Azerbaijan e libertà: bavagli e persone non gradite al governo. Nel mirino anche i social network (Eastonline.eu 04.04.16)

Un inarrestabile giro di vite, che decima l’attiva comunità di organizzazioni e media indipendenti e non governativi che fino a poco tempo fa animavano la libertà di espressione in Azerbaijan. A dirlo è lo Human Rights Watch, attraverso il suo report pubblicato per il 2016. Chiaro segno che a sud del Caucaso le cose stanno cambiando, o che forse la parola “democrazia”, con tutto ciò che da essa consegue, non ha mai realmente attecchito da quelle parti.


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A farne le spese, in termini di libertà appunto, sono, tra le altre, 36 persone italiane, il cui elenco è comparso sul sito del Ministero degli Affari Esteri italiano, alla voce “elenco dei cittadini italiani a cui è vietato l’ingresso nel territorio della Repubblica dell’Azerbaijan”. Una notizia che dovrebbe far riflettere ancor di più su ciò che accade in paesi a noi vicini, con i quali l’Italia stringe accordi commerciali al “sapor” di petrolio. Poco a sud di Baku, capitale dell’Azerbaijan, c’è ad esempio il giacimento che, attraverso il gasdotto TAP (“varato” con lo Sblocca Italia), dovrebbe portare il gas in Europa tramite un tracciato che vede il suo approdo sulle coste pugliesi.

L’elenco

 A comparire nella lunga lista delle “personae non gratae” al governo azero, tanti scrittori, giornalisti, artisti. Ma anche impiegati e addetti culturali. Tra loro, 36 appartengono a nomi noti della stampa e della cultura italiana: Milena Gabanelli, giornalista della Rai e del Corriere della Sera; Simone Benazzo, di East Journal; Roberto Travan, de “La Stampa”; Anna Mazzone, anche lei giornalista; Simone Zoppellaro, corrispondente per l’Osservatorio Balcani e Caucaso. Non solo: sotto la lente della sicurezza azera ci sono diversi attori e tecnici dei Cantieri Teatrali Koreja, di Lecce. Nella lista compaiono infatti i nomi di Alessandra Crocco, Giovanni Di Monte, dei direttori artistici Salvatore Tramacere e Franco Ungaro.

I primi segnali della stretta del governo si ebbero già a dicembre 2014, quando le forze dell’ordine fecero irruzione negli uffici di Radio Azadlig a Baku, interrogando giornalisti e corrispondenti. Molti di loro poco dopo lasciarono il paese. Poi l’escalation a giugno 2015, quando Baku ospitò per la prima volta gli European Games. Così, uno ad uno, sono caduti avvocati, difensori “veterani” dei diritti umani, e sono stati condannati gli avvocati Intigam Aliyev, Leyla e Arif Yunus, la giornalista investigativa Khadija Ismayilova. La Ismayilova lavorava per il media indipendente Radio Free Europe/Radio Liberty, il cui ufficio a Baku fu chiuso dalle autorità a dicembre 2014, proprio poco dopo l’arresto di Khadija. Si trovano in prigione, per condanne e motivazioni politiche, l’editorialista dell’Azadlig, Seymur Haziyev, e gli attivisti di partiti d’opposizione Siraj e Faraj Kerimlis, e Murad Adilov. Taleh Khasmammadov, un attivista dei diritti umani, è stato condannato a 3 anni di prigione. Tutto questo nonostante la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo abbia affermato che le condanne di cui sono stati vittime giornalisti, attivisti e avvocati azeri siano da considerare illegali.

Oltre ad aver ristretto l’accesso al paese per giornalisti internazionali di diverse emittenti durante il 2015, il governo azero ha bloccato gli uffici nella capitale dell’OSCE, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione, tanto che quest’ultima si è rifiutata per la prima volta di inviare una missione di osservatori in concomitanza con le ultime elezioni parlamentari dello scorso anno. Ad oggi, da parte europea, c’è un timido tentativo di provare a fermare questa emorragia di diritti nella zona caucasica: a dicembre, infatti, Thorbjorn Jagland, il segretario generale del Consiglio d’Europa, ha annunciato l’inizio di un’inchiesta con al centro i diritti umani in Azerbaijan.

E sotto la scure, finiscono anche i blog e i social network, come Facebook e Twitter. Sebbene, in Azerbaijan, gli internauti si rivolgano a questi ultimi spesso per diffondere e condividere opinioni critiche nei confronti delle forze governative, così come per porre l’attenzione su questioni spesso ignorate dai media mainstream, negli ultimi anni è comparsa una forte deterrenza al loro utilizzo: in diversi tra avvocati e magistrati prestano il fianco a bollarli come “criminali” e “diffamatori”, aprendo così la strada a nuovi arresti, motivati da ragioni politiche, di blogger e attivisti.

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