Armenia, il sogno della pace. Viaggio nel più antico paese cristiano del mondo che tra pochi giorni accoglierà il Papa (Il Messaggero 20.06.16)

L’Ararat è laggiù, un fermo immagine sullo sfondo. Ovunque si vada,  la montagna sacra sovrasta il panorama armeno come una specie di fondale incantato. La neve sulla cima, l’azzurrino della sagoma imponente. Quasi un miraggio. È l’immensa montagna dell’arca di Noè, dove tutto è iniziato, secondo il racconto della Genesi, dopo il Diluvio Universale (“Nel settimo mese, il diciassette del mese, l’arca si posò sui monti dell’Ararat”).

La tradizione biblica in Armenia si intreccia con la storia del suo popolo. Il “Paese delle pietre urlanti”, viene chiamato, per  evocare i Khatchkar, le grandi croci incise come ricami  di tufo sulle steli di cui è disseminato il territorio e che nessuno è mai ancora riuscito a distruggere o a rovinare. Son lì a sfidare il tempo.  Una tradizione, quella di lavorare la pietra, iniziata a partire dai primi secoli, dall’introduzione del cristianesimo,  visto che l’Armenia è stata la prima nazione al mondo a convertirsi e ad adottare questa fede come religione di Stato, nel 301, anticipando di dodici anni la svolta dell’imperatore Costantino.

Da quel momento, inizia a prendere piede l’inconfondibile architettura religiosa, maestra nell’intagliare le pietre. Restano perfetti, integri, diversi monasteri scolpiti e scavati nella roccia, gioielli di cui è disseminato il territorio, aggrappati a strapiombi o a panorami di una bellezza mozzafiato. Alla fine di questo mese, dal 24 al 26 giugno, l’Armenia si prepara ad accogliere Papa Francesco. «È una visita che noi stiamo preparando per dirgli grazie. Un grazie dal profondo del cuore per avere avuto il coraggio di parlare del genocidio l’anno scorso, a san Pietro, durante la messa per le vittime», hanno commentato all’unisono  il vescovo cattolico, Minassian  e quello gregoriano Mikael Ajapahian.

Le vicende del 1915, lontane un secolo,  pesano ancora sull’anima dei questo popolo sopravvissuto. L’Armenia, 3,5 milioni e mezzo di abitanti su un territorio grande quanto la Lombardia, guarda avanti fiduciosa e resiste puntando molto sul turismo. Spagnoli, italiani, francesi, americani ma sempre di più anche comitive di giapponesi e cinesi. Una risorsa destinata ad avere un peso sempre maggiore nell’economia. Basta vedere gli investimenti che attrae il comparto. Per esempio le grandi catene alberghiere, ultima delle quali Radisson.

DIPLOMAZIA
Quasi il 50 per cento delle spese del bilancio statale finiscono per forza di cose al ministero della Difesa, per finanziare gli armamenti necessari a vigilare sulla frontiera turca e quella azera. Deterrenti inevitabili per la sicurezza del Paese. Come se il passato per gli armeni non passasse mai. Naturalmente, l’aspetto religioso non c’entra granché, eppure è difficile ignorare che ancora una volta un Paese tradizionalmente cristiano viene isolato sullo scenario internazionale, stretto com’è tra due nazioni musulmane. Da una parte la Turchia, dall’altra l’Azerbaigian. Calcoli economici e politici, il gas azero, gli idrocarburi, l’egemonia di Ankara, nodi diplomatici irrisolti sin dai tempi della fine della prima guerra mondiale.

Con buona pace di tutti, due trattati, quello di Sevrès e quello di Losanna, rispettivamente nel 1921 e nel 1923, hanno sepolto la giustizia. Da allora in poi divenne tabù riaprire il tema della causa armena, ovvero lo sterminio di massa pianificato a tavolino dal triumvirato Enver-Talat-Djemal, costato la vita a quasi due milioni di armeni che fino ad allora vivevano pacificamente sotto l’impero ottomano, per appropriarsi dei loro beni attraverso una legge. Eppure la memoria, essendo scriba dell’anima, come diceva Aristotele,  è destinata prima o poi a riemergere. Impossibile da soffocare. Così chi arriva a Yerevan, capitale di 1,5 milioni di persone, non può che iniziare con la visita al Memoriale del Genocidio, una sorta di Yad Vashem. Steli di pietra reclinati su un fuoco perenne che arde in un braciere ricordano tanti volti. Le marce nel deserto, la perdita della patria amata, i campi di concentramento nel deserto di Deir es Zor, oggi territorio siriano. Poi i massacri dei bambini piccoli, mentre invece quelli più grandicelli venivano venduti come schiavi al mercato al costo di un montone. Le bambine armene facevano le stessa fine che fanno oggi tante bambine yazide nelle mani dei miliziani dell’Isis.