ARMENIA E KARABAKH: PREVENIRE UN MALE ESTREMO È POSSIBILE? (GARIWO 05.04.23)

Tra i Giusti onorati al Giardino di Milano il 3 marzo 2023 c’è un anziano scrittore azero, Akram Aylisli, reso silente in patria. Nel suo racconto “Sogni di pietra”, dedicato alla comunanza di storia tra armeni e azeri, affermava “Possiamo vivere insieme”.

Oggi il predominio nell’area sub-caucasica della “cultura del nemico” e una armeno-fobia costruita con profusione di mezzi e in modo capillare sembra minare al fondamento l’auspicio dell’anziano scrittore. I segni premonitori del male non sono mai stati colti e fermati in tempo ed è possibile che oggi si giunga di nuovo al male estremo.

Dobbiamo al giurista ebreo polacco Raphael Lemkin, onorato nel 2022 al Giardino Monte Stella di Milano, l’elaborazione più alta nel campo del Diritto Internazionale riguardante i “crimini senza nome”, i “crimini che sconvolgono la coscienza”, apparsi nella storia del Novecento prima con lo sterminio degli armeni, rimasto impunito, e poi con lo sterminio degli ebrei. Perseguitato dall’idea che uno Stato potesse eliminare i propri cittadini senza che una forza esterna potesse impedirlo, Lemkin coniò il termine genocidio, considerato il caso più grave di crimine contro l’umanità, e sottrasse la materia all’arbitrio dei singoli stati. La distruzione intenzionale “in tutto o in parte di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale”, doveva essere collocata nell’ambito del Diritto Internazionale. Una giurisdizione sovranazionale si rendeva necessaria per condannare un crimine che, riguardando la volontà di annientamento di un gruppo umano in quanto tale, colpisce l’umanità intera e non può mai andare in prescrizione. E’ nata così la “Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio”, adottata dall’ONU nel 1948. Una formulazione che fa precedere il termine “prevenzione” al termine “repressione” ci fa capire che con Lemkin non solo è nata una nuova coscienza giuridica, ma che l’elemento che più gli stava a cuore era di ordine morale: una condanna ma insieme un monito per prevenire nel futuro i crimini di genocidio.

Ho seguito fin dal 1988, l’anno del terremoto in Armenia, le vicende della enclave dell’Artsakh, la regione autonoma di montagna chiamata anche Nagorno Karabakh, poco più di 11.000 chilometri quadrati, da sempre popolata in maggioranza da armeni affidata da Stalin nel 1923 all’amministrazione dell’Azerbaijan. I prodromi dello sgretolamento dell’URSS e le manifestazioni di popolo per far valere il principio dell’autodeterminazione avevano guidato la mano del dittatore di Baku nei terribili pogrom contro la minoranza armena innocente residente nelle lontane città dell’Azerbaijan, Sumgait, Kirovabad e Baku. Samuel Shahmuradian a Yerevan nel 1989 aveva pubblicato in lingua russa le testimonianze degli scampati al pogrom che avevo potuto leggere nel 1991 nell’edizione francese. Ho poi curato l’edizione italiana del 2012 per Guerini e Associati: La tragedia di Sumgait. 1988. Un pogrom di armeni nell’Unione Sovietica. Testimonianze di orrori intervallate da qualche luce di bene, perché il fronte dei carnefici non è mai compatto; alcuni di questi atti di soccorso alle vittime li ho riproposti nella rubrica presente in gariwo.net, “Viaggio tra i disobbedienti azeri”.

La fiducia che mi animava allora, si è oggi indebolita e ritengo importante aggiornare il quadro degli eventi, analizzare e denunciare i fatti richiamando l’attenzione sui prodromi di mali più grandi per giungere alla domanda finale: in che cosa possiamo sperare? Oggi assistiamo a tali manifestazioni di odio inter-etnico che ci fanno temere nuovi genocidi.

Fin dalle origini del conflitto nell’area sub-caucasica della regione autonoma del Nagorno Karabakh, il principio di integrità territoriale sostenuto dal governo azero si è scontrato con il principio di autodeterminazione dei popoli invocato dagli armeni; una apparente contraddizione poiché, in base alla legge emanata il 3 aprile del 1990 dall’Unione sovietica ancora formalmente esistente, nel caso che l’autodeterminazione venga decisa con metodi non violenti, il vincolo dell’integrità territoriale viene a cadere. Nel Nagorno Karabakh, dopo la dichiarazione di indipendenza dall’URSS dell’Azerbaijan, si svolse un referendum che richiedeva l’annessione all’Armenia: anche allora la risposta violenta fu immediata. Dai pogrom del 1988 e 1990 in territorio azero, si è passati alla prima guerra del 1992-’94, seguita da un cessate il fuoco mai rispettato in trent’anni di tentativi falliti di risolvere la questione per via diplomatica.

Molte volte viaggiando in Karbakh era necessario tenersi lontani da alcune aree segnalate come pericolose per la presenza di cecchini. Era solo questione di tempo: la mattina del 27 settembre 2020 il governo azero, supportato dalla Turchia e dalla fornitura di droni e armi sofisticate, ha sferrato un attacco che in 44 giorni ha costretto l’Armenia alla resa. Gran parte del Karabakh è passato sotto il controllo azero con una fuga in massa della popolazione dei villaggi. L’enclave armena circa 120mila persone, è confinata oggi a Stepanakert e dintorni. L’intervento della Russia che ha tenuto un atteggiamento di pragmatismo neutrale per non intaccare le buone relazioni con l’Azerbaijan è giunto solo dopo l’abbattimento da parte dell’esercito di Baku di un elicottero russo in terra armena. Mosca si è conquistata il ruolo di peacekeeping e controlla con 2000 soldati le zone di confine e il corridoio di Lachin, unico collegamento tra l’Armenia e il Nagorno Karabakh. Ma la responsabilità di mediazione della Russia si è indebolita e il presidente azero ha avuto la possibilità di dare il via ad un’altra tappa del progetto di conquista. D’altro canto il terreno era stato preparato da anni.

In patria e all’estero l’Azerbaijan ha lanciato una campagna di odio e denigrazione, scatenando una armeno-fobia che si erge come muro invalicabile a impedire ogni possibilità di avvicinamento tra due popoli che in certi momenti della storia sono stati capaci di “vivere insieme”.

Si profila un altro Metz- Yeghern. Ieri come oggi è in gioco la sopravvivenza degli armeni. Un esempio di questa esplosione di odio lo ricaviamo dal caso Ramil Safarov, il militare azero in trasferta nel 2004 a Budapest per un corso Nato del programma Partenariato per la pace, al quale partecipavano anche i militari armeni: ha ucciso per puro odio etnico a colpi d’ascia nel sonno il militare armeno Gurgen Margaryan. Condannato in Ungheria all’ergastolo è stato estradato pochi anni dopo su richiesta di Baku e, contravvenendo all’accordo, non solo non ha scontato la pena in patria, ma è stato accolto con grandi onori, proclamato eroe nazionale e additato ai giovani come esempio di patriottismo. E’ bene sottolineare che il programma Nato aveva come obiettivo di creare un clima di fiducia reciproca tra i paesi membri dell’Alleanza atlantica e gli stati dell’ex Unione sovietica. E venendo all’oggi, a poco tempo di distanza dalla fine della guerra, il 12 aprile del 2021, il presidente Aliyev ha inaugurato il Parco dei trofei di guerra, definito dagli attivisti per i diritti umani e da molti giornalisti esteri “Parco degli orrori”. L’accesso avviene attraverso un lungo e ampio corridoio in cui sono esposti gli elmetti dei soldati armeni uccisi. E cosa grave sono le visite giornaliere di scolaresche che possono vedere allestimenti di scene con soldati armeni, manichini di cera con lunghi nasi, armi e macchinari sequestrati al nemico sconfitto. L’appello di Akram Aylisli “Possiamo vivere insieme”, sembra vana illusione, speranza distrutta insieme ai suoi libri bruciati in piazza. L’odio è anche penetrato in modo preoccupante nelle manifestazioni sportive, senza reazioni significative della comunità internazionale.

Sembra che gli armeni abbiano perso il diritto di avere una patria su un territorio da loro abitato da 3000 anni. Dopo un breve periodo caratterizzato da un vasto Impero armeno agli albori dell’anno zero della nostra epoca, la loro storia è segnata da stermini e diaspore e si deve giungere al 1991 per vedere una Armenia indipendente su un piccolo territorio, oggi minacciata nella sua esistenza.

Nel settembre del 2022, dopo la conquista del Karabakh, l’esercito azero ha attaccato anche l’Armenia, prendendo possesso di tre regioni di confine che ora controllano. La Federazione russa non è intervenuta pur essendo di fronte a una palese violazione degli accordi tripartiti del 2020; aggira le sanzioni incrementando l’esportazione di idrocarburi attraverso gli oleodotti azeri. Il presidente azero Aliyev sta alzando i toni e rivendica l’annessione della capitale Yerevan, ritenuta “storicamente” territorio proprio. Questa situazione dimostra che esiste uno stato di guerra permanente. Il cessate il fuoco del 9 novembre del 2020 vede ridotto a un terzo il territorio abitato da circa 120mila armeni che si riconoscono nell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, ma che oggi non possono contare su alcuna protezione umanitaria.

Le aggressioni dell’esercito dell’Azerbaijan continuano. Nel dicembre 2022 Baku ha inviato un gruppo di cosiddetti “attivisti ecologici” a bloccare il corridoio di Lachin, l’unico collegamento tra l’Armenia e il Nagorno-Karabakh. 120mila armeni, vecchi, donne, uomini, bambini, sono rimasti bloccati a Stepanakert e dintorni in una situazione umanitaria disastrosa, con scarsità di cibo, medicinali, elettricità e gas. Una specie di grande ghetto di Varsavia. Baku non offre alternative: devono vivere sotto la giurisdizione azera e questo per gli armeni del Karabakh è impensabile, viste le violenze subite nei progrom; ai “karabakhzi” non resterebbe che l’esodo o la morte se decidessero di resistere. Gli azeri stanno realizzando il loro sogno di svuotare il Nagorno-Karabakh della presenza armena. È in corso una pulizia etnica. A Stepanakert regna il buio e la desolazione. Pochi alimenti giungono con la Croce rossa che trasporta a Yerevan solo i malati gravi.

L’Armenia è legata alla Russia da un accordo di mutua sicurezza, il CSTO (Collectiv Security Treaty Organisation, una riedizione del vecchio patto di Varsavia), mentre l’Azerbaijan non ne fa parte. I peacekeepers russi che avrebbero il compito di prevenire attacchi contro gli armeni del Karabakh e garantire la viabilità, non intervengono per liberare il passaggio del corridoio di Lachin. Il ruolo di Baku è cresciuto di importanza anche in relazione all’Europa che per compensare la mancanza di idrocarburi provenienti dalla Russia sta aumentando notevolmente le importazioni dall’Azerbaijan. In questa posizione egemone Baku pensa di poter agire liberamente. La firma dell’accordo del luglio del 2022 tra Ursula von der Leyen e il presidente Aliyev che raddoppia la fornitura del gas attraverso la pipeline TAP, ci dice chiaramente quale è la scelta dell’Europa. Poche voci hanno espresso parere contrario; tra queste l’eurodeputata della Repubblica ceca Marketa Gregerova, peraltro inascoltata, che invitava a imparare dalla esperienza con la Russia e non aumentare la dipendenza da un’altra dittatura come quella dell’Azerbaijan..

Difficile scelta: proteggere un paese democratico come l’Armenia o sostenere un Paese non democratico come l’Azerbaijan, agli ultimi posti nella salvaguardia dei diritti umani? In Europa e in Italia ha vinto il pragmatismo e la gestione sempre più complessa della geopolitica sopravanza ogni richiamo a preservare la vita e la libertà degli esseri umani. In seguito alle pressioni del presidente dell’Armenia Pashinian, il Parlamento Europeo ha condannato l’azione dell’Azerbaijan a Lachin ma sappiamo quale scarso impatto possa avere tale condanna visti gli accordi intercorsi tra l’Unione europea e il governo azero.

Ai tanti contenziosi aperti si è aggiunto anche il problema della concessione del passaggio di Meghri che taglierebbe in due l’Armenia che per questo chiede legittimamente una Giurisdizione Internazionale che operi super-partes in un’area di confine assai delicata. Sarebbe preferibile per l’Armenia arrivare ad una soluzione di lungo periodo che preveda l’apertura dei confini tra i paesi della regione e permetta ai cittadini di muoversi senza ostacoli. È in quest’ottica che l’Armenia sta prendendo in considerazione la normalizzazione dei suoi rapporti con la Turchia riavviando i negoziati con Ankara sospesi dal 2010.

Il prolungamento del conflitto in Ucraina sta permettendo all’Azerbaijan di utilizzare questa situazione ai danni dell’Armenia che sembra entrata in un vicolo cieco. Tuttavia il quadro geopolitico cambia continuamente. Recente è l’avvicinamento fra l’Iran e l’Arabia Saudita, nonché tra Cina e Russia. Gli appelli per il blocco di Lachin del 12 dicembre 2022 rivolti dall’Armenia all’Occidente di fronte a una Russia neutrale che “abbandona gli armeni nelle fauci di turchi e azeri”, hanno fatto sì che qualcosa si muovesse. Più di una decina di organizzazioni a difesa dei diritti umani hanno emanato un’allerta di rischio di genocidio per gli armeni del Nagorno Karabakh avendo individuato sul territorio la presenza di crimini atroci che corrispondono ai 14 punti del documento Onu relativo alla prevenzione del crimine di genocidio; come abbiamo visto, nel gennaio del 2023 si è pronunciato con la Risoluzione 2023/2504 il Parlamento europeo condannando l’Azerbaijan per la violazione degli obblighi internazionali e richiamando al rispetto della dichiarazione trilaterale del cessate il fuoco; il 29 gennaio si è pronunciato papa Francesco all’Angelus; il 10 febbraio Amnesty International e il 22 febbraio la Corte Internazionale di Giustizia.

Il servizio di Daniele Bellocchio pubblicato sul n° 7/2023 di Famiglia Cristiana, “L’ Artsakh dimenticato”, ha provocato la reazione dell’ambasciatore azero presso la Santa Sede che ha inviato una lettera di protesta al direttore del giornale, ma anche una risposta ferma e pacata che indica come unica via “una pace giusta nel rispetto della libertà della persona umana e delle sue tradizioni”.

Nathalie Loiseau, francese, membro del Parlamento europeo, ha condannato il blocco definendolo “illegale e crudele”, sottolineando la contraddizione tra la dichiarazione del presidente Aliyev dell’appartenenza della regione all’Azerbaijan e la scelta di impedire alla popolazione considerata “propria”, di ricevere rifornimenti e medicine.

Anche dalla Francia intellettuali, laici, cristiani, ebrei, musulmani, condannano l’imperialismo dell’Azerbaijan e della Turchia, definendole nuove dittature che a distanza di un secolo dallo sterminio di un milione e mezzo di Armeni nell’Impero ottomano, minacciano di far sparire un paese di millenaria cultura; si appellano all’imperativo morale che deve risvegliare le coscienze di tutti di fronte a una possibile perdita per l’umanità intera; altri appelli sono giunti dagli Stati Uniti. La Russia e l’Italia sono stati “testimoni silenziosi dello spopolamento del Nagorno Karabakh”, eccezion fatta per un tardivo richiamo del Ministro degli esteri Sergej Lavrov al suo omonimo azero al rispetto del patto tripartito del 9 novembre 2020.

Non c’è sino ad oggi un segnale di cambiamento delle posizioni massimaliste di Baku che prosegue in modo capillare nell’opera di disinformazione dell’opinione pubblica a livello nazionale e internazionale. La verità ufficiale maschera la menzogna e come accade da sempre nei conflitti, nelle aggressioni e nelle atrocità di massa, le vittime diventano i colpevoli. Agli armeni oggi come ieri viene sottratta la loro identità e la loro storia: un popolo “inesistente” in Turchia, non solo perché cancellato, anche nella sua cultura, dal genocidio del 1915 e dalla riscrittura della storia operata da Mustafa Kemal, il padre della patria turca, ma anche una presenza considerata oggi dal presidente Aliyev “abusiva” nel Nagorno Karabakh, tanto da poter rimuovere dal patrimonio monumentale cristiano dell’area “i falsi armeni” e rinominarli “albaniano-caucasici”, e arrivare al punto di rivendicare il controllo su Yerevan, capitale dell’Armenia indipendente.

L’esperto del Caucaso Laurence Broers indica un parallelismo tra i pronunciamenti del governo russo che considera l’Ucraina una nazione “falsa” e quelli del governo azero che sostiene che l’Armenia ha una storia “falsa” e quindi, conclude, “elevando la portata del conflitto su un piano esistenziale”. Siamo di fronte ancora una volta alla “maschera della verità”, alla “post-verità” (Moises Naim, Il tempo dei Tiranni, Feltrinelli, Milano 2022).

Come realizzare un processo di normalizzazione e preparare la pace in un contesto di negazionismo consolidato dalla vittoria militare e da un quadro geopolitico ogni giorno più impegnativo e complesso nel quale i dittatori che non riconoscono il Diritto Internazionale, possono agire impunemente nelle nuove logiche imperialiste?

Ritorno alla domanda inizialedi fronte al dilagare dell’odio e della cultura del nemico, in che cosa possiamo sperare?

Prima di tutto per resistere di fronte alle autocrazie e alle dittature occorre consolidare le nostre democrazie che presentano lacerazioni latenti, indebolimento sul piano dei valori, della autonomia di pensiero, della cultura in senso lato, della capacità di distinguere e contestualizzare. Le relazioni nelle comunità si incrinano per la superficialità e l’inconsistenza dei discorsi, per la tendenza a considerare con fastidio un pensiero divergente, per il “chiacchiericcio” che trasforma il sentito dire in verità e che alimenta la paura dell’altro aprendo lo scenario minaccioso del “nemico” responsabile dei nostri problemi e delle nostre insoddisfazioni. Invertire la rotta significa guardare i fatti, verificare la consistenza delle narrazioni che ci circondano, soprattutto oggi in cui la guerra è entrata nella nostra quotidianità, sostenere le battaglie per la libertà e i diritti cominciando dalla denuncia del male e ricercare i punti di resistenza. Tra Armeni e Azeri i trent’anni di negoziati falliti hanno logorato la fiducia reciproca. Se lo sguardo si aprisse alla dimensione del mondo sottraendosi agli stereotipi e alla propaganda che ha creato la criminalizzazione del popolo nemico, se si cogliessero i nodi cruciali di un passato che condiziona ma che ha potuto diventare eredità su cui costruire il nuovo, come è accaduto all’Europa dopo la seconda guerra mondiale, se si cogliesse quel poco di bene che sempre esiste dentro lo scorrere del male, sarebbe possibile creare le condizioni di una inversione di rotta. La fiducia reciproca va ricostituita a livello dei singoli e dei popoli con scelte nuove e creative, anche a livello diplomatico. Il senso della fragilità e del limite apre al bisogno dell’altro, crea la relazione di fiducia, il noi “forte” capace di resistere al sistema di potere in cui il dittatore di turno tende a creare una società di vittime e carnefici. Gli esempi dei Giusti dell’umanità alimentano il coraggio, una dote che a sua volta alimenta il bene. E quando manca il coraggio, lo vediamo negli scenari di guerra oggi aperti dai dittatori, si ricorre alla minaccia che crea la paura e la passività dei popoli sottomessi.

L’Italia potrebbe avere un ruolo importante sullo scacchiere internazionale per fermare l’aggressività dell’Azerbaijan, proprio perché ha legami economici stretti con Baku che creano vantaggi reciproci. Perché non possiamo contare sul coraggio di una diplomazia capace di esortare alla pace e al rispetto dei diritti.  Lo stesso vale per l’Europa, nonostante gli accordi sottoscritti per i rifornimenti energetici con l’Azerbaigian. Con il declino del Gruppo Minsk si profila la possibilità che l’Europa assuma un ruolo più forte nelle trattative di pace tra Armenia e Azerbaijan. L’Europa che ha voluto istituire la Giornata europea dei Giusti dell’Umanità può rinforzare la voce di Aktram Aylisli e di tanti come lui in Azerbaijan e in Armenia: possiamo vivere insieme.

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