Bosco Sacro – Live at Chiesa Armena (Impatto Sonoro 18.04.25)
C’è un punto, nel tempo e nello spazio, in cui la musica smette di essere intrattenimento e si trasfigura in rito. In quel punto dimora “Live at Chiesa Armena”, il nuovo, necessario album dei Bosco Sacro, quartetto italiano che pare suonare non strumenti ma elementi: fuoco, vento, pietra, spirito.
Registrato nella cappella cinquecentesca di una villa immersa nel silenzio arcano del nord-est italiano, questo disco è un documento che cattura l’essenza di un respiro collettivo che attraversa i corpi e si fa suono. C’è una tensione sacra in ogni brano, una liturgia profana che unisce la solennità degli Swans alla sospensione eterea dei Cocteau Twins, passando per l’abissale bellezza dei Dead Can Dance.
La voce di Giulia Parin Zecchin, evoca. È un richiamo ancestrale, a tratti madre, a tratti spettro, che fluttua tra le chitarre dilatate e oblique di Paolo Monti e Francesco Vara. Le loro corde non tremolano: si aprono come crepe nella terra, lasciando emergere paesaggi interiori devastati e fertili. Luca Scotti, con la batteria, sembra scandire il tempo di un cuore collettivo che batte lento, profondissimo, quasi geologico.
L’apertura con The Future Past è già un varco dimensionale: un lento dischiudersi dell’aria, in cui strati di suono si accartocciano come foglie d’autunno sul pavimento di una cattedrale abbandonata. Il tempo si dilata, si torce, si spezza – come in un sogno lucido da cui non si vuole più uscire. Dong Dee emerge invece come un battito sciamanico nel sottobosco: un incantesimo ritmato da pulsazioni tribali e riflessi acustici, dove ogni eco sembra un richiamo da un’altra epoca, o forse da un’altra vita. Una danza delle ombre che si chiudono in cerchio. Undertow è una discesa ipnotica, una corrente sotterranea che cattura e trascina dolcemente verso l’ignoto. Più che un brano, è una carezza scura, che consola mentre inghiotte.
Le tracce tratte da “Gem”, illuminate ora dalla luce obliqua di questa nuova incarnazione dal vivo, non sono semplicemente reinterpretazioni: sono metamorfosi. E Bosco Sacro, emblema e sigillo del progetto, si innalza come una liturgia selvaggia, un canto devoto al ciclo eterno di distruzione e rinascita.
Ma è nella scelta del luogo, nella sua riverberante sacralità, che il gruppo compie il suo gesto più radicale: registrare il presente come se fosse già memoria. Lì, ogni nota è intrisa di spazio, ogni silenzio è una presenza. Il pubblico – mai invadente – sembra respirare con la band, testimone silenzioso di un’esecuzione che è anche esorcismo, trasmutazione, dono.
“Live at Chiesa Armena” si attraversa come una foresta in sogno, a piedi nudi, con il cuore in ascolto. È per chi ha bisogno di ricordare che la musica può ancora essere un luogo, un cammino, una soglia.
Ascoltatelo al buio. A occhi chiusi. In silenzio profondo.
È lì che il Bosco si manifesta.