Il ridimensionamento della Russia nel Caucaso e nell’Asia Centrale (Quotidianodeicontibuenti 29.04.24)

di Lorenzo Pellegrini

L’invasione russa dell’Ucraina, giunta al suo secondo anno inoltrato, ha alterato profondamente la situazione internazionale nel teatro euroasiatico. Questa modifica sta interessando anche le regioni che storicamente erano sotto l’influenza della Russia, quali il Caucaso del Sud e l’Asia Centrale. Il recente ritiro dei peacekeeper russi dal Nagorno-Karabakh e ciò che questa smobilitazione significa per la regione rappresentano una prima prova della precarietà della posizione russa.

Cosa stanno facendo i Paesi di questa regione?
I Paesi di questa regione si trovano a dover compiere delle scelte diplomatiche tra una Russia troppo occupata in Ucraina per continuare ad esercitare la sua influenza come prima, una Cina pronta a sostituirsi a quest’ultima e un Occidente che tenta di sfruttare la parabola discendente di Mosca per isolarla ulteriormente nel suo vicinato. Mentre alcuni tentano manovre di equilibrismo diplomatico altri adottano delle posizioni più nette e in contrasto con la situazione precedente.

I cambiamenti in atto appaiono evidenti analizzando ciò che sta accadendo, oltre che nell’Asia Centrale, soprattutto nel Caucaso del Sud. Infatti, il riassetto del vicinato russo si evince soprattutto dalla volontà di un paese da sempre vicino alla Russia quale l’Armenia di voler iniziare a guardare ad Occidente.

Perché l’Armenia si sta allontanando dalla Russia?
Questo radicale cambiamento è la reazione al mancato supporto russo all’Armenia in seguito all’offensiva militare azera che, nel settembre 2023, ha portato all’invasione e successivamente alla dissoluzione della regione etnicamente armena e indipendentista del Nagorno-Karabakh, una zona contesa tra i due Stati, vicina all’Armenia e da sempre rivendicata dall’Azerbaijan che, de iure, ne esercitava il controllo.

Già qualche giorno prima che l’Azerbaijan lanciasse la sua offensiva contro il Nagorno-Karabakh il primo ministro armeno Nikol Pashinyan aveva definito la dipendenza del Paese dalla Russia in quanto garante della sua sicurezza come un “errore strategico”, mettendo in dubbio l’efficacia della presenza delle truppe russe in Armenia e nel Nagorno-Karabakh dove avevano funzione di peacekeepers.

Per rendere ancora più esplicita l’insofferenza verso Mosca, a febbraio 2024 Pashinyan ha “congelato” la partecipazione dell’Armenia all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), un’alleanza militare a guida russa composta da sei Paesi ex-sovietici, citando come causa la mancata risposta alle richieste di intervento e garanzia nel Nagorno-Karabakh. Pashinyan ha aggiunto che nella sua conformazione attuale il CSTO rappresenta, per la sua inefficacia, una minaccia per la sicurezza nazionale armena.

La fortezza di Mayraberd nel Nagorno-Karabakh armeno prima dell’invasione azera [crediti foto: Adam Jones, via Wikimedia Commons, CC BY-SA 2.0 DEED]
Verso chi sta guardando l’Armenia per il suo futuro?
L’Armenia rimane ancora fortemente dipendente dalla Russia, la quale fornisce la maggior parte dell’energia elettrica usata nel Paese e continua ad essere il principale partner commerciale. Ciononostante, la volontà armena di diversificare le proprie relazioni internazionali la sta portando a guardare verso l’Occidente. Ciò è testimoniato dall’annuncio di Unione Europea e Stati Uniti per la fornitura di aiuti finanziari per un valore di circa 360 milioni di dollari e dalla volontà di intrattenere per la prima volta dei colloqui bilaterali. Inoltre, a marzo di quest’anno, il ministro degli esteri armeno Ararat Mirzoyan ha dichiarato che l’Armenia sta guardando a nuove possibilità per il suo futuro e che tra queste rientra anche una possibile, seppur remota, adesione all’Unione Europea.

Anche dal punto di vista militare l’Armenia sta cercando di diminuire la sua dipendenza dalle forniture di Mosca, dopo che questa ha ritardato consegne di armamenti dal valore di oltre 370 milioni di dollari, preferendo stringere accordi con altri partner quali l’India e la Francia.

Quali difficoltà sta incontrando l’Armenia in questo processo?
La questione più saliente è sicuramente la presenza di truppe russe sul suolo armeno. Dal 1995, la Russia mantiene una base militare a Gyumri, la seconda città più grande dell’Armenia, e un emendamento del 2010 all’accordo di difesa tra Russia e Armenia ha esteso il contratto di locazione di Mosca sulla base fino al 2044. I soldati russi sono ancora schierati lungo i confini tra Armenia e i suoi vicini, Turchia, Iran e Azerbaijan, a dimostrare come l’eredità di un legame di lunga durata quale quello tra Russia e Armenia non si risolva senza problematiche o senza scontenti.

Anche sul fronte interno l’avvicinamento all’Occidente ha sollevato qualche dubbio, specialmente da alcuni partiti di opposizione. Il timore deriva soprattutto dal per ora ambiguo posizionamento internazionale armeno attualmente intento ad allontanarsi dalla Russia, ma senza ancora un’alternativa concreta. Vi è infatti chi non vuole abbandonare del tutto la Russia, nonostante quello che ha compiuto negli ultimi due anni in Armenia e non solo, mentre altri temono che una possibile compresenza di truppe russe ed occidentali su suolo armeno rischi di trasformare il piccolo Paese caucasico in una polveriera. Inoltre, viene chiesto al governo del primo ministro Pashinyan di delineare quale sarebbe l’alternativa al, seppur inefficace, ombrello di difesa costituito dal CSTO.

I Paesi dell’Asia Centrale come si stanno riposizionando verso la Russia?
Come visto in precedenza il riassetto internazionale non riguarda solamente il Caucaso del Sud e in particolare l’Armenia, ma anche un’altra regione di vitale importanza per la Russia, ovvero l’Asia Centrale.

Tutte e cinque le nazioni centroasiatiche hanno rivisto i propri rapporti con la Russia e gli altri Paesi dell’area, tra cui Cina e Turchia, modificando i tradizionali legami con Mosca per trarne benefici soprattutto economici. Nel frattempo, la Russia cerca di mantenere il controllo di una regione che considera strategica sia perchè da questi Paesi provengono milioni di lavoratori essenziali per l’economia russa, sia perché l’Asia Centrale si è dimostrato il canale principale per evadere le sanzioni occidentali imposte dopo l’invasione dell’Ucraina.

Un esempio di ciò è dato dalle esportazioni di autoveicoli e pezzi di ricambio tedeschi verso il Kyrgyzstan, aumentati del 5500% nei primi dieci mesi del 2023. Non essendo i Paesi dell’Asia Centrale sotto regime di sanzioni viene a crearsi un commercio triangolare per cui i beni occidentali, e non solo, vengono prima importati qui e successivamente rivenduti sul mercato russo.

Chi sta beneficiando maggiormente da questa situazione?
Il Paese che maggiormente sta sfruttando la sua posizione divisa tra Russia, Cina e Occidente è il Kazakhistan, la maggiore economia dell’Asia Centrale.

Quest’ultimo da un lato approfitta delle opportunità derivanti dall’isolamento internazionale russo cercando, per esempio, di attrarre oltre 400 aziende occidentali che hanno lasciato la Russia dopo il 2022, mentre continua a tenere legami con Mosca fondati più su esigenze pragmatiche di tipo economico ed energetico che strategiche. Rispetto alla Russia il Kazakhstan ha il beneficio di poter commerciare liberamente con il resto del mondo, ponendolo in una posizione di dialogo privilegiata con Mosca, rappresentando quindi un corridoio commerciale fondamentale l’economia di quest’ultima. Ciò, va sottolineato, succede nonostante il governo kazako abbia dichiarato di non voler aiutare la Russia ad evadere le sanzioni.

Il presidente kazako Kassym-Jomart Tokayev con il suo omologo russo nel 2019 [crediti foto: The Presidential Press and Information Office, via Wikimedia Commons, CC BY 4.0 DEED]
Il pragmatismo ha da sempre permeato la politica estera kazaka, definita multi-vettoriale per il suo approccio al multilateralismo, la quale sembra adattarsi perfettamente al mutevole vicinato del Paese dell’Asia Centrale. Esempio di ciò è la partecipazione del Kazakhstan all’Unione Economica Eurasiatica (EAEU) a trazione russa. Il Paese vi partecipa, pur ribadendo che la collaborazione rimane fortemente entro il perimetro economico, e che Astana non sta cercando alcuna forma di integrazione politica nell’EAEU, preferendo piuttosto sviluppare in proprio i legami con gli altri vicini, quali Kyrgyzstan e Uzbekistan.

Mentre cerca di ridimensionare i propri rapporti con la Russia, il Kazakhstan sta guardando ad altri partner internazionali, tra cui la Cina e l’Unione Europea. Proprio la Cina è diventata nell’estate del 2023 il principale partner commerciale kazako, rappresentando oltre il 19% dell’intero commercio del Paese centrasiatico. Questa intensificazione delle relazioni economiche è però resa complicata dall’opinione critica dei kazaki circa i progetti infrastrutturali cinesi nel Paese, parte della Belt and Road Initiative. Tra questi rientra lo snodo commerciale di Khorgos, la cui costruzione è stata resa difficoltosa dall’accusa mossa nei confronti del Kazakhstan di corruzione e contrabbando durante la gestione del flusso di merci dirette verso l’Europa.

Proprio l’Europa, in particolare l’Unione Europea, è un altro partner privilegiato del Paese. Anche con l’UE il commercio si è intensificato, mentre gli interessi occidentali e soprattutto europei aiutano il Paese a non diventare eccessivamente attaccato o dipendente sia alla Russia che alla Cina. L’Unione Europea agirebbe quindi da contrappeso, aiutando a rafforzare l’agency kazaka nei confronti dei suoi difficili, seppur vitali, vicini, permettendo un terzo sbocco politico ed economico verso l’Occidente.

Cosa significano le esperienze di Armenia e Kazakhstan per le dinamiche nella regione?
Si è visto come questi due Paesi abbiano dovuto o voluto modificare le proprie relazioni a discapito della Russia post 2022, segnando per quest’ultima una traiettoria difficile nelle relazioni con il Caucaso e l’Asia Centrale. Mentre per l’Armenia la questione più spinosa è di tipo politico-militare, per il Kazakhstan le motivazioni sono soprattutto economiche.

Quello che accomuna entrambe le esperienze è che Mosca sta venendo posta in secondo piano, mentre si tenta di creare nuovi legami con altri partner. Al momento non possiamo ancora definire appieno l’estensione del ridimensionamento dell’influenza russa nel Caucaso e nell’Asia Centrale, ma si possono intravvedere le prime avvisaglie di una perdita di peso politico ed economico da parte di Mosca.

Armenia e Kazakhstan possono fare da iniziatori di un effetto domino che può coinvolgere anche gli altri Paesi della regione, rendendo Caucaso del Sud e Asia Centrale molto più dinamiche dal punto di vista internazionale di quanto non fossero finora.

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Armenia- Azerbaijan, procede la demarcazione del confine (Osservatorio Balcani e Caucaso 29.04.24)

L’Armenia va avanti con la demarcazione e la restituzione dei villaggi azeri. Nonostante l’esultazione dei leader dei rispettivi paesi per una pace più vicina, il processo in corso non è certo privo di problemi

29/04/2024 –  Onnik James Krikorian

Dopo la storica decisione di Baku e Yerevan di restituire quattro villaggi non-enclave occupati dall’Armenia all’inizio degli anni ’90, è iniziato il processo di delimitazione e demarcazione dei confini.

Il 23 aprile, un gruppo di esperti armeno-azeri si è riunito su una sezione del confine dove era in corso lo sminamento. La polizia aveva isolato la strada e i funzionari di entrambe le parti hanno condiviso le fotografie, scattate dai rispettivi lati, di un unico pilastro di cemento a segnare parte del confine.

“Il primo segnale di confine è stato installato nella sezione Tavush del confine tra Armenia e Azerbaijan”, ha scritto il primo ministro armeno Nikol Pashinyan su  . “STORICO: i primi pilastri di confine installati sul confine tra Azerbaijan e Armenia. Il processo di demarcazione è iniziato. La pace è possibile!”, ha postato  Nasimi Aghayev, ambasciatore dell’Azerbaijan in Germania. L’accordo “dimostra che possiamo risolvere i problemi in modo indipendente”, ha detto ai media il rappresentante speciale del presidente Elchin Amirbekov.

“L’Azerbaijan e l’Armenia sono oggi più vicini che mai alla pace”.

Da allora, il presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliyev ha dichiarato che 10-12 chilometri del confine possono essere considerati delimitati. Ma ciò non è avvenuto senza polemiche e voci critiche, tra cui l’ex presidente armeno Serzh Sargsyan e altri gruppi di opposizione. Ciononostante, anche il quotidiano d’opposizione Hraparak la settimana scorsa ha ammesso che il tanto atteso processo si sta svolgendo “senza seri ostacoli e resistenze”.

Ciononostante, i residenti nell’area interessata hanno protestato contro il passaggio di consegne, bloccando un’autostrada chiave che attraversa parte dell’area.

Il 25 aprile, gli scolari di un villaggio si sono rifiutati di frequentare la scuola, mentre l’arcivescovo della regione di Tavush, Bagrat Galstanyan, continua a esortare i residenti a resistere.

Altri, come il controverso ex comandante militare Jirair Sefilyan, hanno addirittura invitato l’esercito ad agire contro il governo. Il 22 aprile Onik Gasparyan, capo di stato maggiore dell’esercito al tempo della sconfitta del 2020, ha dichiarato ai media che avrebbe “combattuto” al fianco dei manifestanti.

La polizia ha anche iniziato a rimuovere con la forza le auto in alcune aree, in modo da consentire il traffico da e per la Georgia. Si sono verificati incidenti isolati in altre parti del paese.

Pashinyan ha promesso di prendere in considerazione le preoccupazioni e ha creato due gruppi di lavoro che funzionerebbero sotto la commissione per il confine armeno incaricata di lavorare con la sua controparte azera. Uno sarebbe composto da capi amministrativi locali, ma sette degli 11 incaricati si sono già ritirati. Aliyev riconosce che ci sono problemi.

“[…] ci sono parti di questo confine che creano problemi”, ha detto. Questo vale per le strade, a volte per questioni di sicurezza, per la visibilità del territorio di ciascuno. […] Dobbiamo essere ragionevoli e concordare un confine che sia sicuro e conveniente per entrambe le parti”, ha detto, mentre Pashinyan fa campagna con i residenti lungo la linea di confine nel nord-est dell’Armenia.

“Non dovrebbero esserci trincee davanti alle case [qui], ma giardini”, ha detto la settimana scorsa ai residenti di un villaggio. “Questa non dovrebbe essere una linea del fronte, ma un confine con un posto di blocco. Sta a voi scegliere se comunicare [con l’Azerbaijan] o no. […] La nostra idea è che sia positivo che l’Azerbaijan sia a 50 metri, così possiamo commerciare e costruire un’economia di scambio”.

Gli Stati Uniti, l’Unione Europea e altri paesi hanno accolto con favore la decisione basata sulla Dichiarazione di Alma Ata del 1991 sugli attuali confini della Comunità degli stati indipendenti. L’opposizione e altri critici sostengono invece che ciò porterà alla guerra.

Il governo di Pashinyan ribatte che la mancata restituzione dei villaggi renderebbe invece più probabile un nuovo conflitto. “Quanti sono pronti a combattere per insediamenti azeri che non hanno mai fatto parte dell’Armenia?”, ha commentato il vice capo di stato maggiore di Pashinyan.

“Per la prima volta, Armenia e Azerbaijan hanno risolto la questione al tavolo dei negoziati”, ha detto Pashinyan ai media il 20 aprile, riferendosi anche ad una storica dichiarazione rilasciata da Yerevan e Baku a dicembre. “È particolarmente significativo il fatto che negli ultimi cinque mesi abbiamo raggiunto due importanti accordi con l’Azerbaijan”.

Intervenendo ad una convegno dedicato alla Conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici in programma a novembre a Baku, Aliyev è andato oltre. “È realistico pensare di raggiungere un accordo sui principi fondamentali della pace con l’Armenia prima della COP-29”, ha affermato.

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Genocidio armeno – Per il Presidente Onorario Scapini la memoria non basta (Assadakah 29.04.24)

Assadakah News – Nel Parco dedicato al Genocidio Armeno, in piazza Lorenzini, a Roma, nel 109° Giorno della Memoria, lo scorso 24 aprile era presente, su invito dell’Ambasciata di Armenia in Italia e del Consiglio della Comunità Armena di Roma, anche Bruno Scapini, ex Ambasciatore d’Italia, Presidente Onorario e Consulente Generale

Ass.ne Italo-armena per il Commercio e l’Industria. Significativo il suo discorso, che ha sottolineato come, dopo più di cento anni dal terribile massacro del popolo armeno, non basta più la memoria ma occorrono fatti significativi. Riportiamo integralmente le sue considerazioni a seguito della cerimonia di commemorazione: “Gentili Amiche e Amici, il 24 aprile scorso ho partecipato, su invito dell’Ambasciata di Armenia e del Consiglio della Comunità Armena di Roma, alla cerimonia

di commemorazione del Genocidio armeno. Lodevole l’iniziativa a suo tempo assunta dalla Municipalità della Capitale di intitolare a quel Genocidio del 1915 il giardino di Piazza Augusto Lorenzini. Certamente, la conservazione della memoria è fondamentale quale occasione per esprimere tutta la nostra riprovazione per tali misfatti; ed è anche imprescindibile come testimonianza storica, ovvero quale fonte documentale per trasmettere alle future generazioni

il ricordo di eventi che incidono sulla stessa identità di un popolo e sulla sua coscienza nazionale. E questo è proprio il caso del Genocidio armeno del 1915, il primo del XX secolo. Ma da quella orribile esperienza purtroppo altri Genocidi si sono succeduti  fino ai nostri giorni, consumandosi un po’ ovunque nel mondo sotto gli occhi troppo spesso indifferenti di tanti Governi e Stati pronti ad interessarsi ai casi unicamente quando utile al conseguimento dei propri interessi nazionali. E’ la mercificazione dei valori che oggi infatti prevale nella Comunità internazionale. Una Comunità più incline al profitto che al rispetto della dignità della persona umana. E così i Genocidi dilagano per il Pianeta e si moltiplicano. La eliminazione di migliaia di individui è condizione di dominio e la sua minaccia fonte di terrore per assoggettare l’altrui volontà. Oggi nel mondo si calcolano ben 370 conflitti, molti dei quali a livello di crisi, ma tanti in aperte ostilità belliche. Ebbene, le conseguenze sono l’uccisione di civili, di bambini, di gente inerme, stragi ed eccidi di vario genere compiuti per la contesa del potere o per il controllo di miniere d’oro o di uranio. Eppure su molte di queste drammatiche situazioni si cala il velo del silenzio. Non conviene parlarne. Farne oggetto di cronaca obiettiva e imparziale potrebbe svelare delle verità scomode ai potenti. Guardiamo solo a quello che succede oggi nella Striscia di Gaza o, peggio ancora, in tanti Paesi africani dal Sahel al Corno d’Africa: Sudan, Niger, Malì, Burkina Faso, Guinea, Chad ed altri ancora. Qui la morte è divenuto un mero accadimento quotidiano. A migliaia vengono uccisi i civili, e milioni sono gli sfollati che fuggono dalle loro case. E il dolore, la sofferenza, così si espandono, superano la visione manichea della lotta tra il Bene e il Male e si arroccano semplicemente su quest’ultimo per divenire “cultura della morte”. A scongiurare i verificarsi di siffatti eventi però noi abitanti della parte più opulenta del mondo non ci voltiamo indietro a guardare, per riflettere e cambiare il corso politico; continuiamo ad affidarci alla commemorazione delle vittime, come se la sola “memoria” potesse bastare a scongiurare il Male o ad esorcizzare la morte. No! La memoria, mi sono convinto non basta più. Pur necessaria per non perdere traccia storica degli eventi, non insegna più nulla, non sembra più capace di indurre a superare il “senso del vuoto” che la perdita dei valori della vita ci impone. Occorre ben altro allora: occorre la partecipazione attiva di ognuno di noi alla lotta contro il Male. Deve essere un’azione continua, praticata giornalmente nelle nostre scelte, dal banco del supermercato all’urna elettorale, e ciò al fine di ottimizzare la nostra condotta verso il cambiamento. È l’impegno civico a realizzare questo obiettivo l’unico vero modo per commemorare degnamente le vittime dei Genocidi.

Sul tema, vi propongo, pertanto, l’articolo pubblicato dalla Rivista di politica internazionale SpondaSud con la speranza di offrirVi un’occasione di utile riflessione. Qui di seguito troverete il LINK:

Nel ringraziarVi per l’attenzione, Vi invio i miei più distinti saluti”.

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Alla scoperta dell’Armenia: dieci cose da non perdere (Tgcom24 29.04.24)

L’Armenia è una piccola repubblica, ma ha molto da offrire: è in Asia, ma fa parte del Consiglio d’Europa.

Ospita innumerevoli siti turistici in un paesaggio montuoso che regala panorami strepitosi. Si trova nel Caucaso del sud e si raggiunge con i voli diretti da Milano, Roma e Venezia per la capitale Yerevan, una città giovane e vibrante.

L’Armenia vanta numerosi primati: primo paese del mondo ad adottare il Cristianesimo come religione di stato, è anche la patria del vino. Qui sono stati ritrovati un sistema di produzione del vino di 6100 anni fa e la scarpa in cuoio più antica del mondo, di 5000 anni fa. Abbiamo scelto 10 delle migliori attrazioni.

Ali e Monastero di Tatev

Il Monastero di Tatev si raggiunge in 11 minuti con “Le ali di Tatev”, la funivia reversibile più lunga del mondo (5,7 km). Il monastero, costruito nel IX secolo, fu un importante centro spirituale ed educativo nel Medioevo. La vista sul canyon è strepitosa!

Tempio di Garni

Costruito nel I secolo d.C., domina la gola del fiume Azat e le montagne Geghama. Scendi nella gola sottostante per visitare la Sinfonia delle Pietre, una spettacolare formazione a canne d’organo di pietra basaltica.

La Santa Sede armena

Il sito UNESCO di Etchmiadzin è un luogo culturale e sacro per tutti gli armeni. Qui risiede il capo della Chiesa apostolica armena. La cattedrale, secondo la leggenda, fu costruita da San Gregorio l’Illuminatore nel 301-303, dopo aver convertito l’Armenia al Cristianesimo.

Grotta Areni-1 e strada del vino

La grotta Areni-1, nella regione di Vayots Dzor, è stata riconosciuta come la cantina più antica del mondo grazie al ritrovamento di antichi un torchio per il vino, vinaccioli, brocche e tini di fermentazione di 6.100 anni fa. Il vino si produce ancora nelle cantine del villaggio di Areni.

Lago Sevan

Il lago di Sevan è il più grande bacino alpino d’acqua dolce dell’area. Situato a circa 1.900 metri d’altitudine, è circondato da montagne che si specchiano sulle sue acque cristalline. Ottimo per una piacevole gita o un pranzo in riva al lago rinfrescati dalle piacevoli brezze nelle calde giornate estive.

Canyon Debed

Questo canyon spettacolare, scavato dal fiume Debed, è lungo 176 km. I villaggi di Odzun, Dsegh, Haghpat e Sanahin offrono le viste più incredibili del canyon. Non perderti i monasteri di Haghpat e Sanahin, due gioielli medievali del X secolo, che sono patrimonio UNESCO.

Fortezza di Amberd

Costruita nel X secolo, la fortezza si trova sulle pendici del monte Aragats, un luogo quasi inaccessibile. Da qui si ha una vista pittoresca del biblico Monte Ararat, del Monte Aragats e della piccola chiesa Vagramashen dell’XI secolo con una gola del fiume sullo sfondo.

Zorats Karer

Conosciuto anche come Karahunge, è un sito archeologico preistorico vicino alla città di Sisian. È chiamato anche la “Stonehenge armena” per via dei grandi monoliti di pietra disposti in cerchio. È stato costruito tra l’età del bronzo medio e l’età del ferro e la maggior parte degli archeologi ritiene che fosse un osservatorio astronomico.

Cattedrale di Zvartnots

Le rovine della cattedrale di Zvartnots del VII secolo sorgono dove, secondo la leggenda, il re armeno Trdat incontrò per la prima volta Gregorio l’Illuminatore, prima di convertirsi al cristianesimo. Dai resti della cattedrale si percepisce il grandioso edificio di un tempo, con viste mozzafiato sul Monte Ararat.

Khor Virap

Il Monastero di Khor Virap è uno dei posti migliori per catturare meravigliose vedute del Monte Ararat. Il monastero sovrasta Artashat, l’antica capitale del II secolo avanti Cristo. Ancora oggi si può scendere nell’angusto spazio a sei metri di profondità in cui Gregorio l’Illuminatore fu imprigionato per aver professato la fede cristiana.

Per maggiori informazioni: https://armenia.travel/

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Il Consiglio d’Europa sospende l’Azerbaigian (Ultimavoce 29.04.24)

Michele Marsonet

Prorettore alle Relazioni Internazionali dell’Università di Genova, docente di Filosofia della scienza e Metodologia delle scienze umane


Il Consiglio d’Europa sospende l’Azerbaigian, un fatto che aggrava ulteriormente le tensioni tra il Paese caucasico e le nazioni europee. La decisione, presa a Strasburgo, ha scatenato una serie di reazioni da entrambe le parti, mettendo in evidenza le divergenze su questioni cruciali come i diritti umani, la trasparenza elettorale e il rispetto della separazione dei poteri.


Peggiorano i rapporti tra l’Azerbaigian da un lato e le nazioni dell’Unione Europea dall’altro. Il Consiglio d’Europa, del quale fanno parte tutte le nazioni Ue oltre a Paesi come Georgia, Armenia, Azerbaigian, Serbia e Montenegro, fu fondato nel 1949 e ha sede a Strasburgo.

Il suo scopo principale è promuovere la democrazia, i diritti umani e la ricerca di soluzioni ai problemi sociali. Per quanto non figuri tra gli organi istituzionali dell’Unione, la sua importanza è cresciuta negli ultimi decenni, come testimonia la presenza di numerose nazioni extra-Ue.

Per quale motivo il Consiglio d’Europa sospende l’Azerbaigian per un anno?

Strasburgo ha sospeso l’Azerbaigian dal Consiglio per un anno a causa dell’espulsione degli armeni dal Nagorno Karabakh, ex enclave armena in territorio azero sin dai tempi dell’Unione Sovietica, della quale le due Repubbliche oggi in conflitto facevano entrambe parte.

Il Consiglio, inoltre, accusa l’Azerbaigian di mancanza di trasparenza nelle procedure elettorali. Il presidente azero, Ilham Aliyev, ha indetto elezioni anticipate, ma non ha accettato la presenza di osservatori internazionali per vigilare sulla correttezza delle procedure. Per questo motivo il Consiglio ha espresso dubbi circa la capacità dell’Azerbaigian di tenere elezioni libere ed eque e di garantire la separazione dei poteri.

Ha inoltre rimarcato la debolezza del potere legislativo rispetto a quello esecutivo, e la mancanza di indipendenza del potere giudiziario. Naturalmente Baku ha subito reagito alla sospensione, accusando il Consiglio di avere un atteggiamento pregiudizialmente ostile all’Azerbaigian, e di islamofobia. Da notare che i rappresentanti turchi, unitamente a quelli albanesi, non hanno votato a favore della sospensione.

Notevole peso nella decisione del Consiglio hanno avuto i rapporti sempre più tesi tra Azerbaigian e Francia. Parigi si è schierata nettamente con gli armeni, e Baku, come risposta, ha ordinato a due diplomatici francesi di lasciare il Paese. Immediata la risposta di Macron, che ha dichiarato “persone non gradite” due diplomatici azeri. Aliyev ha inoltre accusato Parigi di inviare armi all’Armenia.

Come sempre accade, anche in questo caso la Francia – che ospita nel suo territorio una grande comunità armena – va per conto suo senza coordinarsi con gli altri Paesi europei. Lo stesso atteggiamento autonomo ha adottato in Africa, dove i rapporti di Parigi con alcune sue ex colonie hanno raggiunto il minimo storico, con l’espulsione di numerosi diplomatici francesi.

La situazione è grave poiché l’Europa, dopo le sanzioni anti-russe, ha un grande bisogno del gas e del petrolio di cui l’Azerbaigian possiede ingenti riserve. Non a caso Ursula von der Leyen è andata a Baku per firmare, a nome della Ue, un trattato per garantire a Bruxelles le forniture energetiche azere. Ad oggi, La decisione del Consiglio d’Europa rischia però di rimettere tutto in discussione.

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Genocidio armeno, ferita che continua a sanguinare (Iqna 28.04.24)

Metz Yeghen, il Grande male, il massacro indiscriminato di un Popolo, a cui s’aggiunse quello di cattolici siri, ortodossi, assiri, caldei, greci, tutti accomunati dall’essere cristiani. Durante il genocidio armeno, ad essere colpiti sono stati tutti coloro che erano additati come cristiani: religiosi e fedeli, uomini e donne, bambini e anziani, tutti spenti nel sangue delle “marce della morte”. Il primo crimine orrendo del ‘900 accanto agli orrori del nazismo e dello stalinismo e, a seguire, agli altri stermini di massa più recenti in Cambogia, in Rwanda, in Bosnia.

Tra le mille tragedie sanguinose che si consumano giornalmente in varie parti del mondo, nel silenzio, troppo spesso complice, di una collettività che evita d’intervenire per convenienza o per vigliaccheria. È intollerabile che il grido delle tantissime vittime inermi, uccise atrocemente per la loro fede religiosa o per l’appartenenza etnica, si perda nell’indifferenza generale.

Il fatto è che, malgrado sia passato ormai un secolo da quel 24 aprile del 1915, quando cominciò, il genocidio armeno è un nervo eternamente scoperto della Turchia, con cui essa ha rifiutato testardamente di fare i conti. Allora era in corso la Prima Guerra mondiale e il decrepito Impero Ottomano s’avviava alla dissoluzione. I Giovani Turchi, un gruppo di militari che s’erano impadroniti del potere, volevano destare il nazionalismo dell’Anatolia profonda per sostenere lo sforzo della guerra, e al contempo sbarazzarsi di una minoranza cristiana (la più antica) che non rinunciava a criticare il Governo centrale.

Genocidio armeno, una spaventosa mattanza

Lo fecero nella vecchia maniera velenosa comune a tutti i nazionalismi: additando il “nemico interno” causa di ogni male; aizzando le folle contro il giaur, il miscredente, e fu una spaventevole mattanza. Le vittime complessive dei linciaggi, delle stragi pianificate, delle famigerate “marce della morte” che si concludevano con la morte di tutti i deportati, non si sapranno mai. Stime armene parlano di un milione e mezzo di morti, ma anche se fossero di meno (come ottusamente sentenziano i rappresentanti diplomatici turchi, quasi che un milione o un milione e mezzo di vittime facesse differenza), sarebbe pur sempre una pulizia etnica conclusasi con lo sterminio organizzato di un’intera minoranza.

La Turchia s’è sempre rifiutata di riconoscere quel crimine mostruoso; anche soltanto parlarne è stato ed è un reato che comporta pesanti carcerazioni a cui sono andati incontro giornalisti, scrittori ed intellettuali che volevano fare i conti con una Storia rimossa. Contro ogni logica ed ogni realtà, la parola genocidio armeno è stata ed è bandita, perché a tutt’oggi, malgrado la verità sostanziale su quei fatti sia conosciuta, la società turca non ha elaborata quella tragedia, che le imporrebbe di rivedere troppi valori e troppi giudizi su cui si basa. Operazione difficile in ogni momento, e più che mai adesso, squassata com’è fra le simpatie filo occidentali della sua parte più evoluta e le pulsioni conservatrici di chi, nell’insicurezza delle crisi internazionali, vuole rifugiarsi in mitizzati valori del passato.

Turchia ostaggio di Erdogan

Su questa situazione generale, si cala la realtà del presente. Erdogan ha avviato la Turchia su una deriva autoritaria, in cui l’unica legge che conta è la sua paranoica sete di potere. Un regime che lo veda come unico capo incontrastato.

La fine della crescita economica, la serie d’insuccessi clamorosi in politica internazionale che hanno posto la Turchia in una condizione d’isolamento, gli scandali a ripetizione, le leggi liberticide e la dura repressione d’ogni dissenso hanno però cominciato a sgretolare il blocco di consenso su cui Erdogan contava nella “pancia” del Paese.

Adesso, come cent’anni fa, battendo sul tasto del nazionalismo, della contrapposizione contro gli stranieri, conta di recuperare i consensi della Turchia profonda. È lo stesso meccanismo che s’è messo in atto nell’improvvisa, quanto singolare, serie di attentati che hanno colpito il Paese qualche settimana fa, risvegliando la voglia di ordine e del pugno di ferro di chi stava pensando d’abbandonare Erdogan e il suo partito.

Per quanto riguarda il Popolo turco, fin quando non farà i conti con la propria Storia, come molti altri hanno fatto con la propria, le antiche ferite continueranno a sanguinare, mettendo in circolo eterni veleni come il nazionalismo, la xenofobia, l’integralismo e così via, pronti ad emergere ad ogni crisi.

di Salvo Ardizzone

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Il ruolo strategico dell’Azerbaigian nell’economia della Russia (Energiaoltre 27.04.24)

L’incontro tra i presidenti dell’Azerbaigian e della Russia al Cremlino, lo scorso 22 aprile, ha spostato l’attenzione dai caldi temi geopolitici – come il Nagorno-Karabakh, l’Ucraina o l’Iran – al 50° anniversario del progetto di costruzione della ferrovia Baikal-Amur Mainline (BAM). Questo progetto, avviato nel 1974 e guidato dal presidente azero Heydar Aliyev, ha segnato una prima versione del “perno verso est” della Russia.

Nonostante l’importanza dell’anniversario della BAM, il momento dell’incontro sembrava un po’ prematuro, con la celebrazione principale prevista per luglio. Tuttavia, l’evento ha fornito un’occasione per le discussioni sulla rinascita delle ferrovie nell’agenda russo-azera.

IL RUOLO DELL’AZERBAIGIAN TRA EUROPA E RUSSIA

L’importanza strategica dell’Azerbaigian – scrive il collettivo RFE/RL su Oilprice – è aumentata in seguito all’invasione russa dell’Ucraina, posizionando il Paese favorevolmente sia nel contesto europeo che in quello russo. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, poco più di due anni fa, ha innescato una reazione a catena con conseguenze geopolitiche nel Caucaso, e l’Azerbaigian, in virtù delle sue risorse naturali e della posizione strategica, è uscito vincitore in quasi tutte.

Il conflitto in Ucraina ha reso l’Azerbaigian più importante per l’Europa – che ha bisogno sia delle risorse energetiche del Paese caucasico, sia della sua posizione sulle rotte di transito Est-Ovest, per aggirare la sua precedente dipendenza dalla Russia – così come per la Russia, che ha un urgente bisogno della posizione di Baku sulle rotte di transito Nord-Sud, che le consentono di aggirare le sanzioni occidentali.

LE CONSEGUENZE DELLA GUERRA IN UCRAINA

La guerra in Ucraina ha messo a dura prova la capacità di Mosca di sostenere l’accordo di cessate il fuoco nel Nagorno-Karabakh, portando alla fine al pieno controllo della regione da parte dell’Azerbaigian, nel settembre 2023. Questo cambiamento geopolitico ha spinto l’Armenia a rivalutare la propria dipendenza dalle garanzie di sicurezza russe, gravitando verso legami più stretti con l’Occidente.

La visita di Aliyev a Mosca è avvenuta nel contesto di un declino dell’influenza russa nel Caucaso, evidenziato dal ritiro anticipato delle forze di pace russe dal Karabakh e dagli accordi bilaterali tra Armenia e Azerbaigian senza la mediazione russa. Mentre si alludeva vagamente alla sicurezza regionale, l’attenzione restava sulla cooperazione economica, riflettendo il desiderio di autonomia dell’Azerbaigian nella gestione dei propri affari.

IL CORRIDOIO INTERNAZIONALE DI TRANSITO NORD-SUD

Il Corridoio Internazionale di Transito Nord-Sud (International North-South Transit Corridor – INSTC) è emerso come un progetto fondamentale per la Russia, con l’obiettivo di stabilire nuove rotte logistiche e ridurre la dipendenza dal dominio occidentale. Il ruolo dell’Azerbaigian nel corridoio è fondamentale, poiché collega la Russia all’Iran e al Golfo Persico. Nonostante le precedenti battute d’arresto, i recenti accordi tra Russia e Iran segnalano dei progressi verso il completamento dei collegamenti ferroviari cruciali.

Mentre Mosca sottolinea l’importanza strategica dell’INSTC, Baku resta relativamente riservata nelle dichiarazioni pubbliche, concentrandosi invece sul potenziamento della propria infrastruttura ferroviaria per accogliere l’aumento del trasporto merci. Questo spostamento verso progetti di trasporto regionali comporta una ritirata strategica per la Russia nel Caucaso, consentendo la creazione di un nuovo equilibrio strategico tra le potenze regionali.

AZERBAIGIAN, RUSSIA E UCRAINA

Le manovre diplomatiche dell’Azerbaigian vanno oltre le sue relazioni con la Russia, come dimostrato dall’incontro di Aliyev con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, affermando il sostegno all’integrità territoriale dell’Ucraina. Il crescente peso dell’Azerbaigian dopo la guerra in Ucraina gli consente di bilanciare le relazioni con vari partner, inclusa la Russia, perseguendo al contempo i propri interessi e sfruttando le opportunità di cooperazione economica.

Nonostante gli interessi condivisi e la crescente cooperazione economica tra Azerbaigian e Russia, lo storico andamento altalenante nelle loro relazioni e le differenze nel sentimento antioccidentale e nella nostalgia filo-sovietica pongono delle sfide all’amicizia a lungo termine. Tuttavia, l’approccio pragmatico di Baku alla diplomazia e il posizionamento strategico negli affari regionali sottolineano il ruolo dell’Azerbaigian come attore chiave nello spazio post-sovietico.

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Zungri rinsalda il legame con il popolo armeno e ricorda il primo genocidio del Novecento (Ilvibonese 27.04.24)

Restituire dignità e giustizia al popolo armeno. Zungri ha ricordato, in occasione del 24 aprile, il genocidio avvenuto a inizio Novecento nell’area che comprendeva l’Anatolia, Cappadocia e gran parte del Medio Oriente. Nel 1915, infatti, diverse centinaia di intellettuali armeni furono arrestati e in seguito torturati e uccisi per conto del movimento dei Giovani turchi che all’epoca governava l’Impero Ottomano. Fu l’inizio di quello che da molti è stato definito il «primo genocidio del ‘900» in cui avrebbero perso la vita circa 1 milione e mezzo di armeni. C’è un filo rosso che unisce le grotte. L’insediamento rupestre della Valle degli Sbariati, per le sue caratteristiche, infatti rievoca moltissimo le aree del Mediterraneo orientale.  In più, similitudini si riscontrano con località della Turchia di cui l’Armenia era parte integrante. Intorno al IX secolo d.  C.  per ragioni militari un contingente armeno a seguito del grande stratega Niceforo Foca (il vecchio) approdò in Calabria. Si stanziò tra Bruzzano e Brancaleone (fondarono dei castelli scavati nella roccia).  I contingenti armeni avevano il compito di contrastare l’occupazione degli arabi che già avevano preso la Sicilia e minacciavano Reggio.

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Grotte di Zungri

La toponomastica, l’onomastica e molti vocaboli sul territorio sono rimasti armeni.  A Ferruzzano e Brancaleone– in particolare – sono chiari i segni del loro passaggio: dai culti alle chiese-grotta, passando per alcune testimonianze artistiche (croci, pavoni stilizzati, pilastri a forma di albero della vita). A distanza di anni, il Comune guidato dal sindaco Franco Galati, l’Insediamento rupestre e la Pro loco di Brancaleone continuano a collaborare per approfondire studi e ricerche nel nome di una storia che non può essere cancellata. Il rapporto di collaborazione ha consentito in questi anni di analizzare similitudini tra le due realtà, in particolare l’insediamento rupestre e l’antico abitato di Brancaleone. Forte dunque, il legame tra la nostra terra e il popolo armeno che nei secoli ha trovato ospitalità presso numerosi paesi calabresi, lasciando un ricco patrimonio culturale, linguistico, archeologico e monumentale anche nell’area del Poro.

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Aleppo: inaugurata la chiesa di san Giorgio, danneggiata dal sisma (27.04.24)

I lavori di ricostruzione sono durati oltre un anno. L’intera comunità cristiana, dai greco-melkiti agli evangelici, si è riunita per una giornata di festa. A presiedere la funzione il primate Youssef Absi. Nel conflitto fra armeni e azeri è andata distrutta la storica chiesa di san Giovanni Battista a Shushi.

Aleppo (AsiaNews) – La comunità cristiana di Aleppo ha festeggiato in questi giorni l’inaugurazione seguita ai lavori di ricostruzione della chiesa greco-melkita di San Giorgio, gravemente danneggiata dal drammatico terremoto del 6 febbraio 2023 che ha colpito Turchia e Siria. L’opera di ripristino è durata oltre un anno, ma per i fedeli della metropoli del nord la lunga attesa si è trasformata in una occasione di gioia (nelle foto) e ora appare completamente rinnovata.

A presiedere la funzione il primate greco-melkita di Antiochia, Gerusalemme e tutto l’Oriente Youssef Absi, assieme a numerosi arcivescovi e vescovi che hanno concelebrato assieme al patriarca fra i quali mons. Shaada, siro-cattolico e il caldeo mons. Antoine Audo. A questi ultimi si sono uniti diversi rappresentanti di altre denominazioni cristiane come il pastore armeno evangelico Harout Selimian e il rev. Ibrahim Nasir, leader della Chiesa Evangelica araba in Aleppo.

La giornata di festa è iniziata con una processione attraverso le vie che circondano l’edificio a suon di musica e bandiere sventolate, con in testa al corteo le insegne della Siria e del Vaticano, seguite da un ritratto di san Giorgio come raccontano fonti locali rilanciate da siti cristiani. Quattro scout hanno trasportato una magnifica icona di san Giorgio posata su un letto di fiori, mentre sacerdoti, vescovi, arcivescovi e patriarca hanno chiuso la processione.

Le celebrazioni si sono concluse con la recita dei vespri all’interno della chiesa gremita dai fedeli in ogni ordine di posto e la solenne benedizione impartita dal primate greco-melkita.

Intervistato da AciMena p. Fadi Najjar, preside della scuola cattolica adiacente il luogo di culto, ricorda i danni causati dal sisma: crepe nelle pareti della chiesa su entrambi i lati, gravi danni anche alla facciata esterna con caduta di pietre e calcinacci. “Il primo passo – spiega – è stato rimuovere le pietre cadute dall’alto”, poi si è proceduto ripristinando le mura e ridipingendo gli interni. I lavori hanno riguardato anche la Providence Private School, tanto che alla fine dei lavori “l’edificio è risorto magnificamente dalle proprie ceneri”.

Se in Siria si festeggia la ricostruzione di un luogo di culto cristiano, da Shushi in Azerbaigian giunge la conferma della completa distruzione (foto 4) della storica chiesa di san Giovanni Battista (S. Hovhannes Mkrtich), secolare punto di riferimento dei fedeli dell’area. A rivelare la devastazione sono una serie di fotografie satellitari scattate fra il 28 dicembre 2023 e il 4 aprile 2024 e rilanciate dal “Caucasus Heritage Watch”. Edificata dagli armeni nel 1847, la chiesa meglio nota anche come Kanach Zham era stata danneggiata durante la guerra del 2020. La diocesi di Baku della Chiesa ortodossa russa aveva rivendicato la struttura promettendo di ristrutturarla, ma ora non vi è più traccia. Nell’apprendere la notizia, la comunità armena esprime profonda “tristezza” anche per la concomitanza con l’anniversario del genocidio del 1915. In una nota i leader armeni sottolineano che “nella giornata dedicata alla memoria, è imperativo che la comunità internazionale condanni fermamente questi atti di distruzione e negazione della storia”.