101 poesie di poeti armeni di fine Ottocento e del Novecento. Un’epoca per niente serena, a dir poco (Korazym 12.01.24)

È appena uscito RINASCITA. 101 poesie armene 1890-1989, a cura e traduzione di Mariam Eremian, con la Prefazione di Marco Bais (Fuorilinea 2023, 160 pagine [QUI]). Il libro vuole offrire una finestra sul variopinto mondo letterario armeno, nello specifico sulle poesie di Hovhannes Tumanian, Vahan Terian, Yeghishe Charents [QUI e QUI], Hamo Sahyan, Hovhannes Shiraz, Gevorg Emin, Paruyr Sevak, Metakse, Razmik Davoyan. Tutti loro hanno dato il meglio di sé sia come intellettuali che come combattenti, hanno alzato con forza la propria voce per proclamare la verità, per difendere e sostenere i propri connazionali e, soprattutto, per ispirare la pace e l’amicizia tra i popoli.

«L’armeno è una lingua ricca
e ripagherebbe ampiamente
a chiunque il problema d’impararlo»
(George Gordon Byron).

Le 101 poesie raccolte nel volume si differenziano per stile, linguaggio, periodo, ma convergono per alcuni temi. Il protagonista è l’amore nostalgico, non mancano, però, riflessioni su misteri dell’universo, fragilità e grandezza dell’uomo, odi alla natura, alla madre e alla patria. Completano il volume brevi note sulle vite dei poeti che si snodano tra la fine dell’Ottocento e il Novecento. Un’epoca per niente serena, a dir poco, che inizia col genocidio armeno perpetrato dall’Impero ottomano e attraversa il periodo sovietico e staliniano, di illusioni e nuove sfide. Infine si arriva all’indipendenza dell’Armenia dall’URSS in cui gli Armeni, finalmente liberi, avrebbero fatto i conti con il devastante terremoto del 1988 e la guerra del Nagorno-Karabakh.

«La mia rabbia è colma d’amore, la mia notte colma di stelle»
«In un mondo diviso in bianco e nero, in cui “contano due poli soltanto” e dove le parole importanti sembrano essere solo “sì” e “no”, il poeta opta per l’astensione, ma la sua non è indifferenza né disimpegno, bensì una posizione terza, che si oppone a una visione conformistica delle cose e invita a cogliere le miriadi di sfumature esistenti tra il bianco e il nero e tra il sì e il no. È una riflessione, questa, che trascende le circostanze personali o storiche che l’hanno provocata per acquisire una valenza universale ed eterna. In un certo senso il poeta sfiora qui l’essenza della poesia, che è una forma peculiare di confronto dialettico tra l’uomo e il mondo ed è un tipo particolare di dialogo tra gli uomini, dove a entrare in contatto sono i mondi interiori e il linguaggio non può essere quello formalizzato, univoco, tecnico che solo sembra avere cittadinanza nel nostro mondo moderno, tecnologico e aspirante alla globalizzazione. La lingua del mondo interiore è ambigua, equivoca, evocativa. E dunque la poesia è una forma di resistenza rispetto a un mondo che predilige la semplificazione, la generalizzazione, la riduzione della complessità a sistema binario, l’affermazione del presente come metro su cui misurare non solo il futuro, ma addirittura il passato, da leggersi secondo i principi che regolano, o che si pretende regolino, la nostra vita attuale, secondo una prassi che abolisce qualsiasi sforzo di comprensione, consentendo solo di esprimere giudizi, ma impedendo di comprendere le ragioni» (Marco Bais).

«Figliolo se vuoi che sia
Lieve su di me la terra
Non lasciar incompleta la casa mia»
(Hovhannes Shiraz).

«Chiudo i miei occhi,
Chiudo le mie labbra,
E dentro me chiudo me stesso
Per tenere dentro sospiri e tristezza.
Tu mi sfiori
E tutte le mie chiusure tremano
Davanti al potere della tua carezza»
(Razmik Davoyan).

«Eravamo il mare, la notte, io e te
Solo noi quattro e nessun altro,
Se solo sapesse ciò che ci toglie
Anche l’alba non sorgerebbe di sicuro.
L’uno nell’altra ci cercavamo,
Tessevamo intesa le nostre anime,
Sospesi alle stelle ci cullavamo,
Eravamo il mare, la notte, io e te»
(Hamo Sahyan).

«Quei lumi che un tempo
io dentro m’accesi
per tenere lontano il terrore,
oggi ancora mi danno
un minuscolo raggio di speme
una piccola luce d’orgoglio»
(Yeghishe Charents).

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