Armenia e Azerbaigian, le altre tensioni nello spazio ex sovietico (Treccani 27.04.22)

Prima dell’invasione dell’Ucraina, l’ultimo conflitto nello spazio post-sovietico era stato quello tra Armenia e Azerbaigian nell’autunno del 2020, combattuto per il controllo della regione contesa del Nagorno-Karabakh. Nonostante la tregua raggiunta successivamente tra i due Paesi, il Caucaso meridionale resta tuttora una delle aree di maggiore instabilità nel vicinato orientale europeo, una regione caratterizzata da tensioni di lunga data e dalla presenza di importanti attori esterni.

A inizio aprile ha avuto luogo a Bruxelles, su iniziativa del presidente del Consiglio europeo Charles Michel, un incontro di grande rilevanza sul piano diplomatico tra il capo dello Stato azero Ilham Aliyev e il primo ministro armeno Nikol Pashinyan. I due leader hanno concordato sulla volontà di raggiungere rapidamente un accordo di pace, una svolta positiva nell’ambito di un processo negoziale da tempo bloccato. Aliyev e Pashinyan hanno trovato un’intesa anche sull’istituzione di una commissione congiunta per i confini, che vada a delimitare le frontiere nazionali nelle aree contese nel Nagorno-Karabakh. Ai ministri degli Esteri di Baku e Erevan verrà dato mandato di lavorare per la stesura di un vero e proprio trattato di pace, al fine di risolvere questioni aperte da decenni. L’Unione Europea emerge dall’incontro del 6 aprile scorso come il facilitatore del dialogo, un ruolo inedito per Bruxelles nel contesto delle tensioni tra Armenia e Azerbaigian. Prima della guerra del 2020, tale ruolo era ricoperto essenzialmente dal gruppo di Minsk l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), mentre il cessate il fuoco nell’ultimo conflitto era stato mediato dalla Russia, che si era occupata poi di dispiegare i propri peace-keeper nella regione contesa.

Complice l’invasione dell’Ucraina, Mosca sembra aver perso la forza per concentrarsi su altri teatri nel contesto post-sovietico, così da lasciare più spazio al protagonismo dell’Unione Europea. Lo sforzo diplomatico di Bruxelles è stato reso possibile dalla volontà delle autorità dell’Azerbaigian di sigillare un accordo che metta nero su bianco la conquista dei territori ottenuti nel corso dell’ultimo conflitto. Diversa la posizione del governo armeno, in difficoltà nel certificare una sconfitta con pesanti conseguenze di politica interna. L’intesa mediata da Michel parte proprio dal piano in cinque punti che Baku aveva presentato in tempi recenti per la normalizzazione delle relazioni con Erevan: nel testo veniva incluso il reciproco riconoscimento dell’integrità territoriale dei due Paesi, l’astenersi dalle minacce, la demarcazione dei confini e l’apertura dei collegamenti di trasporto. Questa prospettiva aveva creato dei dubbi in Armenia e pressioni sull’esecutivo di Pashinyan, accusato dall’opposizione di essere pronto a dolorose concessioni verso l’Azerbaigian.

Gli sviluppi dell’incontro di Bruxelles sembrano dunque positivi, dopo diverse “false partenze” registrate negli ultimi mesi, non ultima quella di fine 2021, quando Erevan e Baku non sono riuscite a istituire la commissione bilaterale per la demarcazione dei confini. Rivolgendosi al proprio esecutivo immediatamente dopo l’incontro di Bruxelles, il premier armeno Pashinyan ha spiegato che la commissione non si occuperà solo dei lavori per la delimitazione, ma anche di «assicurare sicurezza e stabilità lungo la frontiera», in una dinamica che potrebbe portare a uno scambio di territori tra i due Paesi. Al bilaterale tra i leader di Armenia e Azerbaigian ha fatto seguito un colloquio telefonico tra i ministri degli Esteri, che hanno avuto un confronto senza intermediari come non accadeva da diversi anni a questa parte. Si tratta di progressi innegabili da un punto di vista diplomatico, benché ancora lontani dal segnare un reale cambio di rotta rispetto al passato, considerando anche le ultime schermaglie ai confini, registrate lo scorso marzo.

Nonostante gli sforzi dell’Unione Europea, non si può però escludere la Russia dall’equazione: la missione di pace dispiegata nel Nagorno-Karabakh concede a Mosca una leva decisiva nel determinare qualsiasi sviluppo negoziale tra Erevan e Baku. La mediazione russa sembra dunque essenziale, pur considerando la complicata situazione internazionale in cui si trova attualmente il Paese e il deficit di credibilità che inevitabilmente deriverà da qualsiasi sforzo diplomatico condotto dal Cremlino. Mosca potrebbe financo “sabotare” i tentativi dell’Unione Europea di giungere a un accordo tra Armenia e Azerbaigian, sfruttando le fazioni all’interno dei due Paesi che risulterebbero insoddisfatte da una conclusione positiva dei negoziati sponsorizzati da Bruxelles. Tra i principali indiziati figurano i deputati dell’opposizione nel Parlamento armeno e i separatisti dell’autoproclamata repubblica dell’Artsakh, timorosi che le autorità di Erevan possano riconoscere la sovranità di Baku sui territori passati sotto il controllo delle truppe azere nel corso dell’ultimo conflitto nel Nagorno-Karabakh. I toni e le minacce usati dalla leadership dell’entità separatista sono di aperto scontro verso qualsiasi concessione da parte dall’Armenia: il governo di Stepanakert ha persino avanzato l’ipotesi estrema di un referendum per chiedere l’annessione alla Federazione Russa, al fine di prevenire qualsiasi scenario “avverso”. Mosca è divenuta di fatto la garante della sicurezza dell’Artsakh, dopo la sconfitta dell’esercito armeno, e l’unica che potrebbe in qualche modo assicurare all’entità separatista il mantenimento dello status quo anteriore al 2020: una prospettiva che sarebbe però inconciliabile con qualsiasi trattato di pace tra Erevan e Baku. In un contesto regionale già estremamente complesso, la tensione ormai altissima tra Occidente e Russia potrebbe dunque avere come effetto indesiderato il rallentamento o persino la sospensione del processo negoziale tra Armenia e Azerbaigian, almeno qualora il Cremlino decidesse di spendere tutte le carte a propria disposizione per ostacolarne il corso.

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