosa vicenda di Mikaelian, nella consapevolezza che anche questo libro potrà fornire il suo contributo alla conoscenza e all’affermazione della verità».
Non ha avuto vita facile, lo spiega bene Megnagi: «Per non impazzire, Mikaelian aveva messo per iscritto le esperienze patite, con la speranza di poterle un giorno renderle pubbliche. Approfittando delle ‘lunghe notti invernali’ a Harput, l’antica città armena, l’autore aveva redatto un manoscritto di 300 pagine in cui aveva ricostruito la sua vicenda personale e storica… Sfortunatamente il manoscritto andò perduto nelle ‘notti del settembre 1922’, quando era venuto il momento di conquistare ‘la libertà a ogni costo’. Con la morte nel cuore, Michel sogna di rimettere per iscritto le memorie. A Beirut, e poi in Etiopia, dov’era inviato come ufficiale medico dell’esercito francese, tenta di ricostruire i frammenti di un’esistenza spezzata, mettendoli di nuovo per iscritto, in un libro con una dedica straziante alla memoria della madre…».
Ora c’è, quel memoriale. Ringraziamolo Litta Modignani che lo ha curato. È un racconto, una triste epopea costituita da sofferenze, crudeltà, dolore. Da leggere e da meditare, ogni pagina: quelle dove la piccola bimba della zia, sorella più giovane della mamma, muore di fame e di stenti, «aveva due mesi, due mesi di sofferenze. Il suo corpicino era scheletrico. Scavare una tomba nella sabbia in riva al fiume e seppellirla non fu, lo devo ammettere, un compito troppo gravoso. Non piangemmo per questo distacco. Eppure l’amavamo…».La pagina dove si racconta della giovane donna agonizzante, che non ha lacrime per la morte della madre: «perché mai dovrei piangere, adesso che mia madre, morendo, è riuscita a scappare a tutte le odiose torture dei turchi? Io sola conosco la sofferenza che ha dovuto sopportare… centinaia di turchi e di curdi si sono serviti di me… come se io fossi una donna pubblica, per mesi… facevano quelle cose ignobili come animali, e sempre alla presenza di mia madre…». La pagina dove le ragazze, fiere e disperate, preferiscono sfracellarsi da un ponte, piuttosto che vivere una vita da schiava…Continua


 

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