La Russia conferma un memorandum armeno per interrompere il sostegno all’aeroporto di Yerevan (LameziaInstrada 13.03.24)

La settimana scorsa, il segretario del Consiglio di sicurezza dello Stato del Caucaso, Armen Grigoryan, ha confermato in una conferenza stampa che il suo governo aveva notificato a Mosca l’intenzione di effettuare il controllo delle frontiere nel suddetto aeroporto senza l’aiuto degli agenti dell’immigrazione russi. Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha annunciato martedì che gli ufficiali di frontiera del suo paese possono ora svolgere la loro missione all’aeroporto aereo di Yerevan senza il sostegno dei loro omologhi russi.

Peskov ha sottolineato che i dipartimenti competenti dei due paesi stanno ora conducendo i contatti necessari. “È chiaro che i contatti a tutti i livelli possibili continueranno”, ha sottolineato.

Secondo Pashinyan, gli agenti armeni inizieranno a monitorare i confini del suddetto aeroporto senza l’assistenza dei loro omologhi russi dal 1° agosto.

“Il comandante ad interim delle forze di frontiera armene ha ringraziato il comandante della divisione di frontiera russa in Armenia e lo ha informato che forniremo servizio senza la sua assistenza dal 1° agosto 2024”, ha detto il primo ministro armeno in una conferenza stampa. .

Gli ufficiali dell’immigrazione russi sono responsabili del controllo delle frontiere presso l’aeroporto internazionale di Zvartnots in Armenia dal 1992.

Successivamente sono stati organizzati corsi di formazione per gli ufficiali armeni che attualmente sono responsabili del controllo delle frontiere dell’aeroporto insieme ai loro omologhi russi.

Fino al 2024 le autorità armene non avevano avuto osservazioni sul lavoro delle guardie di frontiera russe nel paese.

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Reti e corridoi nel Caucaso meridionale (Osservatorio Balcani e Caucaso 13.03.24)

n un contesto geopolitico in rapida trasformazione, i paesi del Caucaso provano a rilanciare le prospettive di diversi corridoi in grado di razionalizzare e valorizzare i propri territori e le proprie economie. Nonostante i molti progetti, però, le sfide non mancano

13/03/2024 –  Marilisa Lorusso

Si chiamano TRACECA, OBOR, Middle Corridor: corridoi dai differenti autori, tracciati, prospettive di geopolitica o di focus, ma tutti progetti accomunati dalla volontà di razionalizzare tempi, costi, spazi, integrare le tappe intermedie dei trasporti in un quadro collettivo. I territori attraversati valgono in quanto interconnessi e la tecnologia del trasporto moderno e le economie di scala impongono sinergie regionali estese. Nessuno vale per conto proprio, bisogna fare squadra, essere una regione.

Per trent’anni la regione caucasica si è però mossa in controtendenza rispetto a questa logica, pur rientrando appieno in alcuni di questi progetti. Il Caucaso del sud non si è mosso come una regione, ma come tre stati che tutt’al più potevano accordarsi bilateralmente, visto che al suo centro c’era una cicatrice di trincee: il conflitto sul Nagorno Karabakh ha sempre spaccato la regione.

Non solo perché il Nagorno Karabakh era un territorio a statualità non riconosciuta, e quindi intrattabile come partner commerciale, ma anche perché le chiusure dei confini armeno-turco e armeno-azero hanno reso la regione impercorribile nelle sue vie di comunicazione più razionalizzate per brevità e riduzione di costi. I progetti che hanno attraversato il Caucaso – che ha due magistrali di comunicazione, la est-ovest e la nord-sud – sono sempre stati quindi importanti ma a livello più regionale che globale, frutto di accordi bilaterali, per lo più azero-georgiano.

La fine del conflitto, congiunturale alla guerra in Ucraina e a una fase particolarmente positiva dei rapporti azero-turchi, ha aperto una nuova prospettiva che ha attirato gli sguardi internazionali. Finalmente si potrebbe sbloccare il Caucaso, e sia i trasporti est-ovest che nord-sud potrebbero essere incentivati in maniera significativa, con una prospettiva di farne un hub globale.

Il 2020 e successivi eventi

Al momento della firma della dichiarazione trilaterale armena-russa-azera, che nel 2020 dopo 44 giorni di combattimenti decretò il cessate il fuoco della seconda guerra per il Nagorno Karabakh, si è capito che sarebbero state due le direzioni di sviluppo: una via su gomma e su rotaia che da Derbent a Baku, magistrale nord-sud, avrebbe poi virato via Shirvan-Sabirabad, Goradis lungo il confine iraniano fino al Nakhchivan, riaprendo la via diretta e non attraverso il territorio iraniano di Baku e la sua exclave. Qui questa magistrale si sarebbe scissa, divenendo un nuovo canale nord-sud fino a Yerevan, e dando quindi all’Armenia un accesso alla Russia, passaggio alternativo a quello in uso, via Georgia.

L’altra magistrale avrebbe puntato ad ovest, fino a Idir in Turchia, aprendo una via diretta fra Armenia e Turchia di cui avrebbe potuto beneficiare anche l’Azerbaijan, che è in rapporto di alleanza e partnership privilegiata con Ankara. La dichiarazione trilaterale che delineava le nuove rotte di comunicazione le definiva “legami economici e di trasporto”, ma Azerbaijan e Turchia le hanno denominate corridoio di Zangezur, un termine contestato dall’Armenia.

La menzione di un “corridoio” evoca quello di Lachin, un collegamento vitale tra Karabakh e Armenia. La dichiarazione trilaterale del novembre 2020 dipingeva una situazione in cui Lachin, e le rotte di comunicazione che dovevano essere istituite o riabilitate, sotto la supervisione dei caschi blu russi. Tuttavia, dalla massiccia fuga della comunità armena dal Karabakh nel settembre 2023, la situazione è cambiata. Il corridoio con status speciale, Lachin, non esiste più. Non ci può essere una simmetria fra un corridoio armeno (Lachin) e uno azero (Zangezur). Nonostante ciò, nessuna parte ha dichiarato obsoleta la dichiarazione trilaterale, optando invece per reinterpretarla selettivamente in base ai propri interessi.

La Russia insiste sull’attuazione della dichiarazione, mantenendo il controllo sulle rotte di transito. L’Armenia respinge l’idea di corridoi, insistendo sulla sovranità sulle vie di transito. L’Azerbaijan cerca un passaggio senza pedaggio e senza controllo armeno. Baku, se non soddisfatta nelle proprie richieste, può utilizzare una rotta alternativa attraverso l’Iran. Sono in corso lavori di costruzione su una strada che collega l’Azerbaijan e Nakhchivan attraverso l’Iran, inclusa la costruzione di un ponte sul fiume Araz.

Nessun dorma

Sebbene il progetto finale per una rete di rotte del Caucaso meridionale sia ancora in fase di sviluppo, è evidente che le parti, e le rispettive ruspe, non stanno ferme.

L’Armenia ha lanciato il suo progetto Crossroad of Peace, una rete di infrastrutture su ruote e rotaie che attraverserebbe il paese da nord a sud e, in modo cruciale, da est a ovest. A nord, una ferrovia modernizzata Hrazdan-Kayan potrebbe collegare i rami esistenti dall’Azerbaijan alla Georgia e dall’Armenia alla Turchia. Il secondo ramo verso sud farebbe parte di quello che Baku definisce il corridoio di Zangezur.

Quattro reti stradali potrebbero aprire due varchi verso la Turchia – ad Akhurik e Mangara, mentre altre due potrebbero ridurre i tempi di viaggio verso sud, da Sotk e Kornidzor verso l’autostrada esistente nord-sud, oltre all’accesso doppio a Nakhchivan attraverso Angeghakot. Si prevede di aprire controlli doganali verdi con la Georgia e l’Iran. Attorno a questo progetto, o progetti compatibili con esso, le cose sono in pieno svolgimento.

Anche la questione delle dogane con la Georgia sta subendo cambiamenti significativi. Il 26 gennaio, Pashinyan è volato a Tbilisi per il 13° incontro della Commissione intergovernativa per la cooperazione economica e la firma della Dichiarazione di partenariato economico strategico. Questa dichiarazione è stata accompagnata da una discussione sulla fattibilità dell’introduzione da parte di entrambi i paesi di un modello di controllo unificato delle dogane ai punti di attraversamento al confine, che ridurrebbe significativamente il tempo richiesto per le procedure doganali.

Da novembre il punto di attraversamento Mangara al confine tra Armenia e Turchia è di nuovo operativo, pronto ad essere aperto. Sono in corso significativi sviluppi ai confini tra l’Azerbaijan e l’Iran, in particolare ad Astara, con l’inaugurazione, lo scorso dicembre, di un nuovo ponte stradale sul fiume Astarachay e di un posto di controllo al confine. Questo progetto, avviato nei primi anni 2000, migliora la connettività tra Iran e Azerbaijan, facendo parte di un’autostrada che collega Rasht a Baku. Il nuovo ponte, il quinto valico di frontiera tra i due paesi, dovrebbe alleviare la congestione del traffico consentendo il passaggio fino a 300 camion al giorno.

I negoziati con Russia e Azerbaijan per la costruzione della ferrovia Rasht-Astara si sono concluse positivamente, con un previsto completamento entro il 2027. Il vice primo ministro russo Alexey Overchuk ha visitato Baku a gennaio per firmare una roadmap per la cooperazione economica e commerciale, evidenziando il significativo aumento del volume commerciale e del trasporto merci tra i due paesi dal 2017.

Fervono sia le relazioni internazionali che la posa dell’asfalto, e nessuno aspetta la firma della pace per cominciare a disegnare il futuro.

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«In Nagorno Karabakh non c’è nessun esodo. È in atto una pulizia etnica» (L’Espresso 11.03.24)

Il racconto dei membri dell’etnia armena che, dopo l’annessione azera, sono dovuti scappare dal territorio. «Una volta sognavo di andare a Venezia. Oggi di tornare nella mia terra»

Lacrime mute solcano il viso di Nune Kachhatryan mentre contempla l’album di fotografie che ritraggono lei, la sua famiglia, la sua terra: il Nagorno Karabakh. La donna, 55 anni, cittadina dell’Artsakh (nome armeno del Nagorno Karabakh), dopo l’aggressione da parte dell’Azerbaigian a settembre 2023, è fuggita dalla regione caucasica, come hanno fatto gli oltre 120 mila cittadini armeni che l’abitavano, e oggi vive da sfollata in una stanza di hotel a Goris. Le fotografie sono la sola cosa che è riuscita a portare con sé nella fuga. Mezzo secolo di storia privata e collettiva raccolto in diapositive che ricordano a lei, e a chi le guarda, un mondo semplice e laborioso, fiero e antico che oggi non esiste più.

 

«Mentre fuggivo a bordo di un Uaz, con i miei parenti, non riuscivo a guardare davanti a me; continuavo a voltarmi, piangevo e chiedevo perdono alla mia terra perché l’abbandonavo». Le foto che Nune mostra sono la vetrina della sua anima martoriata: «Questo è il giorno del mio matrimonio. Il mio sogno era andare in viaggio di nozze a Venezia; a quell’epoca, però, io e mio marito non potevamo permettercelo, ma ci eravamo promessi che prima o poi avremmo coronato questo desiderio. Oggi, invece, il mio sogno è poter tornare in Artsakh. Un sogno che mai più si realizzerà». Nune ha ragione: dal primo gennaio scorso l’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh ha cessato di esistere e il regime azerbaigiano, a inizio febbraio, ha lanciato l’operazione “Grande Ritorno” che prevede l’assegnazione delle case abbandonate dagli armeni alle famiglie azere. In Nagorno Karabakh, terra storicamente armena ma formalmente parte dell’Azerbaigian, a seguito del collasso dell’Unione Sovietica all’inizio degli anni ’90, dilagò la violenza tra forze armene e azerbaigiane.

 

Il conflitto provocò la morte di oltre 30 mila persone e vide la vittoria finale degli armeni. Dopo vent’anni di pace, il 27 settembre 2020, le truppe azere hanno attaccato l’autoproclamata Repubblica armena, prendendo il controllo di parte della regione; poi, in violazione agli accordi di cessate il fuoco, dal dicembre 2022 il Karabakh è stato isolato impedendo il transito di uomini e aiuti umanitari. E, dopo nove mesi di assedio, l’esecutivo azero ha lanciato l’offensiva finale che ha costretto all’esodo i cittadini armeni e che è stata definita un’operazione di pulizia etnica dal Parlamento europeo. Il presidente azero Ilham Aliyev, che il 7 febbraio ha vinto le elezioni con il 92% delle preferenze e che è al potere da oltre vent’anni, per riannettere il Nagorno Karabakh ha sfruttato gli effetti collaterali della guerra in Ucraina. A seguito dell’aggressione della Russia, infatti, in Europa si è molto dibattuto su come ottenere l’indipendenza energetica da Mosca: in Baku si è trovato un sodale partner per il rifornimento di gas e idrocarburi. L’escalation militare di settembre, con cui è stata decretata la fine dell’esistenza della Repubblica dell’Artsakh e della presenza armena nella regione, non ha portato però alla fine delle ostilità nel Caucaso meridionale, dove la tensione si sta nuovamente acuendo.

 

Il 13 febbraio scorso, quattro soldati armeni sono rimasti uccisi a seguito di un attacco da parte delle forze azere lungo il confine, i colloqui tra le due ex Repubbliche sovietiche si sono arenati e la leadershipazerbaigiana non fa mistero del suo interesse nei confronti della provincia armena di Syunik per poter così collegare l’exclave azera del Nachicevan con il resto del Paese. Intanto i profughi dell’Artsakh, come un popolo del vento, vivono in alloggi di fortuna e restano sospesi in un limbo, senza più avere un passato e senza sapere se una nuova guerra li travolgerà nel prossimo futuro. Così Nune, dopo avere mostrato le sue fotografie, sprofonda in un silenzio inconsolabile; negli occhi le si legge un misto di ricordi e rassegnazione. Prima di salutare, però, prende un piccolo sacchetto dalla valigia con cui è scappata e con devozione sacrale ne mostra il contenuto. «Questa è una zolla che ho preso dal mio cortile di casa prima di andarmene. L’ho presa per averla sempre con me e perché voglio essere sepolta con questa terra; in modo che, almeno da morta, io possa riposare in pace nella terra del mio Artsakh».

 

La replica dell’ambasciatore della Repubblica dell’Azerbaigian Rashad Aslanov
«Mi preme sottolineare che non esiste, in Azerbaigian, una regione denominata Nagorno Karabakh, bensì esiste la regione economica del Garabagh dell’Azerbaigian. L’Azerbaigian ha recentemente ripristinato la sua integrità territoriale e sovranità, nel quadro del diritto internazionale e delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 1993. Per quasi 30 anni i nostri territori sono stati occupati illegalmente dalle forze armate dell’Armenia, che hanno causato distruzione, rovine, morti, devastazione e oltraggiato il nostro patrimonio storico e religioso. Le forze di occupazione hanno cosparso di mine i nostri territori occupati, causando feriti e uccisioni, che proseguono ancora oggi. Ciò nonostante, con la liberazione dei nostri territori, l’Azerbaigian ha dichiarato con le parole e con i fatti di voler avviare una nuova convivenza pacifica con i residenti armeni.

Questi stessi hanno deciso di abbandonare le nostre terre autonomamente, diffondendo una falsa narrativa di odio e di esodo forzato. Oggi questi residenti sono liberi di fare ritorno in qualsiasi momento, a differenza dei circa 300.000 azerbaigiani, che ancora oggi non possono tornare alle proprie case, nell’attuale Armenia. Gli anni di occupazione sono stati caratterizzati da dolore indicibile per il mio popolo: circa 1 milione di azerbaigiani, tra profughi e rifugiati, non hanno potuto per decenni fare ritorno alle proprie case, neppure per visitare le tombe dei familiari. Sono questi stessi azerbaigiani e i loro discendenti che oggi stanno facendo il grande ritorno nel Garabagh, nelle proprie case.

Vorrei ricordare anche che non è stato l’Azerbaigian a violare gli impegni del cessate il fuoco del 2020: per quasi 3 anni, dopo la firma della Dichiarazione tripartita da parte dei leader di Azerbaigian, Armenia e Federazione Russa, l’Armenia non ha adempiuto agli impegni presi e ha preservato le sue forze armate, 15.000 unità, all’interno dei nostri territori, ha provveduto alla loro rotazione, ha depredato le nostre terre di minerali, e ha continuato a cospargere nuove mine.

L’Azerbaigian in questi anni ha vissuto momenti terribili, basti citare quanto avvenuto a Khojaly nella notte tra il 25 e il 26 febbraio del 1992, e mi spiace che l’articolo non ne faccia menzione: sarebbe corretto raccogliere le testimonianze degli azerbaigiani che hanno sofferto 30 anni di occupazione e hanno vissuto il terrore armeno.

Ma aggi siamo di fronte ad un’occasione storica, la pace nel Caucaso meridionale è davvero vicina, e tutta la comunità internazionale è chiamata a collaborare per questo obiettivo».

I vescovi svizzeri in assemblea dalle suore di Saint Maurice (Catt.ch 11.03.24)

I membri della Conferenza dei vescovi svizzeri (CVS) si sono riuniti dal 4 al 6 marzo 2024 a «La Pelouse» di Bex per la loro 343a assemblea ordinaria. I vescovi hanno condiviso un momento di preghiera con le suore di Saint Maurice.

I membri della CVS hanno parlato della guerra in Ucraina, scoppiata due anni fa e che ha portato a sofferenze indicibili e all’esilio di massa. Sono solidali con le tante persone che vivono nel mezzo di questo conflitto e pregano per un rapido ritorno alla pace. I vescovi si uniscono a papa Francesco nel chiedere una soluzione attraverso il dialogo e l’azione senza violenza o armi.

Soluzioni pacifiche

I vescovi indicano altre regioni in cui la violenza è in aumento: nel Nagorno-Karabakh, i cristiani appartenenti alla Chiesa armena sono particolarmente colpiti. Oppure a Gaza, come in molte altre parti del mondo, dove ogni giorno si registrano morti, feriti e sparizioni. I vescovi condannano fermamente questa violenza omicida e restano convinti che solo la fratellanza universale può portare la pace.

I vescovi condannano formalmente l’attacco con coltello a una persona ebrea a Zurigo, così come tutto l’antisemitismo, e sono solidali con tutti coloro che soffrono. Esortano gli Stati interessati a perseverare nella ricerca di soluzioni pacifiche.

Soluzioni pacifiche

I vescovi indicano altre regioni in cui la violenza è in aumento: nel Nagorno-Karabakh, i cristiani appartenenti alla Chiesa armena sono particolarmente colpiti. Oppure a Gaza, come in molte altre parti del mondo, dove ogni giorno si registrano morti, feriti e sparizioni. I vescovi condannano fermamente questa violenza omicida e restano convinti che solo la fratellanza universale può portare la pace.

I vescovi condannano formalmente l’attacco con coltello a una persona ebrea a Zurigo, così come tutto l’antisemitismo, e sono solidali con tutti coloro che ne soffrono. Esortano gli Stati interessati a perseverare nella ricerca di soluzioni pacifiche.

Invito alle vittime di abusi

Una delegazione di SAPEC (sostegno alle vittime di abusi, nella Svizzera francese) e dell’IG-M!KU (comunità di interesse per le vittime di abusi nell’ambiente ecclesiastico, nella Svizzera tedesca) sarà invitata alla prossima Assemblea ordinaria della CVS a Einsiedeln.

Per i vescovi, il contatto diretto con le persone colpite è molto importante. Solo lavorando insieme a loro la Chiesa sarà in grado di attuare misure mirate: trattamento equo, interventi adeguati con le vittime, rifugi indipendenti e prevenzione efficace.

Accoglienza del nuovo presidente della RKZ

I membri della CVS hanno accolto Roland Loos, nuovo presidente della Conferenza centrale cattolica romana della Svizzera (RKZ), insieme al segretario generale Urs Brosi. Durante l’incontro sono stati definiti gli ultimi dettagli del contratto di cooperazione per il servizio «Etica e Società» e le modifiche apportate saranno ora sottoposte all’Assemblea plenaria della RKZ e ad Azione Quaresimale..

Sono stati ultimati gli statuti della Commissione per la sinodalità, che consentiranno di proseguire il lavoro sinodale in Svizzera non appena saranno adottati dall’Assemblea plenaria della RKZ. Due figure chiave della Segreteria generale del Sinodo verranno in Svizzera per approfondire il tema della sinodalità.

Due ospiti del Sinodo a Roma

Il cardinale Mario Grech, Segretario generale del Sinodo, sarà a Berna il 19 marzo 2024. Egli spiegherà gli obiettivi della sinodalità e parlerà della responsabilità sinodale nella Chiesa cattolica. Allo stesso tempo, potrà conoscere le esperienze e le preoccupazioni della Chiesa in Svizzera. Il 2 maggio 2024, inoltre, suor Nathalie Becquart del Segretariato del Sinodo è stata invitata a Einsiedeln per tenere una conferenza e discutere del rinnovamento della Chiesa in uno spirito di sinodalità e con un contributo spirituale.

La CVS ha partecipato alla campagna «Donner des calories – sauver des vies» (»Dare calorie – salvare vite»). L’iniziativa è stata lanciata qualche anno fa da Marc Subilia, pastore riformato e medico del Canton Vaud. L’obiettivo è rinunciare a un pasto e donare il denaro risparmiato a un’organizzazione umanitaria. I vescovi desiderano cogliere l’occasione per ringraziare tutti coloro che partecipano alle azioni quaresimali delle nostre chiese con un segno di solidarietà.

Il Nunzio Apostolico in Svizzera, Mons. Martin Krebs, ha incontrato i membri della CVS per uno scambio collegiale. La colletta per la Giornata dei Migranti, che si svolge sempre l’ultima domenica di settembre (quest’anno il 29 settembre 2024), sarà ora obbligatoria. La CVS ha nominato il dott. Josef Glaus procuratore ecclesiastico del Tribunale ecclesiastico interdiocesano svizzero (seconda istanza). (cath.ch/com/gr – trad. e adattamento catt.ch)

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Il genocidio dimenticato degli Assiri (Mentinfuga 11.03.24)

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I genocidi riconosciuti
Il genocidio degli Armeni
Non si può non partire dal “genocidio degli Armeni” o, come lo ricordano i sopravvissuti di quel popolo, Medz Yeghern (in lingua armena Մեծ Եղեռն, “grande crimine“) o Հայոց Ցեղասպանութիւն (Hayoc’ C’eġaspanowt’yown).
La drammatica vicenda si svolse, ad opera del Governo Ottomano, allora diretto dai cosiddetti Giovani turchi che avevano preso il potere ad Ankara, rovesciando la dinastia che aveva retto per secoli quell’Impero enorme, multietnico e multireligioso, tra il 1915 ed il 1916 e determinò deportazioni ed eliminazioni che causarono circa 1,5 milioni di morti.
Tale genocidio viene commemorato dagli armeni il 24 aprile
Sul piano internazionale, quaranta Stati hanno ufficialmente riconosciuto come genocidio gli eventi armeni e, in Francia, una legge punisce con il carcere la negazione del genocidio armeno.
Ma dimostrazione che sul termine genocidio la discussione è più che mai aperta, il governo turco rifiuta ancora oggi di riconoscere il genocidio ai danni degli armeni.

Rifugiati armeni e siriani
Rifugiati armeni e siriani in attesa di essere “disinfettati” nel campo della Croce Rossa fuori Gerusalemme. Fotto Library of Congress

Il 12 aprile 2015 papa Francesco riferendosi agli avvenimenti[2] ha parlato esplicitamente di genocidio, citando una dichiarazione del 2001 di papa Giovanni Paolo II e del patriarca armeno, in occasione della messa di commemorazione del centenario in San Pietro, dichiarando che quello armeno «generalmente viene definito come il primo genocidio del XX secolo»[3].
Il Parlamento italiano si occupò del problema nel 1998 con una mozione presentata da Giancarlo Pagliarini per il riconoscimento dell’Olocausto armeno, firmata da 165 parlamentari di diversi partiti.
Il 17 novembre del 2000 la Camera dei deputati italiana, sulla scia del Parlamento europeo e della Città del Vaticano, ha votato, nella seduta n. 160 del 10 aprile 2019, ha approvato, con 382 voti a favore, nessun contrario e 43 astenuti, la mozione n. 1-00139 che “impegna il Governo a riconoscere ufficialmente il genocidio armeno e a darne risonanza internazionale.
Sulla corretta definizione di “genocidio”, proprio prendendo spunto dalla drammatica vicenda armena, si è aperta una vera e propria diatriba interpretativa, a ulteriore dimostrazione di come il concetto sia complesso e non ammetta semplificazioni.
Si noti che in turco esso viene indicato come Ermeni Soykırımı “genocidio armeno”, a cui viene anteposta la parola sözde (“cosiddetto”), oppure Ermeni Tehciri “deportazioni armene“.
La posizione ufficiale della  è che le morti degli armeni durante i “trasferimenti” o “deportazioni” non possono essere semplicemente considerate genocidio.
Tale posizione è stata appoggiata da una lunga serie di giustificazioni, tutte divergenti tra loro: le uccisioni non erano deliberate o non erano orchestrate dal governo; le uccisioni erano giustificate dalla minaccia costituita dalla “nota russofilia” degli armeni come gruppo culturale; gli armeni sono semplicemente morti di fame; altre spiegazioni chiamano in causa le fameliche “bande armene”.
Alcune argomentazioni tentano di screditare l’ipotesi del genocidio sul piano semantico o mettendone in risalto lo specifico anacronismo (la parola stessa genocidio non esisteva prima del 1943)
Già da tempo la magistratura turca punisce con l’arresto e la reclusione fino a tre anni il nominare in pubblico l’esistenza del genocidio degli armeni, in quanto gesto antipatriottico.
In tale denuncia, poi ritirata, è incappato perfino lo scrittore turco Orhan Pamuk, a seguito di un’intervista a un giornale svizzero in cui accennava al fenomeno e non si esclude che proprio alle posizioni di Pamuk sulla questione armena si debba l’attentato di cui lo scrittore e rimasto vittima.
D’altro canto, al di fuori della Turchia, paese ovviamente interessato, anche l’orientalista Bernard Lewis, membro della British Academy, riconosce che i “massacri del 1915” contro gli armeni dell’Impero ottomano si siano verificati, ma non crede che rientrino nella definizione di genocidio ma solamente qualificato come un insieme di stragi, non mosse tuttavia dalla chiara volontà di eliminare tutti gli Armeni. Va peraltro ricordato come in Francia, negli anni Novanta, la sua visione critica della violenza perpetrata dai Giovani Turchi gli valse una causa civile e la condanna, sia pure ad un’ammenda simbolica di un franco francese.

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ENERGIA. Addio alla Carta per l’Energia dopo 30 anni (AgcNews 11.03.24)

Il 29 febbraio la Gran Bretagna si è ritirata da un trattato internazionale che consente alle compagnie petrolifere e del gas di citare in giudizio i governi sulle politiche climatiche e chiedere miliardi di risarcimento per i mancati profitti. 

La Carta dell’Energia è stata creata per rendere il commercio energetico internazionale più semplice ed economico. Ma i firmatari hanno recentemente faticato a riformare l’accordo. Di conseguenza, la Gran Bretagna lo ha definito “obsoleto” e lo ha abbandonato. Perché interferisce con il movimento verso “energia pulita ed economica”.

Dal 2001, gli investitori hanno intentato circa 160 cause legali basate su contratti. Sostenevano che i loro investimenti erano stati danneggiati dalle politiche verdi, come i sussidi per le energie rinnovabili, e chiedevano un risarcimento ai governi. Di conseguenza, i governi si sono trovati intrappolati tra due fuochi: le azioni legali delle aziende manifatturiere che sostenevano che i governi avevano infranto il trattato, e i gruppi ambientalisti che li accusavano di non aver rispettato i loro impegni sul clima. 

E mentre i paesi “sviluppati” lasciano al carta dell’ambiente i paesi africani iniziano ad aderire alla Carta tra questi: Burundi, Niger, Marocco e Burkino Faso.

Chi invece si trova imbrigliato nella rete è l’Armenia: a gennaio una delegazione guidata dal rappresentante dell’Armenia per le questioni giuridiche internazionali ha preso parte a una riunione procedurale presso la Corte permanente di arbitrato dell’Aia nell’ambito dell’arbitrato avviato dall’Azerbaigian il 27 febbraio 2023 in conformità con il Trattato dell’Armenia. Carta dell’Energia Carta dell’Energia-ECT).

La Repubblica d’Armenia attende il completamento delle norme procedurali di detto procedimento arbitrale e si prepara anche a presentare le sue argomentazioni e le prove dell’infondatezza delle pretese legali dell’Azerbaigian nella fase appropriata del procedimento arbitrale.

Nel 2023 a trovarsi imbrigliato nelle dette maglie Stati Uniti e Russia. Un tribunale statunitense ha respinto le argomentazioni sulla mancanza di giurisdizione in una controversia con gli ex azionisti della YUKOS per 50 miliardi di dollari, che la Russia ha sostenuto, citando l’immunità sovrana. Ora il caso potrà essere esaminato nel merito da un tribunale americano.

Nel 2014, un tribunale arbitrale internazionale dell’Aia, dopo un processo durato dieci anni che ha coinvolto la parte russa, ha assegnato agli ex azionisti di controllo di Yukos – Hulley Enterprises (Cipro), Veteran Petroleum (Cipro) e Yukos Universal (Isola di Man) – risarcimento di 50 miliardi di dollari per l’“esproprio” dell’azienda. Secondo Reuters, l’importo ha ormai raggiunto i 60 miliardi di dollari, compresi gli interessi. La Russia si è rifiutata di pagare, adducendo il fatto di non aver ratificato il Trattato multilaterale sulla Carta dell’Energia (ECT), che è diventato la base su cui gli ex azionisti della YUKOS hanno avviato l’arbitrato.

Nella proposta di decisione del Consiglio relativa al recesso dell’Unione dal trattato sulla Carta dell’energia si legge: “Il trattato sulla Carta dell’energia (ECT) è un accordo multilaterale in materia di scambi commerciali e investimenti applicabile al settore energetico, firmato nel 1994 ed entrato in vigore nel 1998. Contiene disposizioni sulla tutela degli investimenti, sugli scambi e sul transito di materiali e prodotti energetici e sui meccanismi di risoluzione delle controversie. Istituisce inoltre un quadro per la cooperazione internazionale nel settore dell’energia tra le 54 Parti contraenti. L’Unione europea è Parte contraente dell’ECT,  insieme all’Euratom, a 26 Stati membri dell’UE (dall’8 maggio 2023), al Giappone, alla Svizzera, alla Turchia e alla maggior parte dei paesi dei Balcani occidentali e dell’ex Unione sovietica, ad eccezione della Russia  e della Bielorussia”. 

Francia, Germania e Polonia hanno lasciato l’ECT entro la fine del 2023, mentre il Lussemburgo lo farà entro la metà del 2024. Inoltre, Paesi Bassi, Slovenia, Spagna e, più recentemente, Danimarca, Irlanda e Portogallo hanno annunciato la loro intenzione di uscire unilateralmente. A causa della clausola di caducità, le parti sono vincolate dalle disposizioni ECT per 20 anni dopo il recesso.

Il sette marzo il Consiglio dell’Unione Europea approva il recesso dell’UE dal Trattato sulla carta dell’energia. 

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L’ARMENIA TRA DUE MONDI: BILANCIAMENTO GEOPOLITICO E NUOVE ALLEANZE (NotizieGeopolitiche 10.03.24)

L’equilibrio geopolitico nell’area post-sovietica sta subendo delle trasformazioni significative, con l’Armenia che mostra una crescente distanza dalla Russia, il suo tradizionale alleato. Il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, ha annunciato in un’intervista che il suo Paese ha sospeso la partecipazione nell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), guidata dalla Russia, in seguito a una serie di delusioni nei confronti di Mosca.
Le relazioni tra Russia e Armenia si sono deteriorate notevolmente l’anno scorso a seguito del mancato intervento delle forze di peacekeeping russe durante l’offensiva azera nel Nagorno-Karabakh; un’area contesa controllata in passato dai separatisti armeni. Questo evento ha sicuramente svelato la presenza di crepe all’interno delle relazioni tra i due Paesi.
Pashinyan ha infatti espresso il disappunto dell’Armenia nei confronti del CSTO, sottolineando che l’organizzazione non è riuscita a garantire la sicurezza del suo Paese durante gli eventi critici del 2021 e del 2022. Inoltre, lo stesso ha accusato la Russia di condurre una campagna di propaganda contro il suo governo.
Il Cremlino, tuttavia, ha dichiarato di non aver ricevuto conferme ufficiali riguardo alla decisione dell’Armenia di sospendere la sua partecipazione al CSTO. Dmitry Peskov, portavoce del Cremlino, ha affermato e sottolineato l’importanza di comprendere appieno i dettagli di questa situazione e delle dinamiche in continua evoluzione, augurandosi che l’Armenia possa chiarire apertamente e ufficialmente la sua posizione.
L’Armenia, alla ricerca di nuove garanzie di sicurezza, sta ora individuando e raggiungendo un maggiore coinvolgimento con i suoi partner occidentali, in particolare Francia e Stati Uniti, piuttosto che affidarsi esclusivamente alla Russia. Il cambio di rotta, sintomo di crescenti squilibri e dissensi interni al CSTO, si concretizza anche attraverso l’adesione formale dell’Armenia alla Corte Penale Internazionale (CPI) all’inizio di febbraio, nonostante l’esplicito disappunto da parte di Mosca.
La visita in Armenia del ministro della Difesa francese, Sébastien Lecornu, durante la quale sono stati annunciati nuovi accordi sugli armamenti, non fa che confermare l’interesse crescente dello Stato per i legami con l’Occidente. Eppure, nonostante questa apertura verso nuove alleanze, l’Armenia continua ad ospitare una significativa presenza militare russa nel suo territorio: la situazione di tensione perdura, con recenti scontri al confine con Azerbaigian che hanno causato vittime da entrambe le parti. Pashinyan ha avvertito che l’Azerbaigian potrebbe essere preparato a un’escalation del conflitto; alimentato anche dal supporto di Ankara e che potrebbe mirare a collegare l’enclave azera di Nakhchivan attraverso una possibile incursione nella regione meridionale dell’Armenia.
In questo contesto, l’Armenia si trova ad affrontare una delicata situazione geopolitica, bilanciando le sue relazioni con la Russia e l’Occidente mentre cerca di garantire la sua sicurezza nazionale in un contesto regionale sempre più instabile. La sua decisione di allontanarsi dal CSTO segna un importante punto di svolta nelle dinamiche politiche dell’area e potrebbe avere ripercussioni significative sulle future alleanze e sulla sicurezza della regione nel suo complesso.

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Eurovision 2024: il duo Ladaniva rappresenterà l’Armenia (Eurofestival 9.03.24)

L’Armenia fa una scelta di grande classe: sarà il duo Ladaniva a rappresentare il Paese e Amp Tv a Malmö all’Eurovision 2024. Si tratta di un progetto musicale composto da artisti francesi di origine armena, con base in Francia. Louis Thomas, francese e Jasmin Baghdasaryan, nata in Armenia, cresciuta a Minsk prima di trasferirsi in Francia dalla madre.

Nel 2022, oltre ad aver rappresentato l’Armenia alla festa europea della musica ad Europavox, hanno anche vinto il People’s Choice al Music Moves Europe Talent Award. L’edizione dell’Eurovision 2024 vedrà dunque in gara tre degli ultimi quattro vincitori di questo premio, organizzato da Unione Europea, Reperbahn Festival e Eurosong Noorderslag, l’associazione che sovrintende all’omonimo showcase festival che vede protagonisti gli artisti emergenti migliori d’Europa selezionati dalle radio aderenti ad Ebu. Le altre due vincitrici sono le ucraine Jerry Heil e alyona alyona, in coppia per l’Ucraina.

 

Freschi di uscita del primo album eponimo, l’ultimo singolo è la dolcissima “Je t’aime tellement”. La caratteristica del duo è infatti quella di mescolare o alternare nelle loro produzioni la chanson francese ed il folk in lingua armena oltre alla world music.

Ovviamente, a chi ha qualche annon in più non sarà sfuggita la citazione che sta nel loro nome: Niva era infatti un celebre modello di autovetture della Lada, la popolare marca sovietica: simile alla Panda, era diffusa anche in Italia negli anni 80 e 90.  Spiega la voce del duo:

Lada Niva è un’auto che va ovunque e scala altezze non scoperte, proprio come facciamo nella nostra band. Siamo entusiasti di questa opportunità e pronti a ravvivare l’Eurovision 2024 con la nostra diversità musicalità

Il direttore esecutivo di AmpTV, Hovhannes Movsisyan, aggiunte:

Ladaniva porterà la loro energia colorata e contagiosa all’Eurovision. Essendo un mix etnico sia musicale che artistico, l’ingresso dell’Armenia sta per ispirare ponti culturali.

Diversi brani li hanno fatti conoscere al grande pubblico: “Shakar”, una delle loro più recenti produzioni in armeno, ha oltre 14 milioni di visualizzazioni sul loro canale YouTube. Ma i brani che forse li rappresentano meglio sono “Pourquoi t’as fait ça?” e “Vay Aman“. Nessuna delle canzoni qui presentate è elegibile per l’Eurovision 2024, essendo tutte state rilasciate molto prima del 1.settembre scorso.

Il brano verrà annunciato nei prossimi giorni, anche se è probabile che sia già nelle mani di EBU, visto che lunedì 11 c’è l‘Head of Delegation Meeting che tradizionalmente segna la deadline per la consegna delle canzoni in concorso. In questo periodo sono in tour in Francia, ma ovviamente questa designazione cambierà molto i loro piani.

L’Armenia all’Eurovision Song Contest

L’Armenia è stata sorteggiata ad esibirsi nella prima metà della seconda semifinale, quella nella quale voterà l’Italia e anche la Francia, che non solo è la terra adottiva del duo ma anche il Paese europeo con la più grande comunità armena fuori dall’Armenia.

In Svezia marcherà la sedicesima partecipazione all’Eurovision. Il miglior risultato continuano ad essere i quarti posti ormai datati di “Qele qele” (Sirusho, 2008) e “Not alone” (Aram Mp3, 2014), ma nel 2022, “Snap” di Rosa Linn, nonostante il ventesimo posto è diventata una hit internazionale grazie al traino dei social, superando le 12 milioni di copie vincendo due dischi di diamante (in Brasile), 25 dischi di platino e uno d’oro.

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Il potere delle diaspore (Città Nuova 09.03.24)

Armeni, curdi, fenici, ebrei: quattro popoli che vivono in sequenza geografica, da nord a sud, nella regione del pianeta che, dalla Seconda guerra mondiale, anzi, dall’inizio del XX secolo, conosce una notevole diaspora delle singole popolazioni (avrei potuto aggiungere anche il popolo palestinese, che però ha connotazioni spesso diverse da quelle che vedremo di seguito). Ognuno di questi quattro popoli ha una sua storia precisa e unica, ma nello stesso tempo vi sono diversi elementi che li accomunano.

In primo luogo, sono ponti tra il blocco asiatico e quello europeohanno poi uno spiccato senso degli affari, in quanto sono inseriti, chi più chi meno, negli ingranaggi dell’economia mondiale; in terzo luogo, sono stati e talvolta sono anche oggi perseguitati, se non hanno addirittura conosciuto veri genocidi; sono tra l’altro accomunati dall’esiguità dei loro territori; hanno poi una fortissima identità nazionale mantenuta nei secoli limitando al massimo il “meticciato” per alleanze matrimoniali; infine, la maggioranza di questi popoli vive in diaspora, in altri Paesi, con percentuali che variano, ma che superano per tutti e quattro i popoli la metà della popolazione. Sono diaspore che vanno indietro nei secoli e che sempre e comunque rimangono legate a doppia mandata al loro popolo e al loro territorio.

La diaspora ha solitamente ragioni molteplici: ad esempio, quella che ha colpito l’Italia nella seconda metà del XIX secolo e nella prima metà del XX aveva ragioni economiche – non c’era lavoro sufficiente – e politiche – i regimi totalitari e le varie guerre −, avendo come risultato la partenza di milioni di persone. Spesso, a tali ragioni economiche e politiche vi si aggiungono motivazioni ambientali e naturalistiche, oltre all’ingerenza negli affari interni di potenze straniere, che intervengono per fare incetta di risorse naturali e per occupare posizioni geostrategiche.

Dati questi elementi comuni alle diaspore che hanno colpito e colpiscono i quattro popoli scelti, viene da chiedersi quali influenze abbiano gli espatriati sulla porzione di popolo rimasto in patria. La più forte non è quella economica, come si sarebbe portati a credere, visto che tutti e quattro i popoli non riuscirebbero a sopravvivere senza l’apporto di denaro delle proprie diaspore sparse sul pianeta: esempio ne sia la crescita esponenziale, in un Libano senza praticamente più Stato e banche, in un sistema economico che potrebbe essere definito “senza leggi e in contante”, delle agenzie di trasferimento fondi; o, ancora, il contributo della diaspora ebraica alla guerra di Israele contro Hamas, con un incremento che si stima al 25% delle rimesse. Ma anche curdi e armeni non riuscirebbero a sopravvivere senza i cospicui contribuiti che arrivano dall’estero, in valuta (il dollaro, immancabilmente, molto più solido delle monete locali).

Dunque, l’aspetto economico e quello finanziario hanno il loro peso, ma ancor più importante, anche se non quantificabile, è la spinta identitaria. Gli emigrati, anche grazie agli strumenti digitali, sono ormai in contatto quotidiano con la madre patria, dove solitamente hanno lasciato genitori e nonni, i vecchi, perché naturalmente sono i più giovani che fanno il balzo verso l’estero, spesso e volentieri per mantenere la famiglia o per motivi di sicurezza. Non di rado, anzi molto frequentemente, questi espatriati mantengono o acquistano piccole o grandi proprietà in madre patria, dove tornano almeno una volta all’anno. Le campagne, in questi quattro Paesi, sono punteggiate da case in stile “eclettico”, spesso inguardabili, che rimangono vuote tutto l’anno, salvo nei periodi di vacanza. Il ritorno periodico serve a incoraggiare chi resta in patria a mantenere salda l’identità del popolo.

Corollario a tale motivazione identitaria è il sostegno che coloro che sono in diaspora danno nel caso dello scoppio di qualche conflittualità, latente o attuale. Sono stato ad esempio sorpreso dal sostegno della diaspora armena ai cittadini in patria nei tristi momenti (per loro, non per gli azeri) dell’ultima guerra-lampo per il Nagorno Karabakh, mentre è notorio l’appoggio materiale e morale della diaspora curda alle gravissime emergenze belliche nelle porzioni di territorio che ricadono su Siria, Iraq e Turchia: il popolo curdo, lo sappiamo, non ha una sua patria indipendente, a differenza degli altri tre popoli qui presi in considerazione.

Di più, le diaspore curda, armena, ebraica e libanese si manifestano quasi sempre più belligeranti della parte rimasta in patria. Non è un fenomeno sconosciuto a chi si occupa di storia e di geopolitica, ma è l’intensità nutrita dai social network a colpire. Cito i social perché è macroscopica la massa di informazioni false o unilaterali che giungono alle diaspore dai Paesi di origine, o prodotte dalle stesse diaspore e inviate in patria, che modificano la realtà per contrastare i nemici di turno. Impressionante il fake o deep fake che circola a proposito del 7 ottobre e della susseguente reazione israeliana.

Non abbiamo poi affrontato il tema dell’influsso delle credenze religiose sulle diaspore di questi quattro popoli, ma è indubbio che siano presenti, spesso creando un mix politico-religioso di effetto certo e, non raramente, tutt’altro che atto a favorire pace e riconciliazione.

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Intervista esclusiva a Maurizio Redegoso Kharitian (Unionemusicale 08.03.24)

Maestro Redegoso, ci presenta il vostro progetto?
«Nella mia testa è nato nel 2007, subito dopo essere ritornato dal mio primo viaggio in Armenia alla ricerca delle mie origini materne. Un viaggio intriso di pathos emotivo in quanto proprio con mia madre avrei voluto compierlo, purtroppo morì poco prima. Ho scoperto un’antichissima civiltà, una straordinaria ricchezza storica e culturale. Decisi quindi di occuparmi attivamente, soprattutto dedicandomi all’approfondimento delle musiche che avevo ascoltato. L’incontro con l’attore e regista Stefano Zanoli ha fatto sì che anche la parte letteraria fosse coinvolta. E allora nacque ciò che ci piace definire un Laboratorio Artistico Permanente sulla cultura Armena, che è comunque poco conosciuta e studiata anche nelle nostre scuole. In 17 anni abbiamo realizzato un centinaio di eventi in Italia, Francia e Svizzera. Inoltre siamo stati inviati anche in Armenia. Per la parte musicale ho creato tredici diverse formazioni che hanno visto l’unione di voci, strumenti, percussioni nell’ottica di una fusione di diversi timbri, suoni, frequenze delle diverse tradizioni orientali e occidentali».

A che cosa fa riferimento il titolo Nor Arax?
«Nel 1919, dopo le ultime ondate di deportazioni subite a seguito del Genocidio del 1915, alcune decine di famiglie armene sbarcarono a Bari dove vennero accolte da un imprenditore tessile che le ospitò nel suo lanificio (La maggioranza di quelle famiglie proveniva dall’Anatolia, patria della produzione di tappeti, quindi hanno potuto proseguire e diffondere quella conoscenza anche in Italia). In seguito, grazie anche all’intervento del poeta armeno Hrand Nazariantz, già presente nel nostro paese, venne concesso un terreno dove gli esuli armeni fondarono un villaggio che chiamarono Nor AraxAras o Arax è il nome di un fiume che scorre lungo l’Armenia, la Turchia, il Caucaso e l’Iran, crocevia di culture millenarie. Nor significa nuovo, il nuovo sentimento, il nuovo senso per quelle acque che scorrono: non più confine, separazione, ma unione e vita».

I brani o gli autori che avete scelto sono particolarmente rappresentativi della cultura armena?
«Direi di sì, ma ogni volta Progetto Nor Arax presenta anche autori e brani fra i meno noti. In ogni caso mi piace pensare che il pubblico verrà accompagnato in un viaggio che dalla nostra epoca giungerà a ritroso fino ai primi canti cristiani di matrice armena appunto. È consuetudine per me dire che i programmi sono come un fil rouge che si mantiene inalterato attraverso i secoli. Di Aram Khatchaturian, suoneremo una giovanile e poco eseguita Suite per viola e pianoforte. È un brano del 1929, lo stesso del Poema per violino e pianoforte e di poco anteriore alla Toccata per pianoforte e al Trio per pianoforte, violino e clarinetto. Tigran Mansurian è il più importante compositore armeno vivente, che dopo contatti con famosi autori sovietici e con Pierre Boulez ha trovato uno stile più arcaico molto legato alla spiritualità armena. Alan Hovhaness è un caso atipico: pur avendo vissuto prevalentemente negli Stai Uniti, le sue origini armene sono tradotte nelle sue opere; inoltre ha compiuto ricerche molto profonde nelle tradizioni musicali di tutto l’Oriente (Giappone, Cina, India). Khatchadour Avedissian ha il merito di avere saputo mirabilmente creare una sintesi fra la musica tradizionale e quella colta armena, ricreando le sonorità tipiche dell’orchestra formata dagli strumenti mediorientali ma con strutture compositive proprie della tradizione occidentale. Naturalmente grande protagonista è sempre la figura di Komitas Vardapet, che meriterebbe un lungo approfondimento. Senza il suo fondamentale contributo la musica armena perderebbe in gran parte la sua importanza e il suo fascino. Komitas è stato il primo etnomusicologo, colui che per lunghi anni ha girato lungamente tutta l’Anatolia e altre regioni storiche dell’Armenia per raccogliere un patrimonio immenso che raggiunse le 4000 opere. Purtroppo gran parte di queste tesoro musicale è stato distrutto durante il Genocidio e rimangono circa 1200 esemplari; tuttavia il suo genio ha permesso a tutti noi – grazie a una minuziosa opera di trascrizione su pentagramma occidentale – di studiare tutto un patrimonio che fino al 1899 veniva tramandato tramite una originale notazione musicale tipica dell’Armenia. In questo programma abbiamo l’esempio dei suoi lavori pianistici, che ci immergono nel suo stile autentico, e grazie alla presenza del duduk punteggiata dalla viola avremo una tavolozza di suoni davvero molto densa di emotività. L’altro autore a me molto caro è Georges Ivanovich Gurdjieff (anche se la sua identità probabilmente è un’altra, ma questo è un altro discorso). Mi piace presentarlo accanto a Komitas per ragioni sia musicali sia spirituali: i due infatti si sono molto probabilmente conosciuti in una confraternita e il loro rapporto si mantenne vivo nel tempo. Durante i suoi numerosi viaggi dalla Grecia al Tibet, Gurdjieff memorizzò decine di melodie orientali. Per la trascrizione si avvalse dell’opera del suo allievo e discepolo, Thomas De Hartmann, noto compositore della Russia zarista. La prima stesura di questo lavoro, che nella forma definitiva raccoglie circa trecento brani, non fu soddisfacente. De Hartmann fu quindi inviato da Gurdjieff proprio a Yerevan (capitale dell’Armenia) per ascoltare le musiche di Komitas che davano chiara dimostrazione dello stile orientale. A quel punto fu chiaro come trasferire su pentagramma quel patrimonio raccolto in precedenza. Vi sarà anche una famosa melodia risalente all’anno 1000, Havun Havun, del mistico armeno Gregorio di Narek».

Che ruolo ha la musica popolare nel lavoro dei compositori armeni di musica colta?
«Riprendendo il discorso su Aram Khatchaturian, certamente è stato il compositore più noto ad avere utilizzato i materiali fissati da Komitas. In tutta la produzione di Khatchaturian vi sono citazioni (a volte trasposizioni integrali) di temi armeni da tutta la tradizione sia sacra che profana. Evito di fare un lungo elenco di compositori dall’epoca armeno-sovietica a oggi: mi limito a portare la mia testimonianza di questi anni di lavoro e ricerca in cui mi è stato anche chiesto di occuparmi di autori contemporanei. Ebbene, in tutte le opere che ho ricevuto da compositori armeni sparsi in tutto il mondo (soprattutto opere cameristiche di cui mi occupo maggiormente) sono chiare le presenze di stilemi tipici della musica orientale, a volte con forbite suggestioni ispirate anche dalla magnifica architettura dei monasteri armeni».

C’è un brano musicale in cui gli armeni sparsi per il mondo si riconoscono?
«Difficile sceglierne uno! Direi che fra i più rappresentativi vi sono: Valzer dal balletto Gayanè di Khatchaturian, poi sicuramente alcuni brani di Komitas come KrunkGarun AChinar es ma lo stesso dicasi per Tsaghats Baleni di Avedisyan. Alcuni di questi sono presenti nel programma. Ma sto facendo torto a moltissimi altri. I più fedeli sono legatissimi al famoso Dlè Yaman, un brano sacro molto intenso che riporta purtroppo al clima del Genocidio… Va tenuto conto che la diaspora armena sparsa per il mondo è molto variegata e non tutta proviene dalla piccola Repubblica d’Armenia esistente oggi. Insomma, un fenomeno abbastanza complesso da presentare in questa sede. Questo per dire che c’è moltissima musica che si dipana nel corso di secoli che ha un significato particolare a seconda anche della tradizione culturale delle famiglie d’origine».

Intervista raccolta da Gabriella Gallafrio per l’Unione Musicale

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