Armenia, le ragioni dietro l’escalation di violenza (Lettera43 31.07.16)

In Armenia si torna a sparare. Non nelle zone contese del Nagorno-Karabakh, ma a Yeravan, la capitale.
Il governo armeno per il momento è stabile, ma la protesta si sta allargando.
Scontri con le forze dell’ordine, arresti e barricate si sono succedute in questi giorni, anche se per ora solo in scala ancora ridotta.
Ma le radici dell’insoddisfazione sono profonde nel Paese.
DERIVA AUTORITARIA. «Il potere del presidente Serzh Sargsyan e del partito repubblicano che lui rappresenta, secondo molti armeni, avrebbe intrapreso una deriva autoritaria», spiega a Lettera43.it Simone Zoppellaro, autore di Armenia Oggi. Drammi e sfide di una nazione vivente (Guerini e Associati, 2016).
Ciononostante, precisa, «almeno per gli standard della regione l’Armenia resta un Paese relativamente libero. Pesano la corruzione, la povertà diffusa e le disuguaglianze, ma il dato positivo è che la società civile è sempre più attiva e si sta scrollando di dosso pian piano ciò che rimane del torpore sovietico».
INSORTI SUL PIEDE DI GUERRA. I componenti del gruppo armato che il 17 luglio ha assaltato e occupato una caserma della polizia il 27 hanno preso in ostaggio il personale sanitario inviato sul posto per curare i feriti.
Gli insorti chiedevano il rilascio del loro leader, Jirair Sefilyan, e di altri prigionieri.
Inoltre, vogliono le dimissioni del presidente Sargsyan e la formazione di un governo di transizione. «Ma si tratta di un obiettivo non molto realistico», precisa Zoppellaro.
Le autorità armene, continua l’esperto, «esitano a ricorrere alla forza per evitare un bagno di sangue». E questo è un pericolo concreto, perché gli insorti sono ben addestrati e ben armati.

La tensione in Armenia e il braccio di ferro con l’Azerbaigian

Evidenziata nella mappa, la regione del Nagorno-Karabakh.

Evidenziata nella mappa, la regione del Nagorno-Karabakh.

Sefilyan, un armeno-libanese arrestato a fine giugno per possesso e traffico illegale di armi, è un veterano della guerra del Karabakh che successivamente si è dato alla politica.
«Nel Paese», spiega Zoppellaro, «è noto per le sue posizioni ultra-nazionalistiche e per la sua ferma opposizione a ogni compromesso con l’Azerbaigian per quel che riguarda il conflitto del Karabakh».
Il suo seguito politico «non è per nulla numeroso, ma è anche vero che è molto rispettato dalla popolazione, soprattutto perché si è distinto per un ruolo di primo piano nella guerra».
LA CONTESA SUL KARABAKH. Il conflitto del Nagorno-Karabakh nasce negli anni della dissoluzione dell’Unione Sovietica a causa di una questione territoriale.
Il Karabakh, che era parte della Repubblica socialista sovietica dell’Azerbaigian, era abitato da una larga maggioranza armena.
La fine dell’Urss fu vista da molti armeni come un’occasione di annettere questo territorio alla madre patria.
L’Azerbaigian si oppose, ne nacquero pogrom e massacri da entrambe le parti, la situazione sfuggì di mano e si trasformò in una guerra aperta che durò fino al 1994. Quando si giunse a un cessate il fuoco, a cui non fa però seguito alcun accordo di pace.
NESSUNO HA CERCATO LA PACE. «Una pace che nessuno hai mai cercato, né i Paesi coinvolti né la comunità internazionale», precisa Zoppellaro. «Per oltre vent’anni c’è stata una serie infinita di incontri, dichiarazioni e affermazioni retoriche di una volontà di pace, ma la realtà è molto diversa. I regimi al potere nei due Paesi coinvolti, col tempo, hanno fatto del conflitto un elemento di coesione molto forte nei loro giovani Stati».
Non solo. Secondo l’esperto «si è poi sviluppata tutta un’economia legata a questa guerra, con interessi enormi, anche per l’acquisto delle armi».

Una regione cruciale dal punto di vista energetico

Da un punto di vista geopolitico, «c’è inoltre la volontà delle grandi potenze di tenere sotto scacco una regione cruciale da un punto di vista energetico. E una guerra è un’ottima garanzia che il regime al potere in Azerbaigian, Paese ricco di petrolio e gas, non possa alzare troppo la testa, una specie di tallone di Achille che ne ridimensiona le ambizioni di potenza».
Per questa ragione, «ma anche per un cinismo bieco e ipocrita da parte delle istituzioni europee e degli Stati coinvolti nella “mediazione”, inclusi Russia e Usa, una guerra assurda che potrebbe finire domani si trascina da oltre un quarto di secolo».
30 MILA MORTI DAGLI ANNI 90. Il risultato è che il Karabakh, abitato ormai quasi solo da armeni, si è auto-proclamato Repubblica indipendente, senza però che alcun Stato al mondo lo riconosca.
Per questo resta a livello ufficiale parte dell’Azerbaigian, che lo rivendica come suo. E periodicamente riesplode la violenza.
Come nello scorso aprile, quando in appena quattro giorni di combattimenti sono morte oltre 300 persone. Tra loro molti civili.
«Questa guerra continua dai primi Anni 90», dice Zoppellaro, «ha prodotto 30 mila morti, 1 milione di profughi e sfollati e la distruzione di intere città e villaggi».
Come Aghdam, un tempo abitata dagli azeri e chiamata l’Hiroshima del Caucaso perché completamente rasa al suolo: «Ancora oggi, come se il tempo si fosse fermato a cent’anni fa, abbiamo alle frontiere dell’Europa un paesaggio di trincee dove i giovani di entrambe le parti muoiono ogni mese».
YEREVAN PERDE TERRENO. Negli scontri di aprile, l’Armenia ha perso diversi chilometri lungo la frontiera.
Per giorni, dopo l’ultima escalation, le autorità hanno smentito, ma in seguito è stato lo stesso presidente ad ammetterlo parlando con i giornalisti.
«Di sicuro posso dire, essendoci stato a maggio, che la frontiera a ridosso del villaggio di Talish si è spostata a favore dell’Azerbaigian», spiega Zoppellaro. «Questa e altre perdite hanno di fatto creato un terremoto nei vertici politici armeni. Sono saltate le teste di diversi ufficiali dell’esercito e ci sono stati scambi molto duri di accuse contro il governo».
Negli ultimi giorni, intanto, ci sono stati molti arresti e fermi di polizia a Yerevan e in altre città contro membri dell’opposizione. «Con ogni probabilità», conclude Zoppellaro, «gli ultimi episodi di violenza finiranno per rafforzare ulteriormente il potere del partito di governo e di Sargsyan. Tutto l’opposto di quello che gli insorti vorrebbero».

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