ARMENI, AZERI E ALBANIA CAUCASICA di GIAN ANTONIO STELLA (Corriere della Sera 29.04.25)
Con la morte di Francesco, dicono gli armeni, hanno perso più che un amico: non mancava mai il 24 aprile a Buenos Aires alla Giornata del Ricordo delle stragi di un secolo fa, definì nel 2015 quei massacri di oltre tre milioni di cristiani un «genocidio» a dispetto dell’irritazione turca, aprì gli archivi vaticani su quei pogrom, andò in pellegrinaggio nel 2016 in Armenia, esaltò la figura di san Gregorio di Narek… Eppure, insieme col dolore per l’addio a Jorge Bergoglio, che ha attutito ogni polemica, non cessa la raccolta di firme di intellettuali di mezzo mondo (inclusa Antonia Arslan che scrisse «La masseria delle allodole») della rivista armeno-americana asbarez.com contro la decisione della pontificia Università Gregoriana di aver ospitato il 10 aprile un convegno intitolato «Il Cristianesimo in Azerbaigian: storia e modernità». Una provocazione, dicono. Per promuovere «narrazioni sponsorizzate dallo Stato azero volte a cancellare la presenza storica della Chiesa armena e ad appropriarsi dei suoi monumenti attribuendoli falsamente agli antichi albanesi caucasici».
Obiettivo: «delegittimare le radici indigene degli armeni e dipingerli come estranei alle loro terre ancestrali».
Distorcendo «la millenaria eredità della Chiesa armena, sul suolo armeno ora occupato da un regime con una comprovata storia di sradicamento culturale».
Nella scia dell’«assalto genocida dell’Azerbaigian al Nagorno-Karabakh nel settembre 2023, che portò alla pulizia etnica di 120.000 armeni cristiani indigeni». La Gregoriana ha sdrammatizzato: è stata solo affittata una sala all’ambasciata azera presso la Santa Sede. La polemica, però, non cessa.
Con gli armeni che definiscono «inaccettabile che un simile revisionismo abbia potuto radicarsi in un’importante istituzione accademica della Santa Sede». E invitano il Vaticano a non accettare ulteriori donazioni da Baku per il restauro di edifici religiosi: solo la maschera d’una «incessante campagna di genocidio culturale».