Le chiese armene che hanno vinto la sfida del tempo (La Repubblica 06.06.17)

Una decina di anni fa Claudio Gobbi è rimasto affascinato dall’architettura delle chiese armene, dal loro stile ripetuto identico per 1500 anni, dai materiali e dai principi costruttivi reiterati durante questo lasso di tempo. Da allora Gobbi, che è fotografo, ha cominciato a viaggiare da Erevan a Parigi, dal Lago di Van a Singapore. Non si è limitato a censire e ritrarre le chiese armene dell’Anatolia, ma ha raccolto immagini (cartoline, scatti fotografici, vecchie immagini) degli edifici religiosi in ogni parte del globo. Così ha messo insieme un’enciclopedia visuale composta di chiese situate in oltre venticinque paesi del mondo. Tutti i reportage fotografici di R2

Gli Armeni, come si sa, sono stati oggetto di un genocidio all’inizio del XX secolo, che ha portato allo sterminio di un milione e mezzo di uomini, donne e bambini; e oggi si trovano dispersi in due o tre stati, e nei cinque continenti. Ciò che attrae Gobbi è la serialità delle chiese armene, la loro «atavica capacità di ripetere gli stessi segni e processi nello spazio e nel tempo». Le immagini allineate nel suo album mostrano fortezze di pietra su cui si eleva un campanile dalla forma conica, turrito e austero. A volte le chiese possiedono un piccolo pronao esterno e decorazioni sulla facciata principale; più spesso appaiono composte di muri lisci, duri e forti. In altre occasione le chiese appaiono rovine sperse in mezzo a lande desolate a cavallo tra l’Asia e l’Europa.
Altre volte sorgono tra i palmizi di paesi tropicali, e il loro colore è il bianco abbacinante. Tuttavia ogni chiesa somiglia all’altra in una ripetizione continua di moduli architettonici con poche ed essenziali variazioni. Sfogliando le pagine del volume dove Gobbi ha raccolto il suo inventario ( Arménie Ville, Hatje Cantz) viene da chiedersi cosa l’abbia spinto a costruire un album del sempre-uguale. Perché un’ossessione per quell’unica forma ripetuta quattrocento volte? Nessun intento spettacolare, ricorda Martina Corgnati in un testo compreso nel volume, nessuna scelta sociologica, nessuna volontà storica, ma solo «la pazienza enciclopedica della raccolta e della classificazione». I suoi scatti, per altro molto belli, si alternano a cartoline reperite chissà dove foto storiche figurano accanto a ritratti di edifici contemporanei. Non c’è sviluppo in questo museo dell’identico, che ricorda da vicino gli album di Aby Warburg. Forse si può ipotizzare che ad aver attratto Claudio Gobbi sia stato proprio la persistenza del simbolo architettonico, la sua stabilità visiva e temporale. Cercare quello che permane, piuttosto che quello che muta. Eppure la raccolta d’immagini che ci propone non ha nulla di desueto o di archeologico.
Probabilmente ad attrarre l’autore è stata proprio la diffusione dell’archetipo armeno fuori dal suo territorio d’origine, la sua disseminazione al di là delle frontiere caucasiche o balcaniche, la sua presenza nei territori della modernità, come a Parigi, dove vive una delle più vaste comunità armene del mondo. C’è però, non dichiarato, un intento politico: richiamare la resistenza che queste chiese manifestano nel contesto di un mondo in vorticosa trasformazione, memoria del passato e insieme sua stabilità nel futuro. Ha scritto Hripsimé Visser che Arménie Ville è un commuovente omaggio all’eredità di un piccolo popolo tenace che con la sua diaspora ci interroga sulla disseminazione attuale di genti e popoli nei quattro angoli del mondo.

 

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