Armeni e Azeri, quella pace non è impossibile (IlTirreno 09.11.21)

«Armeni e Azeri sono prima di tutto esseri umani e come tali aspirano profondamente alla pace. Occorre rendere manifesta questa aspirazione e iniziare qualche forma di dialogo». Così diceva Giorgi Vanyan, probabilmente l’attivista più impegnato nella ricerca di una soluzione per il conflitto che dalla fine degli anni ottanta vede contrapposti Azerbaigian e Armenia. L’ultimo atto di questa guerra si è consumato lo scorso anno, di questi tempi, ed è durato 44 giorni costando la vita a 7.000 persone. Il Nagorno Karabakh è una regione montuosa grande all’incirca come la provincia di Brescia. È parte dell’Azerbaigian ma la comunità armena che ivi risiede non ha mai accettato la sovranità del governo di Baku. Con un referendum, nel 1991, ha proclamato l’indipendenza che nessuno a livello internazionale ha mai riconosciuto anche se ha sempre goduto del sostegno dell’Armenia. Le frontiere statali spesso non coincidono con i confini delle nazioni che, a loro volta nelle zone periferiche si stemperano, si mescolano e si ibridano. Il Caucaso è un crogiolo di gruppi etnici che a seconda del lato della barriera in cui si trovano sono maggioranza o minoranza e viceversa. Culture, lingue e religioni sono profondamente intrecciate. Tracciare nuove frontiere o modificare i confini esistenti è come accendere un fiammifero in una polveriera. Nel Caucaso, tuttavia, sono tanti i politici che scherzano con il fuoco del nazionalismo che è la merce più facile da piazzare all’opinione pubblica per conquistare il consenso e raccattare voti. Giorgi Vanyan era nato in Azerbaigian ma viveva in Armenia. La minoranza armena in territorio azero contava all’incirca mezzo milione di persone; più di 300.000 erano invece gli azeri che vivevano in terra armena. Di questi due gruppi oggi non c’è più traccia. La guerra ha messo specularmente fine alla storia secolare di due comunità. Nonostante le minacce delle frange più estreme Vanyan non si era mai perso d’animo e aveva continuato la sua opera di decostruzione della narrativa del nemico cercando di creare le condizioni per il dialogo fra due popoli obbligati a condividere la stessa regione ma incapaci di comunicare e gestire insieme le proprie fragilità a cominciare da un senso di insicurezza atavico. Direttore teatrale di professione aveva fondato dieci anni fa il festival di Tekali, un villaggio della Georgia situato a pochi chilometri sia dal confine con l’Armenia sia da quello con l’Azerbaigian, dove esponenti del mondo della cultura e società civile di Baku e Erevan potevano incontrarsi in campo neutro per suonare insieme jazz e scambiare idee su come gettare le basi di un processo di riconciliazione duraturo che mettesse fine ad anni di tragiche incomprensioni. Dopo la guerra dello scorso anno Giorgi voleva che Nikol Pashinyan e Ilham Aliyev, i leader di Armenia e Azerbaigian, si incontrassero faccia a faccia senza la mediazione bifida di Vladimir Putin che non perde occasione di ripetere che senza la Russia nel Caucaso meridionale non è possibile la pace. Non ha fatto in tempo, purtroppo, a vedere realizzato il suo desiderio. Il Covid-19 se l’è portato via lasciando un vuoto incolmabile.

Quella del Nagorno Karabakh è l’ultima guerra del vecchio continente. Il cessate-il-fuoco del 9 novembre 2020 non ha fermato lo stillicidio di vittime innocenti, in buona parte sfollati azeri, che saltano sui campi minati mentre, dopo trent’anni, cercano di rientrare nelle zone di origine. Robert Kocharyan, ex presidente dell’Armenia legato a filo doppio con il Cremlino, un giorno dichiarò che Armeni e Azeri sono etnicamente incompatibili. «Non esistono popoli incompatibili e non ci sono mai stati», ribatte da Baku Ramazan Samadov, un vecchio amico impegnato nelle operazioni di ricostruzione, «questo tipo di narrativa non appartiene ai sistemi moderni di governo». «Vorrei avere una macchina del tempo per portarti indietro di quarant’anni e mostrati quanto fossero “compatibili” allora i due popoli sia in Armenia che in Azerbaigian», mi dice amareggiato. La strada della pace è ripida e difficile nel Caucaso ma non bisogna smarrire la direzione.

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