“Benedici questa croce di spighe”, la cultura del popolo armeno stroncato dal genocidio (IlSussiduario.net 06.02.18)

“Benedici questa croce di spighe”: una raccolta di testi di scrittori e poeti armeni, accomunati da un profondo amore per la patria armena e da uno stesso tragico destino. GIUSEPPE EMMOLO

Cerimonia a Yerevan per ricordare il genocidio armenoCerimonia a Yerevan per ricordare il genocidio armeno

Antonia Arslan, nota scrittrice armena e autrice del romanzo La masseria delle allodole, ha presentato presso il Centro Culturale di Milano un nuovo libro, Benedici questa croce di spighe. Antologia di scrittori armeni vittime del Genocidio (Ares, 2017) che raccoglie testi poetici e in prosa di grande valore letterario. Si tratta di scrittori diversi tra loro per formazione, interessi, stili di scrittura, e tuttavia accomunati da un profondo amore per la patria armena e da uno stesso tragico destino.

Questi letterati, infatti, facevano parte di quella intellighentia armena — oltre 2mila persone — che la notte del 24 aprile 1915 fu prelevata dalla propria abitazione a Costantinopoli, mandata in esilio in varie località del Paese e trucidata durante finti trasferimenti da agenti del governo turco, in attuazione di un piano che prevedeva la pulizia etnica e la bonifica del territorio dalla presenza armena. A ridosso di quel periodo di fine XIX secolo la cultura armena stava vivendo un vero risveglio letterario, culturale e anche politico sotto l’Impero Ottomano: in effetti, leggendo i testi, “incontrando” gli autori e le loro storie, per la freschezza di ispirazione e la resa espressiva della scrittura si capisce che si trattò di vero “rinascimento”. Si sente nei loro versi l’eco di una tradizione forte — la nostalgia per la Grande Armenia delle cattedrali e dei monasteri medievali, con i suoi leggendari manoscritti miniati, i grandi castelli, gli arcieri e le belle dame… — e l’intreccio fra la tradizione del poetare d’amore orientale, specialmente persiano, i vividi e pittoreschi canti degli ashug (trovatori armeni) come Sayat-Nova, e un’avida lettura della poesia occidentale dell’Ottocento.

Questa pubblicazione mostra che, a fronte di greci siriaci latini che vissero sottomessi in terra ottomana, la minoranza armena aveva sviluppato un’interazione culturale e intellettuale con l’Occidente notevolissima. Importante fu l’opera dell’abate Mechitar e della Congregazione di Padri armeni, fondata a Venezia fin dal XVIII secolo, che introdusse gli armeni alla conoscenza della letteratura italiana. Intensi furono gli scambi con la cultura tedesca e anglo-francese. Questa assiduità di relazioni è certamente una delle ragioni della rinascita armena di fine Ottocento e primo Novecento.

I racconti, poi, sono intessuti di trame coinvolgenti e i testi in versi ricchi di metafore, analogie e similitudini tratte dal vissuto delle periferie esistenziali dell’epoca (artigiani, contadini, emigranti). Certe metafore sono così originali e impensabili che si resta ammirati.

Dei dodici poeti della raccolta, Daniel Varujan è forse il più grande, non a caso è detto “il Leopardi armeno”. Vi sono di lui frammenti poetici dall’indubbio sapore dantesco (Lettere di nostalgia), echi della peste manzoniana (Il carro dei cadaveri), si sentono Pascoli, Foscolo (Alla croce) e perfino d’Annunzio. Varujan è autore de Il canto del pane, un capolavoro composto in poche settimane prima della morte. Nella poesia Notte sull’aia l’Infinito leopardiano appare sia nella stratificazione testuale che nello sguardo di Varujan: l’io dell’armeno, però, respira più della comunione con il Tutto che della solitudine cosmica del recanatese. Nella poesia Croce di spighe la vita è percepita con forte realismo e nello stesso tempo con positività, non con speranza ottimistica che genera solo rimpianti, ma con il senso di un’attesa che genera letizia.

In questo viaggio nella poesia armena non dovrà mancare l’incontro con Siamantò, pseudonimo di Adom Yargianian: la poesia forse più significativa dell’intera raccolta è Io voglio morire cantando: è il grido dell’io che appartiene al popolo al punto da abbracciarne e desiderarne il destino. Sono realmente versi da vertigine.

C’è lo scrittore Rupen Zartarian con il racconto La mia casa paterna, che con toni pascoliani e leopardiani esprime un senso tutto moderno della casa: casa come un “appartenere”, un vibrare all’unisono: l’io assume il volto di un noi, che smaschera ogni autosufficienza.

Infine c’è Garabed der Sahaghian, le cui poesie sono pervase di pace e nello stesso tempo di tensione (Eterno Ararat): Garabed conosceva ben cinque lingue. Morì insieme ai suoi studenti, che non volle abbandonare nelle mani degli aguzzini.

Le tematiche che offre il libro Benedici questa croce di spighe sono di grande attualità. Gli Armeni hanno vissuto il loro “risveglio” quando hanno iniziato a svolgere il ruolo di popolo-ponte tra Oriente e Occidente. Ogni rinascita accade quando c’è disponibilità e apertura al dialogo, all’altro. E’ ciò cui ci richiama spesso Papa Francesco. I poeti armeni ci dicono che solo coniugando ciò che è globale con ciò che è locale si possono vincere le sfide del futuro. L’alternativa è chiudersi nella statolatria, la stessa che portò i turchi a considerare l’appartenenza etnica più importante della stessa religione islamica.

Erdogan è venuto in Italia per chiedere di poter entrare nella Ue. Ma ancora oggi il genocidio armeno viene negato dai turchi ed è per questo che gli armeni continuano a non avere patria. Non si può costruire una casa comune, l’Europa, senza verità. Il turista che va in Turchia a visitare l’antica capitale armena di Ani “dalle 1001 chiese”, trova l’indicazione città “bizantina”, o chi va a visitare Istanbul (l’antica Costantinopoli), si sente dire dalle guide che gli edifici artistici costruiti nel passato da architetti armeni sarebbero opera di italiani. Ancora oggi l’opinione pubblica turca è su posizioni negazioniste, quando nessun storico serio si sognerebbe di mettere in dubbio il genocidio del 1915 di un milione e mezzo di armeni.

Gli Armeni sono senza patria. Ciononostante la loro unità, benché in diaspora, è misteriosa quanto irriducibile. Uno dei fattori di questa unità risiede certamente nella lingua, capace di cementare l’appartenenza e l’autocoscienza di popolo. Ma insieme alla lingua c’è anche la poesia. I poeti armeni non sono dei solitari che, per un gusto estetizzante amano cullarsi nel loro solipsismo; essi sono e si concepiscono voce del popolo. A differenza di tanti poeti italiani o d’oltralpe che sono espressione di una società nichilista e borghese, il cuore del poeta armeno batte all’unisono con quello del popolo. Un solo unico cuore, ancorché spezzato di nostalgia, ma intatto della speranza del ritorno in patria.

Vai al sito