CCEE: pace in Ucraina, Terra Santa e nel Nagorno Karabakh (Korazym 04.12.23)

Giovedì 30 novembre si è conclusa a Malta l’assemblea plenaria del Ccee che ha riunito i presidenti delle Conferenze episcopali europee: “I vescovi europei hanno guardato con preoccupazione agli scenari di guerra: quella in Ucraina che è giunta al suo secondo anno, la situazione in Nagorno Karabakh e il conflitto in Terrasanta, ribadendo il no alla guerra e rinnovando l’appello per un cessate il fuoco definitivo, perché si prosegua con la liberazione degli ostaggi e si tengano aperti i corridoi umanitari a Gaza”.

Nel comunicato conclusivo i vescovi hanno evidenziato che tra le sfide che la Chiesa si trova ad affrontare sono state indicate la difesa della vita e della dignità umana, il protagonismo dei giovani, le nuove ondate migratorie, la persecuzione nascosta dei cristiani in Europa e le nuove frontiere dell’intelligenza artificiale. La sfida più grande resta quella dell’evangelizzazione, per annunciare in un’Europa sempre più tentata da secolarismo, fondamentalismo e nazionalismi populisti, la gioia del Vangelo che scaturisce dall’incontro con Cristo.

Durante la plenaria, il card. Mario Grech, segretario generale del Sinodo, ha affrontato il tema del ministero episcopale in una Chiesa sinodale, mentre il card. Jean-Claude Hollerich, relatore generale del Sinodo dei vescovi, ha parlato del ruolo delle strutture sovranazionali nel cammino sinodale. Il card. Grzegorz Rys, arcivescovo di Łódź, ha presentato il rapporto del Gruppo di lavoro per l’aggiornamento della ‘Charta Œcoumenica’, il documento di cooperazione tra le Chiese cristiane in Europa, firmato da CCEE e CEC nel 2001.

Nella sua relazione, il card. Grech si è soffermato sul ministero episcopale nella relazione di sintesi della prima sessione del Sinodo ed ha sottolineato che questo tema ‘risulta ricco e complesso’:

“Quanto emerge dal consenso sulla figura del Vescovo, ma anche dalle questioni da affrontare e dalle proposte che sono emerse dall’Aula, si può concludere che il processo sinodale in atto costituisce un’opportunità straordinaria per un rinnovamento del ministero episcopale a tutti i livelli in cui si esprime.

Non si può comprendere la Chiesa sinodale e i tre elementi che la strutturano (la comunione, la partecipazione e la missione) senza il ministero dei Vescovi; ma non si può più pensare il ministero dei Vescovi senza riferimento alla Chiesa sinodale. I due termini si corrispondono e stabiliscono un rapporto di circolarità che torna a vantaggio sia della Chiesa che del corpo episcopale”.

Nelle Conferenze episcopale avviene quel discernimento nato dal Popolo di Dio: “E’ la consultazione stessa del Popolo di Dio a richiedere un atto di discernimento dei Pastori. Il primo discernimento dei Pastori di ogni singola Chiesa, espresso nell’invio del contributo diocesano, risulta ulteriormente confermato nel discernimento congiunto dei Vescovi che in forma assembleare si pongono in ascolto di ciò che lo Spirito ha detto alle Chiese.

Le sintesi delle Conferenze Episcopali sono state dunque un atto di vero discernimento episcopale, e per il fatto che tale atto è compiuto da tutte le Conferenze Episcopali all’interno di uno stesso processo sinodale, si può pensare il consenso che ne è emerso come un atto collegiale dei Vescovi in comunione con il Vescovo di Roma.

Non si tratta naturalmente di un atto di magistero infallibile, che tale può essere unicamente in ragione del riconoscimento del papa, ma di un discernimento ecclesiale che conferisce autorevolezza alle Conferenze Episcopali ben oltre il livello pastorale nel quale sono attualmente configurate”.

Inoltre al termine dei lavori, all’unanimità, i vescovi hanno deliberato il trasferimento della sede del CCEE da San Gallo (Svizzera) a Roma nel prossimo anno ed hanno espresso gratitudine alla Chiesa svizzera, e in particolare alla diocesi di san Gallo, per l’accoglienza e la generosità con cui hanno accompagnato il lavoro del Segretariato del CCEE in questi anni.

Vai al sito

UNITI NEL NATALE: A UDINE UN CONCERTO ECUMENICO NATALIZIO (Diocesiudine 04.12.23)

«Cantiamo insieme il Natale» è il titolo della Rassegna ecumenica di canti di Natale. L’appuntamento è per domenica 10 dicembre alle 16 nella chiesa della B.V. del Carmine a Udine, in via Aquileia 63.

All’iniziativa partecipano i cori della Chiesa evangelica metodista, della Chiesa ortodossa slava del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, della Chiesa ortodossa rumena, della Comunità armena e di quella cinese, della Collaborazione Pastorale di Udine sud est.

Si tratta di un’occasione per avvicinarsi al Natale grazie all’intreccio culturale che nasce dalla musica. Sullo sfondo, il comune evento salvifico del Natale tradotto in diverse musicalità, con una gran ricchezza di lingue e tradizioni particolari che trovano il punto di incontro nel celebrare la nascita di Gesù, ciascuno a proprio modo e tutti insieme nel canto finale.

L’iniziativa è promossa dal Servizio diocesano per l’ecumenismo e dialogo interreligioso e dalla Collaborazione Pastorale Udine sud est (B.V. del Carmine, San Paolino d’Aquileia, B.M.V del Rosario).

La Chiesa, gli armeni e il ruolo dell’Italia. La riflessione di Pedrizzi (Formiche.it 03.12.23)

Dal 1965 molti Stati, tra i quali l’Italia, hanno riconosciuto ufficialmente il genocidio e in occasione del centenario anche la Santa Sede per merito di Papa Francesco, che è stato molto vicino agli armeni anche nelle ultime tragiche vicende. La riflessione di Riccardo Pedrizzi

Il popolo armeno è stato sempre nel cuore dei vari pontefici che si sono succeduti negli ultimi secoli. A cominciare da Leone XIII che dedicò loro addirittura un’enciclica nel 1888, la “Paterna Caritas”.

“I Pontefici Romani, Nostri Predecessori, non si sono mai trovati in difetto di testimonianze circa la loro capacità paterna verso gli Armeni”… “Gregorio XIII, come è noto, aveva concepito il disegno di fondare un istituto per l’opportuna istruzione dei giovani Armeni”… “Urbano VIII lo realizzò”…

…“Del resto la sollecitudine dei Pontefici Romani verso gli Armeni non è restata circoscritta entro i confini di questa città, perché nulla è stato loro più a cuore che di togliere la vostra Chiesa dalle difficoltà in cui si trovava, e di riparare i mali che essa ebbe a subire per la perversità dei tempi”.

…“Voi sapete pure che Leone XII e Pio VIII dedicarono le loro cure affinché nella capitale stessa dell’impero Ottomano gli Armeni avessero un prefetto della loro nazione per gli affari civili, come le altre comunità che appartengono a detto impero. Infine è vivo il ricordo degli atti compiuti da Gregorio XVI e da Pio IX per accrescere nel vostro paese il numero delle sedi episcopali, e perché il prelato armeno di Costantinopoli primeggiasse in onore e dignità”.

Benedetto XV, addirittura, fece una supplica al Sultano Mehmet, il 10 settembre 1915 per far cessare le violenze e le deportazioni ai danni degli armeni: “Ci giunge dolorosissima l’eco dei gemiti di tutto un popolo, il quale nei vasti domini ottomani è sottoposto a inenarrabili sofferenze. La nazione armena ha già veduto molti dei suoi figli mandati al patibolo, moltissimi, tra i quali non pochi ecclesiastici e anche qualche vescovo, incarcerati o inviati in esilio. Ci vien riferito che intere popolazioni di villaggi e di città sono costrette ad abbandonare le loro case per trasferirsi con indicibili stenti e patimenti in lontani luoghi di concentrazione, nei quali oltre le angosce morali debbono sopportare le privazioni della più squallida miseria e le torture della fame”.

Più recentemente agli inizi del terzo millennio, il 27 settembre 2001, viene sottoscritta una “Dichiarazione comune di Sua Santità Giovanni Paolo II e di sua santità Karekin II”, Patriarca cattolico di tutti gli armeni in occasione del 1700° anniversario della proclamazione del cristianesimo quale religione dell’Armenia.

…”Lo sterminio di un milione e mezzo di Cristiani Armeni, che generalmente viene definito come il primo genocidio del XX secolo, e il successivo annientamento di migliaia di persone sotto il regime totalitario, sono tragedie ancora vive nel ricordo della generazione attuale”… “Rendiamo grazie a Dio perché il cristianesimo in Armeni è sopravvissuto alle avversità degli ultimi diciassette secoli e perché la Chiesa Armena è ora libera di compiere la propria missione di proclamare la Buona Novella nella moderna Repubblica di Armenia e in molte zone vicine e lontane, nelle quali sono presenti comunità Armene. L’Armenia è di nuovo un Paese libero”… “Negli ultimi dieci anni, è stato riconosciuto il diritto dei cittadini della nascente Repubblica a professare liberamente la propria religione. In Armenia e nella diaspora, sono state fondate nuove istituzioni Armene, sono state costruite chiese e sono state create scuole e associazioni”.

Anche il pontefice attualmente regnante ha rivolto una particolare attenzione a questo popolo martoriato. Il 12 aprile 2015 infatti, in occasione del centenario del genocidio, ha inviato un messaggio ai fratelli e sorelle armeni: “Un secolo è trascorso da quell’orribile massacro che fu un vero martirio del vostro popolo, nel quale molti innocenti morirono da confessori e martiri per il nome di Cristo. Non vi è famiglia armena ancora oggi, che non abbia perduto in quell’evento qualcuno dei suoi cari: davvero fu quello il “Metz Yeghern”, il Grande Male”, come avete chiamato quella tragedia”… “La vostra vocazione cristiana è assai antica e risale al 301, anno in cui San Gregorio l’illuminatore guidò alla conversione e al battesimo l’Armenia, la prima tra le nazioni che nel corso dei secoli hanno abbracciato il Vangelo di Cristo”… “Il vostro popolo, illuminato dalla luce di Cristo e con la sua grazia, ha superato tante prove e sofferenze, animato dalla speranza che deriva dalla Croce”…: “La vostra storia di sofferenza, e di martirio è una perla preziosa, di cui va fiera la Chiesa universale. La fede in Cristo, redentore dell’uomo, vi ha infuso un coraggio ammirevole nel cammino, spesso tanto simile a quello della croce, sul quale avete avanzato con determinazione, nel proposito di conservare la vostra identità di popolo e di credenti”. (Omelia 21 novembre 1987)

Questa fede ha accompagnato e sorretto il vostro popolo anche nel tragico evento di cento anni fa che “generalmente viene definito come il primo genocidio del XX secolo”… “Il Papa Benedetto XV, condannò come “inutile strage” la Prima Guerra Mondiale, si prodigò fino all’ultimo per impedirlo, riprendendo gli sforzi di mediazione già compiuti dal Papa Leone XIII di fronte ai “funesti eventi” degli anni 1894-96”.

Il quella occasione nel corso della Messa celebrata nella Basilica di San Pietro da Papa Francesco, per celebrare solennemente il centenario. In quella occasione il Papa non usò mezzi termini, ma parlò di vero e proprio genocidio, il primo genocidio del ventesimo secolo. “La nostra umanità – queste le parole di Bergoglio rivolte al patriarca e al popolo armeno- ha vissuto nel secolo scorso tre grandi tragedie inaudite: la prima, quella che generalmente viene considerata come il primo genocidio del Ventesimo secolo; essa ha colpito il vostro popolo armeno, prima nazione cristiana”. Ed il patriarca armeno Karekin II aggiunse: “Noi siamo convinti che il riconoscimento universale del Genocidio degli Armeni, come un esempio importante di realizzazione della giustizia, della protezione dei diritti umani, contribuirà alla creazione di un mondo più sicuro e legittimo. In questo senso il 100° anniversario del Genocidio degli Armeni è un potente richiamo al mondo a non essere indifferenti di fronte ai patimenti e ai martiri odierni e a fare più sforzi per fermare le aggressioni ingiuste e per prevenire le violenze che temprano la gente nella sofferenza. Ecco il frutto che deve germogliare dalla radice del martirio”.

Poi la visita di Papa Francesco nel 2017 che fece affermare all’ambasciatore armeno, presso la Sanata Sede, Mikayel Minasyan: “Il papa in Armenia ci ha fatto uscire dal guscio del dolore”.

Dal 1965 molti Stati, tra i quali l’Italia, hanno riconosciuto ufficialmente il genocidio ed in occasione del centenario anche la Santa Sede per merito di Papa Francesco, che è stato molto vicino agli armeni anche nelle ultime tragiche vicende: “Seguo in questi giorni la drammatica situazione degli sfollati del Nagorno-Karabakh. Rinnovo il mio appello al dialogo tra l’Azerbaigian e l’Armenia, auspicando che i colloqui tra le parti, con il sostegno della comunità internazionale, favoriscano un accordo duraturo che ponga fine alla crisi umanitaria”. È stato l’appello del Papa, al termine dell’Angelus del primo ottobre scorso, in cui ha assicurato la sua preghiera per le vittime dell’esplosione di un deposito di carburante avvenuta nei pressi della città di Stepanakert nel Nagorno-Karabakh.

Le oltre centomila persone fuggite dalla regione del Caucaso verso l’Armenia sono state sempre al centro del pensiero del Pontefice dopo la recita dell’Angelus. Eppure per gli ultimi massacri siamo ripiombati nel muro del silenzio dell’Europa e del mondo occidentale, che piange tutti gli altri martirii giustamente, ma non quelli cristiani.

Ai nostri giorni, guerra e terrorismo stanno infatti, insanguinando il cuore dell’Europa, il Medio Oriente, l’Africa.

Un ruolo importante nella vicenda armena fu svolto per l’Italia proprio da Luigi Luzzatti, giurista, economista, presidente del Consiglio 1910-1911, Ministro degli Interni, Fondatore della Banca Popolare di Milano e del sistema delle Banche Popolari. Resta memorabile un suo discorso al Parlamento del 26/11/1918 proprio sugli armeni ed “Il Grande Male”.

Egli si dedicò a far rinascere nel popolo armeno la speranza di ritornare alla libertà e a richiamare su di loro l’attenzione italiana ed internazionale come tema centrale di moralità politica, cercando di superare l’ignavia delle grandi potenze. Il 4 dicembre 1923, tra le altre iniziative, accompagnò una delegazione Armena dal Capo del Governo di allora, che era Benito Mussolini. Egli interpretò, parlando con il Duce, il sentimento dei popoli perseguitati perché anche nel suo sangue scorreva l’eredità delle persecuzioni. Inoltre, allorché il 2 marzo del 1924, Sir Willonghby H. Dickinson, uno dei vice presidenti dell’Unione tra le Associazioni per la Società delle Nazioni, venne in Italia,

Luzzatti colse l’occasione per fargli notare che mai le minoranze erano state tanto calpestate come dopo l’istituzione della Società delle Nazioni. La Società delle Nazioni non assolveva, nel giudizio di Luzzatti, il proprio compito e la voce delle minoranze non giungeva utilmente fino ad essa. E gli chiese perché l’Inghilterra, che era il socio più importante della Società delle Nazioni, non intervenisse a difesa degli armeni con la forza dei suoi mezzi e del suo prestigio E perché non si impegnasse a trovare una casa agli armeni”. Inoltre Luzzatti dimostrando la “concretezza” ed “il saper fare”, di cui si accennava, avviò in provincia di Bari, una produzione di tappeti armeni a beneficio della colonia stessa affinché fosse autosufficiente per evitare che essi fossero costretti a ritornare nelle loro terre martoriate. Anche Mussolini concesse a Luigi Luzzatti 200.000 lire. Da questa attività, nacque l’ospitalità degli armeni nell’Italia Meridionale. A Milano creò una Spa per la commercializzazione. Parliamo di uno dei più importanti protagonisti della vita politica, economica e sociale italiana dell’Italia che, divenuto Stato Unitario da appena trenta anni, provava non senza difficoltà a diventare protagonista nello scenario geopolitico europeo di fine Ottocento.

Vai al sito

Che ne è dell’Artsakh? La serata a Breganzona sull’agonia dell’Artsakh, da cuore della civiltà armena, a terra desolata (Korazym 03 12.23)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 03.12.2023 – Vik van Brantegem] – Come abbiamo riferito, giovedì 23 novembre 2023 nell’Aula Magna del Liceo diocesano di Breganzona nella Svizzera italiana, i riflettori sono stati puntati sul dramma degli Armeni sfollati con la forza dall’Artsakh, e dimenticati da quasi tutti, già dimenticata l’Ucraina, distratti con Gaza e con gli occhi puntati sull’omicidio di Giulia. In attesa di dimenticare anche questi eventi.

Le forze armate azere il 19-20 settembre scorso hanno soggiogato completamente l’Artsakh, prendendo il controllo di un territorio che sulla carta, per diritto internazionale, dovrebbe stare nei confini azeri, alla faccia del diritto all’autodeterminazione della popolazione di etnia armena, che dall’inizio degli anni ‘90 si era autogovernata in quella regione. Gli Armeni dell’Artsakh sono stati sfollati con la forza da quella che per gli Armeni è il cuore della loro ultra millenaria civiltà.

Cos’è la pace vera, in mezzo a tutte queste guerre? Cosa vogliono dire i 2500 anni di storia armena dell’Artsakh per tutti noi? “L’Artsakh fu crocifisso come Cristo. Nulla succede per caso. Artsakh risorgerà come Cristo”: il tema al centro della conferenza dedicata all’Artsakh, che è stata organizzata dall’associazione “Germoglio”, con video-testimonianze di persone sfollate.

Renato Farina, Ilda Soldini, Padre Derenik e Teresa Mkhitaryan.

Inoltre, sono intervenuti Padre Derenik, l’ultimo uomo a lasciare l’Artsakh; Renato Farina, giornalista ed ex-parlamentare; Teresa Mkhitaryan, Presidente dell’Associazione “Germoglio”, con la moderazione della Dott.ssa Ilda Soldini, dell’Istituto di studi italiani dell’Università della Svizzera italiana.

La preghiera di inizio della conferenza, presieduta da Padre Derenik.

«Credo fermamente che al mondo ci sono persone per le quali la giustizia è un valore intangibile; credo ci siano Cristiani che credono che con la grazia di Dio, ci sarà la vittoria. Perché il nostro Dio è un Dio vittorioso. La nostra unica speranza è nell’unità, quando siamo uniti, siamo invincibili. Quelle terre sono armene e devono tornare di nuovo ad essere armene. Cristo è Dio vittorioso e ha donato Amore al mondo e quindi amiamoci l’un l’altro. L’Amore vincerà il mondo. E noi Cristiani abbiamo avuto la grazia di ricevere l’Amore in questo mondo. Amiamoci, rispettiamoci e il mondo sarà più bello. E a quel punto noi non piangeremo più di dolore, avremo lacrime di gioia» (Padre Derenik, di cui ricordiamo l’articolo del 6 novembre scorso: Non c’è libertà senza giustizia. Non c’è giustizia senza libertà [QUI]).

Di seguito riportiamo una breve relazione sulla conferenza del 23 ottobre scorsa dell’organizzatrice Teresa Mkhitaryan, con i tre video che sono le versioni integrali viste dal pubblico presente alla conferenza.

Inoltre, seguono i link ai videoregistrazioni degli interventi di Padre Derenik e di Renato Farina alla conferenza.

Le foto della conferenza sono di Marco Gianinazzi.

Artsakh
La Verità non è un punto di vista
La Speranza non delude mai
di Teresa Mkhitaryan

Grazie mille, grazie di cuore a tutti quelli che hanno partecipato fisicamente, o anche solo con il cuore alla conferenza. Un grazie speciale a tutti quelli che hanno aiutato ad organizzarla.

Sento nel cuore che questa storia avrà una continuazione, non so in che modo, mi farò sorprendere dal Signore. E poi, di solito tutto comincia dal Ticino, per me e per Germoglio.

Faccio seguire i link ai tre video di 5-7 min che abbiamo preparato per la conferenza dedicata all’Artsakh.

Video 1 – Germoglio – Suren Nersisyan – Terra sacra dell’Artsakh, luogo eterno per i Cristiani.

Nel primo video ci sono immagini dell’Artsakh, ne ho migliaia, ma il regista chiedeva in continuazione di ridurre il numero delle foto. Sono tutte molto belle ed evocative, è stato proprio difficile scegliere.

Artsakh è una terra sacra, è un paradiso della Cristianità Antica. In Artsakh si trovano alcune delle chiese con le origini più antiche dell’umanità. Gli apostoli di Gesù San Giuda Taddeo e San Bartolomeo sono venuti ad evangelizzare l’Armenia già dal primo secolo.

In Artsakh si trova il monastero di Amaras che è stato fondato nel quinto secolo dal grande santo armeno Mesrop Mashtotz, che ha inventato l’alfabeto armeno nel 405 per poter tradurre la Bibbia e ha aperto la prima scuola ad Amaras. Ed è proprio ad Amaras che è stata tradotta la prima Bibbia in lingua armena ed è stata fondata una scuola che ha formato i traduttori che poi hanno realizzato la traduzione in armeno di numerosi importanti manoscritti del mondo antico.

Tutte queste perle preziose – le chiese, i monasteri, i khachkar – che sono stati costruiti nei primi scoli della Cristianità, hanno un valore inestimabile non solo per gli Armeni, ma per tutti i Cristiani del mondo. Per i Cristiani e per tutti quelli che apprezzano la cultura, l’arte e la storia.

Adesso tutto questo patrimonio Cristiano è passato sotto il controllo dei Musulmani davanti gli occhi di tutto il mondo. In un passato non remoto, gli stessi Azeri/Turchi quando hanno avuto il controllo della regione di Nakhichevan, hanno polverizzato i monumenti Cristiani storici armeni, distrutto con i bulldozer [QUI].

E migliaia di ragazzi giovani hanno dato la loro vita per difendere le chiese, i monasteri, le donne e gli anziani.

Video 2 – Germoglio – Esodo armeno dall’Artsakh: pulizia etnica dopo cento anni dal genocidio. Il mai più è diventato ancora una volta.

Il secondo film è dedicato all’esodo, alla deportazione degli Armeni.

La Commissione Europea ha scritto che gli Armeni hanno “scelto di andarsene” (who have decided to flee). Ma la Verità non è un punto di vista, la Verità non dipende dalle opinioni. Anche se i più grandi, i più belli, i più famosi, i più istruiti, i più potenti dicessero che l’erba è blu o viola, l’erba non diventerebbe né blu, né viola. L’erba è verde. Chi cerca la verità, vedrà che l’erba è verde.

Video 3 – Iravaban.net – “Non auguro neanche a un Turco quello che è successo a noi”. La testimonianza di Lyudmila Haryan, profuga dall’Artsakh.

Il terzo film è la testimonianza di una profuga dall’Artsakh, la Signora Lyudmila Haryan. L’abbiamo tradotto in italiano.

Come la moderatrice Ida Soldini ha menzionato durante la conferenza, l’unico modo per sapere cosa succede davvero in un posto o un altro è ascoltare le testimonianze.

La verità è una cosa preziosa, le cose preziose non le offrono in televisione, la verità bisogna cercarla.

Ho tanta speranza che il mio popolo possa tornare nella sua terra sacra, dove le pietre parlano e raccontano tutto.

La Speranza non delude mai… Bisogna avere pazienza…

Grazie.

Teresa Mkhitaryan

Vai al sito

Roma, in mostra le fotografie di Ongaro, altissimo impatto emotivo nelle immagini dei profughi cristiani del Nagorno (Il Messaggero 02.12.23)

Sguardi smarriti, sgomenti, quasi persi nel vuoto, uomini e donne di ogni età sembrano quasi imbambolati e incapaci di comprendere. Bambini in fila con gli occhi sgranati in attesa di ricevere indumenti usati, file di anziani che stringono quello che potevano portare via stipato in una sacca di nylon aspettando di salire sul pullman che li porterà via per sempre dalle loro case del Nagorno Karabach, anziane infreddolite su una panchina prossime a lasciare il proprio appartamento a Stepanakert. L’obiettivo meticoloso del fotografo Nicolò Ongaro ha fissato per sempre i giorni della fuga forzata degli armeni dall’enclave contesa con l’Azerbaijan. Decine e decine di fotografie ad altissimo impatto emotivo che raccontano giorni poco conosciuti in occidente, scomparsi dai radar delle cronache perchè oscurati dalle drammatiche guerre in Ucraina e ora a Gaza.

Esercito di robot per sconfiggere la Russia, il piano dell’Ucraina con droni e armi autonome. Ma ci sono dei dubbi

Eppure Ongaro nella sequela di immagini in mostra alla Camera dei Deputati (Sala del Cenacolo, Complesso di Vicolo Valdina a piazza di Campo Marzio) è riuscito a fissare per sempre l’immane tragedia su una pellicola, raccontando ciò che ha travolto la piccola enclave cattolica da quando c’è stata la disfatta militare armena, costringendo un flusso di quasi 100 mila profughi lasciare il Nagorno per rifugiarsi a Yerevan, lasciandosi dietro tutto quello che avevano.

la fuga forzata degli Armeni dal Nagorno Karabakh nel 2023” ,è stata organizzata in collaborazione con il Gruppo parlamentare di amicizia Italia-Armenia e l’ Armenian General Benevolent Union Milan. All’evento hanno partecipato parlamentari italiani, giornalisti, rappresentanti dei think tank, rappresentanti della comunità armena e Giulio Centemero, il Presidente del Gruppo parlamentare di amicizia Italia-Armenia.

Vai al sito

Armenia-Azerbaijan: negoziati in stallo, incontri al confine (Osservatorio Balcani e Caucaso 01.12.23)

Mentre i negoziati tra Armenia e Azerbaijan sembrano essere in fase di stallo, le commissioni di frontiera di entrambe le parti si sono incontrate il 30 novembre. Incontro simbolico o reale volontà di progresso?

01/12/2023 –  Onnik James Krikorian

Il 30 novembre, Armenia e Azerbaijan hanno tenuto il quinto incontro delle rispettive commissioni di delimitazione e demarcazione dei confini, formate nel maggio dello scorso anno e guidate dai vice primi ministri di entrambi i paesi. Anche il primo e il quarto incontro si erano svolti al confine, con due incontri intermedi rispettivamente tenutisi a Mosca e Bruxelles. Nell’ultimo, a luglio, si è deciso di tenere tutti i futuri incontri al confine.

Tuttavia, si nutrivano poche aspettative riguardo a questo ultimo incontro. Mentre Armenia e Azerbaijan sembrano sempre più lontani sulla questione della normalizzazione delle relazioni, con un accordo inizialmente previsto alla fine dello scorso anno ancora sfuggente, i colloqui a livello superiore sembrano essersi arenati dopo un 2023 particolarmente catastrofico. Rimane il disaccordo su quali mappe dell’era sovietica utilizzare per delimitare il confine, nonché sulla questione delle enclavi.

C’è anche un’altra preoccupazione: che l’incontro delle commissioni per le frontiere non sia stato altro che simbolico.

Infatti, il presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliyev ora cerca di continuare i negoziati effettivi con la sua controparte armena, il primo ministro Nikol Pashinyan, ovunque tranne che a Bruxelles o Washington. Baku preferisce piuttosto continuarli all’interno della regione attraverso la poco conosciuta piattaforma 3+3 (2) o a Tbilisi. Nel frattempo, Yerevan accetterà solo piattaforme sostenute dall’Occidente, rafforzando allo stesso tempo le sue relazioni con l’Unione europea.

All’inizio di questo mese Baku ha anche annullato un incontro tra i due ministri degli Esteri previsto per il 20 novembre a Washington come continuazione dei colloqui bilaterali. Lo stesso giorno, Baku ha invitato Yerevan a tenere colloqui al confine o in un luogo “reciprocamente accettabile”. Il giorno successivo Yerevan ha replicato che soltanto le commissioni bilaterali per i confini potrebbero riunirsi proprio sul confine tra i due paesi. Più tardi quella sera, i media azerbaijani hanno riferito che Baku aveva accettato la nuova cornice.

Tuttavia, questo probabilmente non è quello che si sperava. Nello stesso momento in cui Yerevan ha annunciato i colloqui sul confine del 30 novembre, ha nuovamente affermato che i negoziati ad alto livello sarebbero continuati soltanto attraverso la piattaforma di Bruxelles facilitata dal Presidente del Consiglio europeo Charles Michel, cosa che l’Azerbaijan sembra riluttante ad accettare. Yerevan spera che basti la dichiarazione rilasciata a Granada senza il consenso di Baku.

Si assottiglia il tempo per un accordo per normalizzare le relazioni entro la fine dell’anno: anche se il potenziale per un compromesso ci sarebbe stato – in caso se la riunione della commissione per le frontiere fosse andata bene – sono sempre in meno a credere che ciò sia realmente possibile.

In seguito all’incontro, un comunicato stampa  rilasciato dal Ministero degli Affari Esteri azerbaijano affermava semplicemente che l’incontro aveva avuto luogo e aveva trattato solo “questioni organizzative e procedurali”.

È stato inoltre concordato di “intensificare le riunioni delle commissioni”, cosa già concordata  in un incontro tra il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente azerbaijano Ilham Aliyev a Bruxelles, subito dopo l’ultima riunione  delle commissioni sul confine, il 12 luglio scorso. Non è stata però ancora annunciata una data per il prossimo incontro.

Vai al sito

Un’altra Lepanto neanche per sogno, ma almeno smettere di armare gli azeri? (Tempi 01.12.23)

Notizie dai confini orientali della Repubblica d’Armenia, in Italia siamo in pochissimi a portarvele sui carretti, fresche fresche, appena colte, interessano? Mi pare di sentire la risposta che per buona educazione, per paura di essere sgradevoli con questo venditore di news caucasiche, non osate pronunciare: “Le sappiamo a memoria le vostre news. Ma sì, c’è un genocidio in corso, colpisce il popolo cristiano del Nagorno-Karabakh ad opera dell’alleanza turco-azera, e se non viene fermato travolgerà l’intera Armenia, coi suoi tre milioni di abitanti. Ma che ci possiamo fare? Volete un’altra guerra?”.

Queste frasi lo so che vi si rigirano nel cervello, ma vi vergognate anche solo a pensarlo, e ci date monetine di condiscendenza. Dai che lo so, come Molokano sono in odore di eresia, magari un “cristianista”, che sventola vessilli di una fede che non c’è più. Sperate solo per scomunicarmi – dai, ammettetelo – che proclami la necessità di una …

Vai al sito

C’è la Russia dietro la destabilizzazione tra Armenia e Azerbaigian. Parla Cirielli (Formiche.net 01.12.23)

Intervista al viceministro degli Esteri: “Questa vicenda è il fondamento della nostra postura internazionale: ricordo che noi stiamo aiutando militarmente l’Ucraina che si trova in una situazione esattamente speculare a questa. Roma è sempre stata in prima linea nel condannare il genocidio armeno da parte dei turchi-ottomani, ma gli azeri non c’entrano niente con quei fatti”

La vicenda in corso tra Azerbaigian e Armenia, spiega a Formiche.net il viceministro degli Esteri con delega al Caucaso, Edmondo Cirielli, è il fondamento della nostra postura internazionale: “Noi stiamo aiutando militarmente l’Ucraina che si trova in una situazione esattamente speculare a questa. Roma è sempre stata in prima linea nel condannare il genocidio armeno da parte dei turchi-ottomani, ma gli azeri non c’entrano niente con quei fatti”. E dopo la recente sentenza della Corte internazionale che ha riconfermato l’integrità territoriale dell’Azerbaigian sul Garabagh, è tempo che cambi anche la narrazione internazionale della disputa. “Per gli azeri il diritto internazionale è stato violato in maniera palese dalla guerra di aggressione mossa dall’Armenia”.

Nel giorno in cui sono ripresi i colloqui diplomatici tra Azerbaigian e Armenia l’europarlamentare del M5S Fabio Massimo Castaldo si è fatto promotore di una lettera inviata alla presidente della Commissione Europea, all’Alto Rappresentante Josep Borrell, e al presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, in cui si chiede di “prevenire una catastrofe umanitaria e garantire la sicurezza dell’Armenia e la prosperità nella regione del Caucaso meridionale”. Come commentarla?

Credo che questa azione sia intempestiva e rischi di danneggiare gli accordi di pace finora in corso, è il modo peggiore di operare e intromettersi a gamba tesa in vicende di cui si sa anche poco, sia sulla storia sia dal punto di vista dei rapporti internazionali. L’Europa e l’Italia in maniera particolare dovranno lavorare perché si crei un clima di distensione tra le due parti. Considero il premier armeno sicuramente il più illuminato degli ultimi anni e il primo che ha riconosciuto l’integrità territoriale dell’Azerbaigian, cosa sicuramente più volte affermata dalle Nazioni Unite in varie risoluzioni. Ma nessuno dei precedenti governi armeni filorussi aveva mai preso in considerazione questa valutazione.

Baku aveva più volte invocato una soluzione pacifica?

Bisogna dire che anche il presidente azero Ilham Aliyev ha cercato in questi tre anni una soluzione pacifica, dopo l’ultimo conflitto che aveva sostanzialmente visto vittoriose sul campo le truppe azere, che però in seguito si sono fermate, dando così la possibilità di trovare una soluzione pacifica alla questione. Purtroppo in Europa c’è stato anche chi ha sempre alimentato il revanscismo e il nazionalismo armeno, illudendo Yerevan su cose che poi oggettivamente non erano neanche previste dal diritto internazionale.

Quindi è possibile escludere la possibilità di un attacco azero, come emerge invece dalla lettera di Castaldo?

Non esiste alcuna valutazione, né politica né di natura militare, che può far pensare ad un’idea del genere, è proprio una follia. L’Azerbaigian non ha mai messo in campo azioni contro il territorio armeno, questo è anche un fatto notorio, testimoniato da commissioni indipendenti dell’Onu. Non è stato fatto nulla dalle truppe azere per provocare l’esodo, che poi effettivamente c’è stato ma da parte di secessionisti che hanno dato fiato a rappresaglie nate da un’idea alimentata da filorussi che nell’area sono molto forti. Con tale esodo hanno voluto creare un ulteriore motivo di tensione.

Come si inseriscono le pressioni dei big players esterni? L’Armenia, dopo anni di vicinanza alla Russia, sembra voler guardare all’Occidente adesso.

Premetto che Aliyev ha escluso categoricamente una qualsiasi iniziativa azera contro i trattati internazionali. È una persona molto pragmatica e certamente sa bene che un attacco all’Armenia sarebbe non solo un atto folle, senza alcun interesse militare strategico, ma oltretutto contrario alla postura che paradossalmente l’Azerbaigian ha sempre avuto in questi trent’anni in cui l’Armenia ha occupato non soltanto il Garabagh ma anche due zone cuscinetto più grandi del Garabagh stesso, abitate prima da azeri che poi, invece, sono stati esclusi da quelle terre. Ciononostante, per trent’anni l’Azerbaigian ha sempre cercato di far valere tutte le sue posizioni di fronte alle corti internazionali nelle sedi multilaterali. Tale occupazione è stata esercitata dall’Armenia sotto la protezione dell’Armata Rossa. Di contro, non dimentichiamo che il premier armeno Pashinyan è stato eletto tutte e due le volte con una chiara polemica nei confronti della Russia e questo è un passaggio che ci fa guardare in maniera positiva al senso delle istituzioni e alla voglia di fare bene del popolo armeno. Il tema vero è che esiste una classe dirigente ancora molto nazionalista e ci sono ambienti esterni all’Armenia che mirano a destabilizzare il Caucaso: ovvero la Russia. Ma non è tutto.

Ovvero?

Vi sono anche le potenti comunità armene che vivono fuori dall’Armenia che magari non sono realmente a conoscenza dei problemi e dello stato attuale, e vagheggiano anche per motivazioni umanamente comprensibili, perché sono figli e discendenti della diaspora armena, ma con una visione molto nazionalista e sciovinista. Ricordo che l’Italia è sempre stata in prima linea nel condannare il genocidio armeno da parte dei turchi-ottomani, ma gli azeri non c’entrano niente col genocidio e non possono pagare colpe di altri solo perché sono di religione musulmana. Peraltro sappiamo bene che l’Azerbaigian è uno dei paesi più laici e tolleranti del mondo musulmano: è un loro tratto distintivo. Per cui sforziamoci di non usare la religione come elemento di contrasto tra i popoli.

Lo scorso 17 novembre la Corte Internazionale di Giustizia ha riconfermato l’integrità territoriale dell’Azerbaigian sul Garabagh: è questo un buon punto di partenza, nel solco del diritto internazionale, per iniziare a parlare in modo diverso di questo problema?

Questa vicenda è il fondamento della nostra postura internazionale: ricordo che il governo Meloni sta aiutando militarmente l’Ucraina che si trova in una situazione esattamente speculare a questa. La Russia ha fatto una guerra contro l’Ucraina con la scusa di proteggere i russi che, a loro dire, venivano discriminati dal governo ucraino. La guerra tra Armenia e Azerbaijan è scoppiata perché l’Armenia, con l’appoggio dell’Armata Rossa, ha conquistato il Garabagh, territorio azero, oltre a due zone cuscinetto abitate da soli azeri. Quindi noi come facciamo a sostenere la causa armena quando poi sosteniamo la causa ucraina? Certamente non lo potremmo fare e sarebbe grave se dipendesse da un fatto meramente religioso. C’è una simpatia per gli armeni, per la vergogna che hanno subito nel corso della loro storia, ma di cui gli azeri non hanno alcuna responsabilità.

Quale la posizione dell’Italia?

Noi abbiamo sempre condannato il genocidio armeno con chiarezza, sia come partito che anche personalmente, assieme a tutto quello che è accaduto agli armeni ma, ripeto, che per gli azeri il diritto internazionale è stato violato in maniera palese dalla guerra di aggressione mossa dall’Armenia e che è durata trent’anni. Indirettamente lo ha riconosciuto anche l’Armenia, perché avrebbe potuto risolvere diversamente e più favorevolmente le tensioni. Invece questa ottusità dei vecchi governi armeni filo russi ha prodotto un atteggiamento di chiusura assoluta contro le relazioni internazionali, ma anche contro i tentativi dell’Azerbaigian di risolvere questa vicenda sulla base delle risoluzioni Onu. Oggi la vicenda si è conclusa sul piano militare e credo che qualunque altro Stato forse non avrebbe aspettato trent’anni per risolvere un’occupazione armata: immagini se noi in Alto Adige avessimo avuto un’occupazione armata di sedicenti separatisti altoatesini con l’appoggio dell’esercito, di volontari o piuttosto dell’esercito austriaco. Non penso che sarebbe durata trent’anni. Siamo una nazione democratica e pacifica che ripudia la guerra.

Quale il ruolo che riveste diplomaticamente l’Italia in quella macro area?

Sono convinto che l’Italia possa giocare un ruolo importante su questo. Ma se si continuerà a dipingere gli azeri come coloro che hanno usato la forza contro gli armeni, non si aiuterà la pace. Il modo migliore è avviare una stagione di distensione come sta facendo da tempo la Georgia: nonostante sia un paese cristiano, è al tempo stesso un partner privilegiato per l’Azerbaigian e come l’Italia ha un ruolo di grande capacità di mediazione, perché ha sempre difeso le ragioni giuridiche e internazionali dell’Azerbaigian. Sembra strano che proprio l’Italia, che è un campione della legalità internazionale e di principi dell’Onu, non debba sostenere questa linea.

Vai al sito

Armeni. La persecuzione in Nagorno Karabakh (Doppiozero 30.11.23)

Il sabato le strade di Yerevan sono ancora più affollate del solito. Mentre aspetto Yulia Antonyan davanti al mio albergo osservo le auto che ingorgano il viale Sayat Nova e la gente che va a passeggio o che torna a casa con le buste della spesa. Ho detto a Yulia, antropologa all’università statale di Yerevan, che avrei voluto approfittare del mio soggiorno per incontrare dei rifugiati del Nagorno Karabakh (Artsakh in armeno). Lo scorso settembre, dopo che l’Azerbaijan con un’azione militare lampo ha occupato l’intero Artsakh, tutta la popolazione armena della regione, più di 120.000 persone, temendo di essere massacrata dagli azeri, ha lascito precipitosamente le proprie case e ha trovato rifugio nella Repubblica di Armenia. La minaccia di genocidio era stata agitata da Elchin Amirbayov, rappresentante del presidente azero, all’inizio di settembre. Il governo e i media azeri conducono da anni una campagna di odio e di disumanizzazione nei confronti degli armeni, chiamandoli cani e parassiti. 

Prima di sferrare l’offensiva del 19 settembre, gli Azeri, mentre i peacekeepers russi inviati da Putin stavano a guardare, hanno chiuso per nove mesi l’unico corridoio che univa l’Artsakh all’Armenia impedendo l’arrivo di carburante, gas, cibo, medicine alla popolazione stremata. 

La pulizia etnica dell’Artsakh e la migrazione forzata della sua popolazione armena non hanno suscitato molto interesse in Italia e in Europa. 

Ma ecco Yulia che sbuca dall’angolo di via Abovyan. Una sua collega dell’università dell’Artsakh ha accettato di incontrarmi. Andiamo a prenderla all’appartamento che un amico le ha messo a disposizione. Molti rifugiati vivono ancora in stanze d’albergo o sono stati sistemati in piccoli centri di provincia. Il governo armeno elargisce sussidi per permettere loro di pagare gli affitti, che da quando la Russia ha invaso l’Ucraina sono esplosi in seguito all’arrivo di molti fuoriusciti russi. Yulia ha preferito darle appuntamento sotto casa perché la collega ha ancora difficoltà ad orientarsi a Yerevan e si perde spesso. Si chiama Nuné Arakelyan e prima di fuggire insegnava filologia e letteratura russa all’università di Stepanakert, la capitale dell’autoproclamata repubblica dell’Artsakh, ora dissolta. Tra di loro Nuné e Yulia preferiscono parlare russo: per gli armeni d’Armenia il dialetto dell’Artsakh non è facile da capire, soprattutto se parlato velocemente. Non avendo io e Nuné nessuna lingua in comune, Yulia farà da interprete. 

Ci sediamo per pranzare in un ristorante in Martiros Saryan. A inizio novembre le giornate sono ancora calde a Yerevan perciò ci accomodiamo a una tavola all’esterno. Sul marciapiede c’è un gran viavai. Nuné vuole solo un caffè. Dobbiamo insistere perché ordini un bicchiere di vino e qualcosa da mangiare. L’intervista può cominciare.

Cosa pensa che sia importante che gli italiani sappiano dell’Artsakh?

La repubblica armena d’Artsakh non è mai stata riconosciuta ufficialmente da nessuno stato. Fin dalla sua nascita nel 1991 abbiamo cercato di costruire un paese basato su uno stile di vita europeo. Benché cercassimo, malgrado tutti i problemi e tutti i limiti, di costruire un paese fondato su valori europei, siamo stati lasciati soli. Nessuno in Europa sembra aver apprezzato i nostri sforzi. Noi armeni abbiamo preservato per secoli la visione cristiana del mondo in questa regione circondata da paesi musulmani come la Turchia, l’Azerbaijan e l’Iran. È duro constatare che non abbiamo ricevuto nessun sostegno da parte dei cristiani in Europa. In questi giorni vediamo quanto appoggio e solidarietà ricevono i palestinesi da tutto il mondo musulmano. Il contrasto con il disinteresse per quanto subiscono i cristiani dell’Artsakh è grande. La popolazione armena dell’Arstakh era di 150.000 persone di contro ai sei milioni di azeri. Tutto quello che abbiamo fatto lo abbiamo fatto con il solo scopo di difenderci.

m

Secondo lei perché la causa armena suscita meno simpatia di altre cause, ad esempio quella palestinese?

La ragione è ovvia. Mentre noi parlavamo dei comuni valori cristiani e europei, gli azeri hanno comprato con i soldi del loro gas l’appoggio degli europei. Persino il Vaticano riceve finanziamenti dall’Azerbaijan. La fondazione Heydar Aliyev, che è guidata dalla moglie del presidente azero, Mehriban Aliyeva, finanzia da anni il restauro delle catacombe di Roma. E mentre gli armeni in Artsakh venivano uccisi, il Papa ha molto timidamente fatto un appello per la pace e il cessate il fuoco, come se armeni e azeri fossero sullo stesso piano, come se si trattasse di una guerra simmetrica.

Come potrebbe del resto l’Europa prendere posizione contro l’Azerbaijan con cui meno di un anno fa ha concluso accordi per il raddoppiamento delle forniture di gas? L’Azerbaijan è il secondo fornitore di gas per l’Italia. Il gas azero arriva in Puglia attraverso il TAP e viene impiegato per produrre poco meno della metà dell’energia elettrica delle nostre centrali. Trattative per vendere armi italiane all’Azerbaijan sono in corso da anni. Il ministro della difesa Crosetto si è recato in visita ufficiale a Baku nel gennaio del 2023, mentre gli azeri affamavano la popolazione dell’Artsakh con il blocco del corridoio di Lachin.  Crosetto ha discusso con Aliyev “temi di comune interesse nel settore della difesa ed energetico (…) ha incontrato, inoltre, il Ministro della Difesa Colonel General Zakir Hasanov con il quale ha firmato un protocollo d’intenti sulla cooperazione nel campo della formazione e dell’istruzione delle Forze Armate” (così si legge sul sito del ministero della difesa). 

Come è stata la vita in Artsakh durante gli ultimi tre anni, dopo la guerra dei 44 giorni del 2020?

Un ghetto. È stato come vivere in un ghetto controllato dagli azeri, dai turchi e dai russi. Siamo stati privati della nostra identità. Non sapevamo più chi fossimo. I termini Karabakh e Artsakh sono stati progressivamente eliminati dal vocabolario. L’Artsakh era diventato semplicemente “la zona dei peacekeepers russi”. Le nostre vite erano costantemente minacciate dai cecchini azeri. I contadini non potevano andare a lavorare nei campi. Tre contadini sono stati uccisi dagli azeri mentre si recavano al lavoro senza che i soldati russi intervenissero. Se sconfinavi anche solo di un metro venivi ucciso. Ma la linea di confine non era chiara. Solo l’arbitrio dei soldati azeri stabiliva se avevi oltrepassato la frontiera. All’epoca in cui Erdogan ha visitato Shushì, i soldati russi hanno assunto tre lavoratori armeni per riparare la rete idrica nei dintorni della città. Degli azeri incaricati della sicurezza hanno aperto il fuoco su di loro. Uno dei tre, un ragazzo di 22 anni, è stato ucciso, gli altri feriti.

Come erano le relazioni tra la popolazione e le forze di interposizione russe?

All’inizio i rapporti erano relativamente buoni. L’Artsakh è sempre stata tradizionalmente una regione filorussa. I soldati mostravano un atteggiamento amichevole e cercavano di tranquillizzare la popolazione. A chi chiedeva: “Siamo sicuri?” rispondevano sorridendo che finché c’erano loro non dovevano temere per la nostra sicurezza. Poi hanno cominciato a mettere gigantografie di Putin per le strade. Hanno cercato di introdurre i valori russi e l’ideologia russa. Per esempio ci hanno costretto a dimenticare le nostre guerre passate e a celebrare la grande guerra patriottica e gli eroi russi della seconda guerra mondiale. Quando gli azeri hanno visto che tra soldati russi e popolazione armena c’erano buone relazioni, hanno cominciato a protestare. Dopo le proteste i soldati russi sono scomparsi. Durante i nove mesi del blocco non si sono visti soldati russi a Stepanakert o in altri luoghi. Se ne sono rimasti chiusi nelle loro basi. L’errore che abbiamo commesso in questi trent’anni è stato di fidarci dei russi, di affidare a loro la nostra protezione, di pensare che la soluzione sarebbe venuta con il negoziato e non con le armi.

Il cambiamento dell’atteggiamento russo ha avuto a che fare con l’inizio della guerra in Ucraina? 

Non lo so. Di certo abbiamo capito da subito che il conflitto russo-ucraino avrebbe avuto un impatto negativo sulla situazione in Arstakh. Ho molti parenti in Ucraina. Alla preoccupazione per la nostra situazione si aggiungeva quella per la situazione dei nostri parenti laggiù. E a loro volta loro si preoccupavano per noi.

,

In quanto specialista di filologia russa non trova difficile occuparsi di cultura russa in questa situazione?

Amo la letteratura russa, amo la Russia di Pushkin e Dostoevskij. Non amo la Russia di Putin.

Anch’io amo la letteratura russa, amo i poeti russi. Prima di venire qui ho riletto il Viaggio in Armenia di Mandel’štam.

Conosci la poesia “Il cocchiere”? Mandel’štam l’ha scritta proprio in Arstakh nel 1930, mentre andava da Shushì a Stepanakert in carrozza. A Shushì lui e la moglie Nadežda avevano visitato la parte armena della città che ancora portava le tracce degli incendi e delle distruzioni dei pogrom antiarmeni di dieci anni prima. Le quarantamila finestre morte di cui parla la poesia sono quelle delle case degli armeni. Guardando i volti degli azeri il poeta si chiede se tra di loro ci siano gli assassini responsabili dei massacri. Non volle trattenersi in quella atmosfera lugubre e opprimente che gli ricordava la Russia. Nel cocchiere azero che lo riportava a Stepanakert Mandel’štam riconosce un messo infernale, un bracciante del diavolo, il simbolo di chi tiene in mano il nostro destino, di chi dispone della nostra vita e della nostra morte.

E tra i clacson delle auto, il rombo delle motociclette, gli strilli dei bambini, il vociare dei passanti Nuné si mette a recitare a memoria in russo una strofa della poesia di Mandel’štam. 

Così, nel Nagornyj Karabach,
nel rapace paese di Šuša,
conobbi io questi terrori
connaturati all’anima.

(Traduzione di Serena Vitale in Osip Mandel’štam, Viaggio in Armenia, a c. di S. Vitale, Adelphi, Milano 1988, p. 172).

Nel novembre del 2020, quando era chiaro che Shushì sarebbe stata ripresa dagli azeri, andai come volontaria per aiutare la popolazione armena ad evacuare la città e rifugiarsi a Stepanakert. Mi ritrovai a camminare per le strade deserte di Shushì e a recitare ad alta voce con tutto il fiato che avevo questi versi di Mandel’štam.

Restiamo tutti e tre a lungo in silenzio. Non è facile riprendere la conversazione. Vorrei sapere come ha vissuto durante il blocco, ma non voglio essere importuno e costringerla a rievocare situazioni troppo dolorose. In realtà non c’è bisogno di chiedere. Nuné spezza un altro boccone di pane e prosegue.

Da quando sono arrivata a Yerevan non faccio altro che mangiare. Mi abbuffo di pane. Durante il blocco non c’era cibo. Il pane era introvabile. I contadini non potevano mietere i campi. Circolava un pane cattivo, fatto non con la farina. Ognuno poteva ottenerne 200 grammi con la tessera annonaria. Bisognava fare lunghe file per ottenerlo. Ci si iscriveva il giorno prima attorno a mezzanotte, poi si tornava verso le tre del mattino per confermare l’iscrizione e solo la mattina il pane, se ce n’era, veniva distribuito. I soldati russi hanno trovato il modo di fare soldi con il mercato nero. Vendevano un pacchetto di sigarette iraniane che normalmente costa 1000 dram per 50.000 dram. C’era penuria di tutto: niente gas per riscaldare le case, carburante per le auto, medicine per i malati. La gente moriva in casa perché non poteva essere trasportata in ambulanza all’ospedale. Tutto mi sembra ancora così irreale, come se fosse successo in un sogno.

Siamo interrotti da una anziana mendicante che ci chiede dei soldi. Nuné apre la sua borsetta e porge alla donna un biglietto di mille dram. Yulia è indignata con la mendicante: “Ma come? Lo sai che questa signora viene dall’Arstakh e che ha perso tutto? Come osi chiederle del denaro?” La mendicante si allontana a testa bassa.

Come sono stati accolti i rifugiati in Armenia?

Molto bene. Per nove mesi non siamo stati trattati come esseri umani né da parte degli azeri che ci hanno terrorizzato né da parte dei soldati russi che ci hanno ingannato e derubato. Quando abbiamo messo piede in Armenia abbiamo ritrovato la nostra umanità. Alla frontiera c’erano persone che distribuivano cibo, acqua e medicine, che proponevano alloggi. I miei studenti si sono potuti iscrivere nelle università di Yerevan e sono stati esonerati dalle tasse di iscrizione.

Come vede il futuro? Pensa sia possibile mantenere la specificità culturale dell’Artaskh vivendo in Armenia?

Viviamo tutti nella speranza di ritornare un giorno. Aspettiamo un cambiamento della situazione geopolitica. Si potrebbe pensare a una soluzione del tipo di quella trovata in Kossovo tra la maggioranza albanese e la minoranza serba. Certo, se non dovessimo tornare, ci integreremo nella società armena e la nostra specificità culturale inevitabilmente andrà perduta. Ma non voglio pensare a questo ora. In questo momento la cosa più importante non è mantenere il nostro dialetto o le nostre tradizioni. È meglio tornare e parlare l’armeno letterario più puro a Stepanakert che continuare a parlare il dialetto dell’Artsakh a Yerevan. La cosa più importante è mantenere la presenza armena in Artsakh. È la prima volta nella millenaria storia armena che l’Arstakh non è armeno. È la prima volta che il monastero di Gandzasar, fondato nel XIV secolo, non è in mani armene.

m

Il patrimonio monumentale armeno dell’Artsakh è in pericolo?

La storiografia ufficiale azera considera tutti i monumenti cristiani dell’Artsakh come “albaniani” e non armeni. Questo falso mito storiografico potrebbe paradossalmente salvare i monumenti armeni. Certo, gli azeri cancellano tutte le iscrizioni armene, distruggono i cimiteri.

Passa un’auto della polizia. Il poliziotto aziona la sirena e dice qualcosa all’altoparlante in direzione di un autista che ha commesso un’infrazione. Nuné ha un sussulto. La sirena le ricorda il suono di quelle che annunciavano i bombardamenti aerei su Stepanakert. Ora non sopporta nessun rumore troppo forte. 

Nessuno ha il diritto nel XXI secolo di deportare un’intera popolazione dalla propria patria, di cacciarla dalle proprie case, di distruggere le tombe dei suoi antenati. Spero che i tribunali e le organizzazioni internazionali ristabiliranno la giustizia. Abbiamo scritto centinaia di lettere alle organizzazioni internazionali, governative e non governative, all’UNICEF, a Greenpeace e ad altre organizzazioni ecologiste. Durante il blocco anche gli animali hanno sofferto per mancanza di cibo. È importante che non solo le ONG e gli organismi internazionali siano informati, ma anche l’opinione pubblica europea sappia cosa è successo. Vogliamo tornare a casa. Anche se l’Armenia è in qualche modo la nostra madrepatria e ci ha ben accolti, vogliamo comunque tornare a casa. Si sa che i soldati russi e quelli azeri stanno depredando le nostre case e portano via tutti i beni che abbiamo lasciato. Le nuove generazioni non potranno utilizzare gli oggetti fabbricati dai loro antenati, gli oggetti posseduti e tramandati dalle loro famiglie. Ho lasciato a Stepanakert tutti i miei libri. Spero solo che i russi e gli azeri siano troppo pigri per salire fino al quarto piano dove si trova il mio appartamento.

Prima di alzarci da tavola brindiamo un’ultima volta alla pace e alla possibilità di ritorno per Nuné e per tutti i rifugiati dell’Artsakh. La riaccompagniamo a casa. Ci fermiamo davanti al palazzo delle poste. Nuné ci dice che spesso ha questa fantasia, di tornare di nascosto a Stepanakert e di chiudersi in un rifugio segreto, come il protagonista del film di Polanski, The Pianist. Poi accennando un sorriso dice:

Sapete? Quando abbiamo capito che avremmo dovuto lasciare la casa e tutte le nostre cose, ci siamo scolati tutte le buone bottiglie di vino che avevamo tenuto per le grandi occasioni. Non volevamo lasciarle in mano ai russi e agli azeri. Quando sono scappata da Baku nel 1990 non c’è stato tempo nemmeno per questo. La fuga è stata ancora più precipitosa. Siamo miracolosamente fuggiti con un taxi mentre la folla tutt’attorno gridava “Morte agli armeni! Morte agli armeni!”. Sento ancora quelle grida. Ritornano nei miei sogni.

Siamo arrivati alla casa dove vive. Stringo la mano a questa donna che per due volte nella sua vita ha dovuto fuggire, che per due volte ha lasciato tutto dietro di sé. Penso al taxista che l’ha guidata fuori da Baku e mi chiedo se aveva anche lui il “volto bruciato, di uva passa” come quello del cocchiere di Mandel’štam.

Vai al sito

A Roma inaugurata la mostra fotografica: “Artsakh. la fuga forzata degli Armeni dal Nagorno Karabakh nel 2023” (LabParlamento 30.11.23)

Il 28 novembre 2023, alla Camera dei Deputati, è stata inaugurata la mostra fotografica del fotografo Niccolò Ongaro “Artsakh. la fuga forzata degli Armeni dal Nagorno Karabakh nel 2023” , organizzata in collaborazione con il Gruppo parlamentare di amicizia Italia-Armenia e l’ Armenian General Benevolent Union Milan.

All’evento hanno partecipato parlamentari italiani, giornalisti, rappresentanti dei think tank, rappresentanti della comunità armena.

Sono intervenuti Giulio Centemero, il Presidente del Gruppo parlamentare di amicizia Italia-Armenia, l’Ambasciatore Tsovinar Hambardzumyan, Gayane Khodaverdi, Capo ufficio AGBU di Milano, il fotografo Nicolo Ongaro, il presidente dell’associazione ManAlive Gianmarco Oddo. Nel suo discorso, l’Ambasciatore Tsovinar Hambardzumyan ha presentato in dettaglio gli ultimi sviluppi intorno all’Artsakh, dal blocco alla pulizia etnica degli armeni.

L’ingresso alla mostra sarà aperta dal 28 al 30 novembre dalle 11:00 alle 19:00.

Vai al sito