“Armenia cristiana e fiera”: il saggio di Dell’Orco sul paese delle pietre urlanti (Barbadillo 10.12.20)

Pubblichiamo per gentile concessione dell’editore Idrovolante un estratto del libro “Armenia cristiana e fiera” di Daniele Dell’Orco (pp.175, euro 20), edizioni Idrovolante (qui il link per acquistarlo).

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Il viaggio alla scoperta degli angoli più remoti dell’Armenia non è solo storico, politico e sociale.
Finisce per diventare, volenti o nolenti, un pellegrinaggio.
Vallata dopo vallata, canyon dopo canyon, specchio d’acqua dopo specchio d’acqua ci si avvicina sempre di più alle radici della cristianità. L’Armenia, come detto, è stato il primo paese al mondo ad adottare il cristianesimo (nel 301, basti pensare che il famoso Editto di Costantino che faceva cessare le persecuzioni dei cristiani è del 313, anche se studi più recenti ritengono che fosse una specie di attuazione di misure contenute nel precedente editto di Galerio del 311, mentre l’adozione del Cristianesimo come religione di stato nell’Impero Romano avvenne quasi un secolo più tardi, nel 391 durante il regno di Teodosio I), e alla spiritualità questo fiero popolo caucasico, che ha conosciuto nella storia la grandezza di un impero che si estendeva fino a Gerusalemme, non ha mai rinunciato.
Nel corso dei secoli l’Armenia è stata dominata, conquistata, distrutta, messa in ginocchio in tutti i modi possibili.
Ma ovunque si guardi capita ancora oggi di posare gli occhi su di un qualche khatchkar, una croce scolpita nel tufo discendente dai menhir (monoliti verticali).
In tutto il paese se ne contano almeno 30mila.
Il khatchkar più antico di cui si ha notizia risale al IX secolo, periodo in cui il paese visse un ritorno della propria fede dopo la liberazione dal dominio arabo, ma il periodo il cui l’arte di scolpire i khatchkar ha raggiunto il suo apice è quello che va dal XII al XIV secolo, fino all’invasione dei Mongoli.
Più tardi, tra il XVI e il XVII secolo questa forma d’arte ha vissuto una seconda primavera, senza però mai raggiungere le vette artistiche toccate in precedenza.
Normalmente raffigurano, al centro, la “croce fiorita” armena. Ma le varianti sono infinite.
I khatchkar, immancabili in quasi tutti gli edifici religiosi, potevano essere offerte votive, monumenti funerari o commemorativi. L’unico obbligo era, come per i monasteri, di essere orientati ad Occidente. Poi per il resto la fantasia faceva e ha sempre fatto il suo corso.
Ma c’è anche un significato più “civile”: i khatchkar sono stati intagliati nel corso dei secoli certamente da fini scultori, ma anche da persone semplici, contadini, artigiani, pastori.
Nella tradizione armena ogni padre, a cui era nato un figlio maschio, scavava dalla montagna un blocco di tufo alto anche più di due metri e lo scolpiva con cura e pazienza per lungo tempo per poi collocarlo in un punto visibile, come messaggio di concretizzazione della preghiera e soprattutto a dimostrazione che l’uomo quando non può pensare o pregare, lavora.
In tempi anche piuttosto recenti può capitare che, in occasione dell’inaugurazione di un nuovo ponte che evita ore o giornate di viaggio per raggiungere la riva di un fiume o la pendice di una vallata c’è sempre qualcuno che infigge un nuovo khatchkar nel terreno.
I khatchkar portano incise croci nude, senza il Cristo, a testimonianza che il figlio di Dio non è morto ma è salito al cielo
Attorno alla croce sono intagliate allegorie di foglie o frutti a rappresentare la continuità della vita anche dopo la morte.
Come detto, in Armenia i khatchkar sono dappertutto, ma i più belli si trovano in prossimità delle centinaia di monasteri posti un po’ ovunque, fin negli angoli più remoti della natura più selvaggia.
C’è un luogo speciale, però, che vale la pena di essere raccontato. A Noratus si trova un cimitero medievale nascosto tra vie sconnesse e abitazioni fatiscenti. Dopo la conquista, e conseguente distruzione, di Julfa ad opera degli azeri
Sono almeno 1000, sorvegliati a vista dall’anziana che mentre rende omaggio ai cari mi spiega che il corpo dei defunti, posto con i piedi alla base della croce, dovrà vedere il sole che sorge non appena si risveglierà dalle tenebre.
Tutt’intorno, diversi khatchkar sono circondati da pezzi di vetro. Non per incuria, ma per tradizione. Una storia molto popolare a Noratus narra di un monaco del XIX secolo di nome Ter Karapet Hovhanesi-Hovakimyan.
Viveva nel Monastero vicino al villaggio e conduceva le cerimonie di sepoltura proprio nel cimitero. La distanza da colmare, tuttavia, era considerevole.
E, stanco di ripetere il tragitto, fece costruire una cella scavata a Noratus per poterci rimanere.
Quando ebbe ormai 90 anni, chiese agli altri monaci del suo Monastero di essere seppellito vivo nella sua cella. Le sue ultime parole furono: “Non temo la morte. Vorrei che anche voi non ne aveste paura. Non temete mai nulla, ma solo Dio. Che chiunque abbia paura venga da me. Versi acqua sulla pietra della sepoltura, ne bevva, se ne versi sul viso, sul petto, sulle braccia e sulle gambe. Infine, rompa pure il vaso con l’acqua e la paura lo abbandonerà”.
Queste lapidi intagliate, che dicono molto del censo, dell’età e della storia di vita dei proprietari, fanno impressione se viste da lontano perché sono così fitte, così imponenti pur nella loro irregolarità, così ordinate come fossero dei ranghi serrati, da sembrare un esercito di pietra.
Fu questa la visione che si parò di fronte agli occhi del grande condottiero turco-mongolo Tamerlano, il Conquistatore, considerato uno dei più celebri conquistatori e strateghi della storia.
Era considerato il leader più potente del mondo islamico dopo la sconfitta dei Mamelucchi egiziani e siriani e del primo Impero ottomano.
Si riteneva l’erede di Gengis Khan (com’è scritto sulla sua tomba nel mausoleo di Samarcanda) e credeva di poter riportare in vita l’impero mongolo.
Tamerlano segnò al tempo stesso il culmine e il declino delle grandi invasioni dei cavalieri nomadi in Asia e in Europa.
Condusse campagne in tutta l’Asia occidentale, meridionale e centrale, nel Caucaso e nelle regioni meridionali della Russia.
Quando il suo esercito si avvicinò a Noratus, gli abitanti del villaggio erano sensibilmente inferiori come numero ed equipaggiati in larga parte solo di forche e bastoni. Ma non erano ancora pronti ad accettare la sconfitta. Così, secondo la leggenda, decisero di ricoprire di lenzuola tutti i khatchkar e di “armarli” con elmetti, asce e spade.
Quell’inaspettato mare di soldati pronti ad affrontare i mongoli spada sguainata colse di sorpresa Tamerlano, che pure era un implacabile distruttore di eserciti nemici e delle città che gli si opponevano, a ritirarsi senza indugio.
Tornò settimane dopo, meglio equipaggiato e deciso stavolta a saccheggiare la città ad ogni costo.
Ovviamente ci riuscì in pochi minuti.
Ma gli abitanti di Noratus, ancora oggi, raccontano questa leggenda per far capire cosa rappresentano per loro le sacre pietre del cimitero: l’atto di rimanere in piedi, persino contro un nemico imbattibile, che li ha temuti foss’anche solo per un giorno.

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