Alfabeto dei piccoli armeni: un libro, 36 storie. L’olocausto dimenticato (Viverefermo 21.04.24)

Notte tremenda quella tra il 23 e il 24 aprile del 1915. I soldati del cadente Impero Ottomano iniziano lo sterminio del popolo armeno. I primi ad essere uccisi sono gli intellettuali e i capi delle chiese. Annientare la testa è annientare il pensiero. Questo il programma. Poi arriverà il resto: un milione e mezzo di morti, ammazzati direttamente o caduti nel corso delle marce forzate. Uno sterminio, un olocausto: il primo del Novecento, il primo che fa da apri-strada. Così come un secolo e mezzo prima era accaduto in Vandea: 300 mila annientati dalle Giacche blu della Repubblica francese. La memoria perduta e soprattutto occultata degli armeni massacrati farà dire ad Hitler, dando il via libera alla Shoah: «Chi ricorda più la strage armena!».

In una qualche stanza delle case dei sopravvissuti armeni fuggiti all’estero, campeggiano da allora le lettere del proprio alfabeto. Un alfabeto che agli inizi non esisteva: si scriveva in greco o in aramaico. Poi venne anche il proprio. Così, la parola scritta salvò e salva una cultura, un modo di essere, una civiltà: gli armeni furono i primi convertiti al cristianesimo. E quella cultura – annientati gli uomini, stuprate e rese schiave le donne, venduti i bambini – ha fatto da collante ad un popolo in esilio.

Ne ha raccontato in un drammatico, intenso e commovente, quanto seguito incontro in Biblioteca a Fermo, la scrittrice e giornalista armena Sonya Orfalian. Il suo libro è intitolato Alfabeto dei piccoli armeni.

Sono i racconti degli allora ragazzini scampati ai massacri.

Prima di ogni titolo c’è una lettera dell’alfabeto armeno che è l’immortale legame con il passato. Come legame con il passato sono i nomi dei tanti figli e nipoti di quanti riuscirono a sottrarsi alla morte. Nomi che ricordavano e ricordano chi non ce l’aveva fatta, caduto e abbandonato lungo le strade polverose dei trasferimenti forzati, nei lager dove si moriva per fame e malattia; oppure, bruciati vivi nelle chiese dove avevano cercato rifugio… si camminava sul grasso dei corpi liquefatti.

Sonya, sollecitata dal prof. Francesco Maria Castiglioni, docente di storia e filosofia al liceo classico Annibal Caro di Fermo, ha tenuto inchiodato il pubblico per quasi due ore.

«Negli anni della mia infanzia – ha scritto e ha detto – sentivo che c’era un segreto nella mia famiglia, qualcosa che non poteva essere detto, qualcosa che non si poteva raccontare…». Quelle stragi erano una ferita sanguinante e gli scampati preferivano non rammentarle. Un po’ come accadde ai superstiti dei lager nazisti, dei gulag comunisti nell’infame invasione della Russia o a chi aveva sopportato il gelo e i topi nelle trincee della prima guerra mondiale..

Poche le parole che i nonni, il nonno di Sonya, facevano trapelare: «Camminavano… camminavano… il deserto…» Erano gli unici riverberi di un genocidio pianificato a tavolino, voluto dai cascami dell’Impero Ottomano prima, ma anche dalla Repubblica di Ataturk, dopo!

Con penna leggera, e probabilmente con un senso di smarrimento iniziale, l’autrice ha messo insieme 36 storie tante quante le lettere dell’alfabeto armeno.

«I piccoli sopravvissuti – si legge nell’introduzione dell’autrice al libro– non hanno tenuto un diario di ciò che gli è toccato vivere, e allora ciò che non hanno potuto scrivere l’ho scritto io per loro».

Anche in questo caso, ancora una volta, la Biblioteca Spezioli e il suo staff hanno mostrato di essere un centro propulsore di cultura, ai massimi livelli.

Mentre scrivo di Sony Orfalian, l’occhio mi va ad un libro di recente lettura: Mussa Dagh-Gli eroi traditi. È la vicenda terribile dei cinquemila armeni che osarono ribellarsi alle deportazioni del governo turco. Si spinsero fino al mare, furono presi a bordo e salvati da alcune navi francesi. Vissero successivamente in un tendono a Porto Said, in Egitto. Combatterono con la Legione Orientale, sconfissero i turchi, tornarono alle loro case. Poi, traditi per interessi geopolitici dagli stessi francesi che prima li avevano salvati, dovettero di nuovo abbandonare i propri villaggi e trasferirsi in Libano, ad Anjar.

La giornata mondiale che ricorda la mattanza degli armeni è il 24 di aprile.

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