Bourj Hammoud: dal genocidio armeno alla crisi siriana (Lantidiplomatico.it 21.08.16)

Bourj Hammoud si trova nella parte nord-orientale della capitale libanese a poca distanza dal mare e dal porto della città, oltre il Beirut River. Il quartiere deve il suo nome a quello dell’unico edificio presente prima della progressiva urbanizzazione della zona: la torre (in arabo Bourj) costruita dalla famiglia libanese Hammoud che, in uno dei punti d’accesso alla città, permetteva di tenere sotto controllo il territorio circostante

di Maurizio Vezzosi e Giacomo Marchetti

 

Beirut – La vernice rossa scalfisce i muri del quartiere armeno di Bourj Hammoud. La Turchia è colpevole di un genocidio, Turkey is guilty of genocide.

L’accusa mossa contro Ankara riguarda l’orribile genocidio avvenuto tra il 1915 e il 1916.

Il grande crimine – come viene ricordato dagli armeni il primo genocidio del Novecento – costò la vita a più di un milione e mezzo di persone e fu l’inizio della diaspora di questo popolo, durante la quale migliaia di armeni arrivarono in Siria ed in Libano mentre l’Impero ottomano si sgretolava.

Ancora oggi Ankara nega il genocidio, e chi ne denuncia le responsabilità, soprattutto in Turchia, riceve in cambio intimidazioni e misure repressive, rischiando in alcuni casi l’esilio e addirittura la vita. Anticipando l’arrivo del 1948 e del 1967 dei rifugiati palestinesi, quella armena è stata la prima comunità ad arrivare in Libano dopo la dissoluzione dell’Impero ottomano, facendo di Beirut uno dei suoi epicentri nel mondo arabo.

Bourj Hammoud si trova nella parte nord-orientale della capitale libanese a poca distanza dal mare e dal porto della città, oltre il Beirut River. Il quartiere deve il suo nome a quello dell’unico edificio presente prima della progressiva urbanizzazione della zona: la torre (in arabo. Bourj) costruita dalla famiglia libanese Hammoud che, in uno dei punti d’accesso alla città, permetteva di tenere sotto controllo il territorio circostante.

Nel suo fitto reticolato di strade sventolano i colori arancione, blu e rosso della bandiera armena, e spesso si specchiano nei cristalli delle decine di gioiellerie del quartiere. In Armenia Street un grande striscione plastificato ricorda il grande crimine. Nei locali, nei negozi, sui muri l’arabo cede il passo all’armeno. I nomi di molte strade che lo attraversano rimandano a quelli dei villaggi dai cui provenivano i primi abitanti arrivati qui un secolo fa, dopo un periodo di quarantena in una zona fuori città ad est del quartiere.

Provvedendo alla progressiva bonifica della zona, grazie alla loro forte coesione comunitaria ed alla loro straordinaria capacità artigianale riuscirono a rendere umano un contesto non certo favorevole, peraltro dovendo fare i conti con una barriera linguistica pressoché insormontabile e trovando un impiego solo nelle mansioni più umili.

Il senso di disorientamento non riguardava solo gli armeni: gli stessi libanesi videro una zona disabitata e insalubre ai margini della città venire popolata da persone completamente estranee alla società libanese del tempo. Il fiorente sviluppo della capitale libanese, ed il successo delle attività  economiche degli armeni, permise agli abitanti di Bourj Hammoud di mutare radicalmente la propria condizione nel giro di qualche decennio. In seguito le buone possibilità di trovare un’occupazione fecero arrivare qui anche non pochi libanesi sciiti provenienti dalle zone più povere del sud del paese.

Nel corso del tempo l’urbanesimo informale che faceva assomigliare Bourj Hammoud alle periferie di molte città italiane venne gradualmente razionalizzato da una ristrutturazione complessiva che dette alle singole famiglie del quartiere un alloggio salubre e sufficientemente spazioso. Nonostante ciò restano ancora ben visibili le tracce della fondazione del quartiere.

La dimensione della comunità e la volontà di rendere le nuove generazioni consapevoli delle proprie radici ha spinto gli armeni di Beirut a costruire e far vivere chiese, scuole in lingua armena e centri culturali dentro e fuori Bourj Hammoud.

Ad Hamra, nel centro di Beirut, dalla metà degli anni ’50  ha sede l’università armena Haigazian,

costruita in ideale continuità con gli istituti armeni presenti in Anatolia e distrutti dai turchi durante il genocidio.

A Bourj Hommoud non si respira l’ostilità sociale che caratterizza altre zone di Beirut, sopratutto quelle più abbienti. Nel quartiere vivevano circa  100.000 persone tra armeni, libanesi e diverse comunità di immigrati asiatici e africani, ma con la crisi siriana sono arrivati qui ben 30.000 profughi siriani e armeno-siriani.

Alcuni dei profughi provenienti dalla Siria trascorrono qui solo qualche tempo, nell’attesa di ricongiungersi con amici e parenti delle grandi comunità armene in Europa, negli Stati Uniti e in Canada. Altri hanno messo radici già da qualche tempo.

Per le strade moltissimi manifesti ricordano uno dei sanguinosi conflitti esplosi dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica: la guerra scatenata contro gli armeni del Nagorno-Karabak. Ritornato recentemente alla ribalta delle cronache dopo le sue fasi di stallo: quello del Nagorno-Karabak è un conflitto mai risoltosi e a lungo ignorato dalla comunità internazionale.

Durante la guerra civile libanese la comunità armena si limito ad autodifendersi, con una posizione neutrale, che non gli risparmiò comunque lutti e sofferenze. Alle fine anni ’70, durante una delle fasi più critiche della guerra, la popolazione armena era l’unica ad essere rimasta estranea dal conflitto godendo della tutela internazionale dell’Unione Sovietica. A Beirut le milizie falangiste intendevano far diventare Bourj Hommoud un deposito di munizioni: di fronte al rifiuto armeno circondarono gli accessi al quartiere minacciando di bombardarlo.
A quel punto si racconta che a Bashir Gemayel, capo dei falangisti, arrivò una telefonata dell’allora Ambasciatore sovietico a Beirut Andrej Kolotosha, e che il diplomatico si rivolse a Gemayel con un’unica affermazione, senza aspettare risposte. “Se non volete capovolgere le sorti della vostra guerra, andate via da Bourj Hammoud”.
La telefonata fu sufficiente a convincere i falangisti a sciogliere l’assedio il mattino seguente.