Armenia: contestazioni e sfide (Settimananews 16.08.18)

La Chiesa ortodossa d’Armenia, dopo il passaggio del potere politico dal nazionalista Serge Sarkissian al filo occidentale Nikol Pashinyan (8 maggio 2018), ha conosciuto aperti dissensi e manifestazioni pubbliche contro il catholicos, Karekin II, patriarca di tutti gli armeni.

Le tensioni, motivate dall’eccessiva vicinanza della Chiesa al potere nazionalista e dalla ricchezza non condivisa, rimandano a ragioni ulteriori. Come ha detto un autorevole osservatore: «Non mi pare che vi sia ancora una visione storicamente fondata e teoricamente equilibrata del rapporto tra Chiesa e stato nella realtà armena e nell’Armenia. L’enorme e, nel suo genere unico e, in gran parte felice, impatto della Chiesa sulla storia armena, mi pare che non sia ancora ben integrato, a parte la retorica, nello scenario di una statualità moderna, al passo dei tempi e rispettosa di una storia che non si può cancellare e ignorare».

Cambiamenti politici ed ecclesiali

Il cambiamento politico, sostenuto da una massiccia partecipazione alle manifestazioni di popolo nei mesi di aprile/maggio 2018, si è giocato fra nazionalismo oligarchico filo-russo e richieste di riforme economiche e democratiche.

La «rivoluzione di velluto», come è stata chiamata in assonanza con quella cecoslovacca di decenni fa, mira ad uscire dal post-sovietismo, con una forma di governance più vicina alla tradizione occidentale. Segnata da una tendenza laicista che ha fatto insorgere alcuni dei sostenitori di Pachinian davanti al suo incontro il catholicos.

È probabile che si affrontino tempi non brevi di assestamento. Il nuovo governo ha bisogno del sostegno economico della diaspora armena, diffusa in 36 paesi, forte di una popolazione doppia rispetto ai tre milioni dei residenti e scoraggiata nei suoi investimenti dalla pervasiva corruzione degli oligarchi e dei responsabili politici. E la diaspora è legata alla madre patria soprattutto grazie alla tradizione ecclesiale, oltre che alla memoria del genocidio del 1915-1916, il «grande male» con oltre un milione e mezzo di morti da parte dei «giovani turchi».

Dal 6 al 14 luglio alcuni gruppi di manifestanti hanno preso d’assedio la sede del patriarcato a Echemiadzin, forti del sostegno popolare che indicava Karekin II come parte della “cricca” al potere. Pur essendo poche centinaia di persone, hanno lanciato slogans e impedito l’uscita del patriarca, arrivando ad uno scontro fisico, guardato con molta calcolata “indifferenza” da parte della polizia.

L’immediata riduzione allo stato laicale di p. G. Arakelian, già superiore del monastero di San Gayané e capopopolo degli insorti, non rimuove un malcontento più diffuso.

Genté riporta, in un articolo pubblicato sul sito Religioscope (13 luglio), il parere del politologo S. Danelian: «Molti armeni sono molto critici nei confronti del patriarca che sarebbe ricco e padrone di aziende e contro la Chiesa di oggi, a causa della sua prossimità al potere. Esso è corrotto, nepotista, sfruttatore della popolazione in combutta con gli oligarchi, i quali si comprano un posto in paradiso finanziando costruzioni di chiese. Non solo, il catholicos non critica la situazione e non si mette a fianco del popolo, ma sostiene sistematicamente il potere».

E la giornalista T. Yégavian aggiunge: «Karekin II è considerato come il patriarca dei ricchi, si mostra con grandi fortune. È integrato in un sistema oligarchico di rapina e il popolo lo sa. Esso considera la Chiesa armena una multinazionale di cui il patriarca è l’amministratore generale».

Il vescovo Bagrat Galstian, invece, commenta così: «La nostra Chiesa può aver fatto degli errori, ma essa è stata da sempre con il popolo e sotto Karekin II ha conosciuto dei progressi, in un contesto difficile in cui bisognava sviluppare e formare un clero che l’epoca sovietica aveva decimato. Molti armeni hanno ripreso contatto con la Chiesa negli ultimi due decenni per ragioni puramente spirituali».

La violenza verbale e la mancanza di correttezza degli oppositori portano l’impronta del passato regime da cui vorrebbero allontanarsi. Esse sono speculari alle accuse alla Chiesa di riprodurre in Armenia le forme di collateralismo della Chiesa russa con il potere di Putin. La tradizione comunista fa ancora scuola.

Chiesa “nazionale” e genocidio

Il cristianesimo è all’origine della nazione armena, il primo regno cristiano fondato nel 301, e la Chiesa ha assicurato la continuità del popolo nel momento in cui, fra il XIV e il XX secolo, è venuto meno lo stato. Solo la permanenza della struttura ecclesiale ha assicurato l’identità del popolo, diventando una vera «Chiesa nazione».

Se, negli anni ’80 del secolo scorso, ha moderato le spinte nazionaliste anti-russe, è diventata poi il baluardo delle rivendicazioni di indipendenza, soprattutto a partire dall’ancora irrisolta guerra del Nagorno-Karabakh, la zona a popolazione armena dell’Azerbaigian, militarmente conquistata. Una ferita che draga enormi risorse e che potrà essere risolta solo grazie a un qualche patronato russo sul governo azero e alla neutralità della Turchia. Da cui l’Armenia è divisa dall’insuperata memoria del «grande male», ostinatamente e insensatamente negato dalla potenza ottomana.

La Costituzione del 1995 ha sancito la laicità dello stato, ma l’attivismo proselitistico di alcune comunità neo-protestanti e il peso della tradizione ha via via motivato la ripresa di alcuni “privilegi” della Chiesa maggioritaria.

La Chiesa, già definita come “nazionale”, ha ottenuto un ruolo di garanzia nei confronti dei poteri laici (i giuramenti si fanno sul vangelo), la presenza nelle scuole con un proprio insegnamento e la cura pastorale delle forze armate.

Le minoranze confessionali sono guardate con crescente sospetto, alimentate dalle tensioni politico-militari.

La Chiesa ortodossa armena ha due sedi di riferimento: quella della nazione, Echmiadzin, e quella di Antelias in Libano. A causa dell’occupazione russa e dell’obbedienza ai poteri comunisti, le comunità della diaspora si sono organizzate attorno ad Antelias (Beirut, Libano) dove presiede il catholicos Aram I e dove vive una minoranza di 140.000 armeni. Dopo l’indipendenza, le due sedi si sono molto avvicinate e Antelias riconosce la primazia di Echmiadzin.

Le buone relazioni non sono prive di qualche frizione. Karekin II chiede di allargare la sua autorità non solo sulle 10 diocesi del paese, ma anche sulle 40 della diaspora. Il clero autoctono non ha, tuttavia, le forze e la preparazione per le sfide della diaspora.

Il diacono francese P. Sukiasyan – ripreso dall’articolo di R. Genté – fa rilevare: «La diaspora, ormai alla quarta generazione dopo il genocidio si è acculturata. Alcuni sono passati ad altra fede o si proclamano atei. La diaspora è diversa per natura, nata e cresciuta in paesi con costumi sociali e politici diversi da quelli dell’Armenia post-sovietica. Molti non parlano neppure più l’armeno, rendendo meno evidente l’adesione alla Chiesa apostolica. Questa deve rendersi conto che l’identità e la fede non sono più legate l’una all’altra come nel passato».

Le ragioni della diaspora

Un esempio della complessità della diaspora è quello della minoranza armena in Turchia.

Il 22 febbraio 2018 l’assemblea del Consiglio spirituale supremo del Catholicosato di Echmiadzin è intervenuta per riavviare il processo elettorale in ordine alla sostituzione del patriarca armeno di Costantinopoli, Mesrob II Mutafyan. Affetto da grave malattia neurologica, è stato provvisoriamente sostituito da un locum tenens (facente funzione), Karekin Bekdijan, che ha avviato la complessa procedura nel 2016. Il 9 febbraio 2018 le autorità turche intervengono per bloccare il procedimento e condizionano pesantemente l’elezione a locum tenens del vicario generale precedente, Aram Ateshian, che ha perorato la propria causa presso il governo.

Intervengono una settantina di intellettuali armeni di Turchia: «Speriamo e chiediamo che sia posta fine all’amministrazione della sede patriarcale di un vicario e che la sede vacante sia fornita di un titolare (locum tenens) degno e legittimo, grazie a un voto pubblico, in conformità alle nostre tradizioni e ai nostri diritti di cittadini».

Erdoğan, presidente turco, adotta il ruolo del sultano ottomano intervenendo con disinvoltura negli affari delle minoranze religiose. A lui il patriarca Aram I di Cilicia (Antelas), a 103 anni dal genocidio, ricorda la necessità di riconsegnare alla Chiesa armena turca migliaia di chiese, monasteri, scuole e centri confiscati un secolo fa e il riconoscimento del genocidio perpetrato.

Oppressi in Turchia, devastati dalla guerra in Siria, minoranza in Libano e stretti in un territorio da Georgia, Azerbaigian, Turchia e Iran, gli armeni hanno sempre trovato sostegno nella sede papale di Roma, unica istituzione internazionale a farsi carico della difesa degli armeni durante il genocidio, all’inizio del ’900.

Il 5 aprile 2018, assieme a Karikin II e ad Aram I e alla presenza del presidente della Repubblica armena, S. Sargsyan, il papa ha benedetto una statua di bronzo di san Gregorio di Narek, il riferimento culturale e religioso più importante della tradizione armena. Il 12 aprile 2015 lo aveva insignito del titolo di dottore della Chiesa universale. Poeta, monaco, filosofo, mistico e santo, Gregorio di Narek è il Dante della tradizione armena.

L’onore del passato va di pari passo al sostegno circa il riconoscimento del «grande male». Papa Francesco ha parlato espressamente di genocidio il 24 aprile 2015 (la data della memoria) e ha confermato il giudizio durante il viaggio in Armenia nel giugno 2016.

Una nuova visione di Chiesa

Tornando alle tensioni nei confronti di Karekin II, P. Sukiasyan, annota: il patriarca «ha una concezione personale e piramidale dell’autorità nella Chiesa. Non comprende la diversità dei vari universi mentali in cui vivono gli armeni sia nel paese come nella diaspora. Vuole rafforzare la centralizzazione mentre la diaspora vuole una governance decentralizzata e collegiale. Un’autorità condivisa fra sinodo dei vescovi e responsabili laici. Risolvere queste divergenze di approcci è la grande sfida degli anni a venire».

Sulla stessa lunghezza d’onda, l’autorevole esperto citato all’inizio dell’articolo: «Ci sono nel clero, attorno al catholicos, figure religiose egregie. Spero che il patriarca possa raccoglierli e riunirli attorno a sé con maggiore efficacia. Forse nel passato recente c’è stato più un accatastamento di figure che un vero coordinamento e una sinergia di forze. Non è troppo tardi per porvi rimedio».

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