Antonia Arslan: «In Ucraina la stessa follia del genocidio armeno. Stupido paragonare Putin a Hitler» (Il Gazzettino 28.06.22)

PADOVA – Nella sua casa nel cuore di Padova si respira un’aria orientale. Tra tappeti, arazzi e libri dappertutto, Antonia Arslan, 84 anni, fa colazione con un pezzetto di pane e una marmellata greca di zucca. Anche nel sapore c’è qualcosa legato all’Oriente. «Me l’ha portata mia figlia, che vive in Grecia». Ma il dolce si esaurisce con lo spuntino. La realtà di queste settimane è ben altra.

Antonia Arslan, tempi difficilissimi
«Cerco di vedere, come è nella mia natura, e come sono abituata, il bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno. Certo, è senz’altro banale ciò che dico, ma trovo che sia anche saggio. In tutte le epoche dell’Umanità, ci sono crisi, pericoli, improvvisi drammi. E quindi non mi meraviglio. Una volta i conflitti erano frequentissimi. Ricordiamolo. Scandalizzarsi su quanto sta accadendo; enfatizzare questi eventi è pericoloso ed inutile perchè toglie alle persone sensibili quell’equilibrio che è necessario per affrontare l’imprevisto».

Non è poi così facile mantenere l’«equilibrio» di questi tempi…
«Ed è pericoloso. In questo momento vi è un ossessivo attaccamento alla propria opinione. Quasi come fosse un vestito. La gente sembra abbia indossato un’idea e che questa sia inscalfibile. Io credo, invece, al dialogo, che non vuol dire condividere i propri pensieri. Vuol dire comprendere la posizione altrui».

Insomma, dobbiamo tornare a cogliere l’altro
«Esattamente. È nella tendenza di noi uomini avere rapporti sociali. Essere prigionieri delle proprie idee è sinonimo di isolamento. Perchè rifiutare il contatto con l’Altro?»

Come vede il ruolo dei massmedia?
«Dovrebbero alleggerire i toni soprattutto dopo la guerra in Ucraina. Questa non è la prima nè sarà l’ultima delle guerre. Che la Russia, con Putin, sia l’aggressore non c’è da dubitarne, ma paragonarlo a Hitler è una stupidaggine».

Perchè?
«Perchè alleggerisce il ruolo di Hitler, appesantisce quello di Putin. Ma soprattutto alleggerisce quello del Fueher. Putin puoi paragonarlo ad Attila, certo fai pure. Ma Hitler no!»

La impressionano le immagine di guerra nei tv e nei giornali?
«Non particolarmente. Rivedo le immagini del genocidio armeno. Le classifico come un’altra delle follie umane. È chiaro che sono immagini orrende, ma è altrettanto evidente che proiettarle continuamente, magari intervallandole con un po’ di pubblicità, non rende nè giustizia, nè rispetto per le persone. Impressiona. E poi ci si assuefà. Ci si abitua».

La banalità del male?
«C’è in giro una facile irascibilità. Un disagio epidermico. Gente che si arrabbia se la sfiori, altri che ti guardano storto se tossisci. Ci sono una sottile ansia e una paura concreta per la propria vita. Lo è per tutti. La morte è quello che è, e ci aspetta lì. Lo sappiamo tutti, però quest’ansia sottile è ben presente. È una cupezza che fa fatica a dissiparsi».

Cosa ci ha lasciato la pandemia?
«Per molte persone è diventata una ossessione. Non parlo di comportamenti paradossali che ci sono e ci saranno sempre. Invece, se proprio dobbiamo fare un confronto, facciamolo tenuto conto delle tragedie legate alle epidemia del passato. Allora la gente moriva a grappoli…»

Malessere, disturbo, rabbia. Poi dietro l’angolo scatta l’intolleranza.
«Quando hai letto, studiato, ascoltato le testimonianze di amici e parenti e sei cresciuta in un ambiente che esce da un genocidio; che ti porti la cicatrici sulla pelle e te le porti dentro di te, a questo punto di fronte a te, pensando ai bambini affamati, alle violenze, ritornano solo angosce mai sopite».

Quanto importante è la memoria?
«La memoria è la nostra arma più forte. Quanto è importante sapere e ricordare! Lo dico sempre ai ragazzi nelle scuole: non crediate che vi venga a parlare del genocidio armeno. Prima di tutto capiamo cosa vuol dire la parola genocidio lemma inventato nel 1944 da un ebreo che sapeva e studiava gli armeni (Raphael Lemkin ndr). Genocidio armeno e Shoah sono profondamente collegati».

Ma stiamo facendo di tutto per preservarla?
«Spesso prevale la tendenza celebrativa a discapito di quella conoscitiva. Ai ragazzi bisogna saper raccontare, altrimenti è un rituale».

Il problema non potrebbe essere che a poco a poco i testimoni non ci sono più?
«Credo che la cosa più importante debba essere fatta a scuola, seduti, studiando e non tanto nei viaggi che si trasformano in una vacanza. Per il genocidio armeno la questione dei testimoni è a dir poco chiusa. Nei giorni scorsi è morta una delle ultime. Ma bisogna continuare a parlarle, perchè queste due memorie incrociate, quella ebraica e quella armena, sono quelle che in qualche modo ti indicano una strada, ti indicano quello che devi evitare, ti indicano i pericoli che anche tu, ragazzo del Duemila, devi conoscere. Attenzione a non voltarsi dall’altra parte».

Sta parlando del concetto di indifferenza che cita spesso Liliana Segre?
«No. Quelli che si voltano dall’altra parte non sono indifferenti. È gente che sa, ma prevale l’avidità. Lo dico anche ai ragazzi, la scelta è vostra. Gli eroi, i Giusti, sono pochissimi».

Che cos’è oggi l’Armenità…
«Rappresenta una ferita dolente perchè l’Armenia oggi è in una drammatica crisi ed è in pericolo. È una questione sottovalutata da tutti i media basti pensare a quello che è successo due anni fa nel Nagorno Karabagh (lo scontro tra armeni e azeri per la conquista di parti del territorio di quest’area). Ora c’è un cessate il fuoco che viene continuamente violato. E intanto Erdogan in appoggio agli azeri ha detto che si deve finire il lavoro».

Esiste ancora un ruolo di Venezia con i suoi legami con il mondo armeno?
«Potrebbe avere una voce. Venezia nella mente degli armeni è uno dei tre poli della rinascita armena dopo Costantinopoli (Istanbul ndr), Tiflis (Tbilisi oggi). Venezia è luogo di radici religiose con i mechitaristi, luogo di pensiero e di rinnovamento nazionale con la rinascita della nostra lingua. E tutto ciò è sopravvissuto al genocidio.

Ora a che cosa sta lavorando?
«Stavo pensando di fare un libretto sul terrorismo a Padova visto che ne sono stata testimone diretta lavorando nell’ambiente dell’Università di Padova. Ci sto pensando ma penso anche che possa essere un po’ faticoso. Confesso che mi sta venendo voglia di scrivere un libro su mio padre e il rapporto che avevo con lui. Era un uomo di prima generazione, quella che aveva rifiutato di riflettere sullo sterminio. Una generazione del silenzio. Del silenzio totale. Tante cose mi frullano per la testa. Alla fine vedrò se ce la farò».

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