Alla scoperta dell’arte armena: un convegno e una mostra fotografica in ateneo (uniud.it 30.11.23)

“All’ombra dell’Ararat” venerdì 1° e sabato 2 dicembre a Palazzo di Toppo Wassermann a Udine

Il monastero di Khor Virap affacciato sul monte Ararat

Arricchire e aggiornare le conoscenze sul patrimonio artistico armeno, sulla storia della letteratura di viaggio come fonte per la storia dell’arte armena e sull’evoluzione dei rapporti interculturali tra Armeni e altri popoli, con un occhio di riguardo per quello italiano. Questi sono gli obiettivi del convegno e della mostra fotografica organizzati venerdì 1° e sabato 2 dicembre a palazzo Toppo Wassermann a Udine dal dipartimento di Studi Umanistici e del Patrimonio Culturale dell’Università di Udine in collaborazione con la National Academy of Science of the Republic of Armenia – Institute of Arts.

L’ARTE ARMENA. Per lo più sconosciuta al grande pubblico, l’arte armena rappresenta un patrimonio dell’umanità di cui una minuscola parte è sopravvissuta a millenni di guerre e genocidi. Molti monumenti, chiese, monasteri, villaggi e città sono giunti sino a noi solo attraverso le fonti scritte, altri giacciono in stato di abbandono fuori dai confini dell’odierna Repubblica d’Armenia. Se in Iran siti di interesse storico armeni sono stati oggetto di restauri e valorizzazioni, più grave è la situazione di quelli in Turchia e Azerbaigian. In particolare, nelle regioni di Naxiǰevan (in azero, Naxçıvan) e Arcʿax (in azero, Nagorno-Karabakh) numerosi monumenti armeni sono stati oggetto di distruzioni sistematiche dovute alla propaganda anti-armena del governo azero. Dopo la Guerra dei 44 giorni del 2020, la situazione resta precaria e con essa la sorte dei siti armeni coinvolti.

In un contesto tanto disagiato, descrizioni e racconti di viaggiatori europei che calcarono le rotte carovaniere dalla Russia e dall’Europa verso la Persia costituiscono una miniera d’oro di informazioni sull’aspetto dell’Armenia medievale e moderna. La letteratura di viaggio prodotta attraverso i secoli da viaggiatori-scrittori rappresenta una fonte preziosa per la conoscenza di eredità artistiche oggi in pericolo, se non del tutto scomparse. L’uso di tale letteratura in ambito storico e archeologico è noto per i grandi centri dell’Antichità greco-romana ed egizia, meno per aree periferiche del Vicino Oriente, come l’Armenia. Basti pensare al fatto che non esista un’antologia critica aggiornata di fonti europee sull’Armenia storica”.

IL CONVEGNOVenerdì 1° dicembre alle 16, il convegno “All’ombra dell’Ararat. L’arte armena nella letteratura odeporica (XIII-XXI secolo)” inizierà con i saluti del rettore Roberto Pinton, dell’ambasciatrice plenipotenziaria della Repubblica d’Armenia in Italia Tsovinar Hambardzumyan, della direttrice del Dipartimento di Studi umanistici e del patrimonio culturale dell’Università di Udine Linda Borean e della direttrice della Scuola di Specializzazione in Beni Storico-artistici dell’Università di Udine Claudia Bolgia.

I lavori saranno articolati in tre sessioni. Si inizierà con una tavola rotonda sui rapporti armeno-italiani nel corso dei secoli, compresi progetti di ricerca presenti e futuri tra istituzioni culturali armene, italiane e internazionali. La seconda sessione sarà dedicata alle testimonianze dei viaggiatori europei che percorsero i territori armeni per i motivi più disparati, in un arco temporale che va dal periodo medievale alle soglie della contemporaneità. Infine la terza sessione darà spazio a narrazioni legate a media e linguaggi audiovisivi per testimoniare lo stato di conservazione dei monumenti dell’Armenia storica. Complice lo sviluppo del turismo, infatti, gli ultimi decenni hanno messo in luce la preponderanza dell’immagine e delle nuove tecnologie come mezzi narrativi, spesso al posto della scrittura di cui un tempo erano soltanto un’integrazione.

Al convegno parteciperanno specialisti di fama internazionale e giovani ricercatori provenienti da università e istituti di ricerca italiani, armeni ed esteri. Interverranno venti studiosi, di cui otto di nazionalità armena, cinque dei quali appartenenti alla delegazione dell’Institute of Arts della National Academy of Sciences of the Republic of Armenia, che ha iniziato una collaborazione attiva con il Dipartimento di Studi umanistici e del patrimonio culturale dell’ateneo friulano per la promozione dello studio e della valorizzazione delle culture artistiche armena e italiana.

LA MOSTRA FOTOGRAFICA. In occasione del convegno, sabato 2 dicembre alle 14 negli spazi del velario di Palazzo Toppo Wassermann a Udine sarà inaugurata la mostra fotografica “Dipinti murali nelle chiese armene del VII-XIII secolo” relativa alle recenti campagne di restauro condotte sulle pitture monumentali di alcune chiese armene medievali dall’architetto Paolo Arà Zarian e dalla restauratrice Christine Lamoureux.

I curatori presenteranno i lavori svolti con una breve conferenza nell’aula Pasolini, dialogando poi con il pubblico negli spazi di allestimento della mostra, che comprende 27 pannelli fotografici a colori con riproduzioni in alta definizione, che illustrano le vicende delle pitture murali delle chiese di S. Stefano a Lmbatavankʿ (VII secolo), di S. Segno a Hałbat (XIII secolo) e del monastero di Dadivankʿ (XIII secolo). La storia di ciascun sito è illustrata da pannelli esplicativi e il percorso di visita è arricchito da filmati, carte geografiche, pubblicazioni e dall’esposizione di pigmenti minerali e strumenti usati dai pittori armeni nel Medioevo. La mostra sarà visitabile fino 20 dicembre, tutti i giorni dalle 9 alle 19 a ingresso è libero.

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Le commissioni di delimitazione del confine tra Azerbajgian e Armenia hanno tenuto una riunione (Korazym 30.11.23)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 30.11.2023 – Vik van Brantegem] – Oggi 30 novembre 2023, si è tenuta la quinta riunione della Commissione di Stato per la delimitazione del confine di Stato tra la Repubblica di Azerbajgian e la Repubblica di Armenia (azera) e della Commissione per la delimitazione del confine di Stato e la sicurezza dei confini tra la Repubblica di Armenia e la Repubblica di Azerbajgian (armena).

La riunione si è svolta al confine tra provincia di Tavush di Armenia e il distretto di Qazax di Azerbaigian, sotto la presidenza del Vice Primo Ministro della Repubblica di Azerbajgian, Shahin Mustafayev, e del Vice Primo Ministro della Repubblica di Armenia, Mher Grigoryan, ha riferito l’agenzia di stampa statale azera APA. È stato osservato che le parti hanno discusso diverse questioni organizzative e procedurali e hanno proseguito la discussione sulle questioni di delimitazione. Le parti hanno raggiunto un primo accordo sul testo del regolamento sull’organizzazione e lo svolgimento di riunioni di lavoro congiunte tra le commissioni. Le parti hanno concordato di avviare i lavori sulla negoziazione del progetto di regolamento sulle attività congiunte delle commissioni. Le parti inoltre hanno concordato per intensificare le riunioni delle commissioni e hanno concordato di determinare la data e il luogo della prossima riunione delle commissioni.

Chiasso TV, la Web Tv del Ticino e della Svizzera in lingua italiana ha pubblicato la testimonianza di Padre Derenik alla conferenza organizzata dall’Associazione “Germoglio” lo scorso giovedì 23 novembre 2023 nell’Aula Magna del Liceo diocesano in via Lucino 79 a Breganzona, Lugano, Svizzera.

Una domanda a scelta multipla in un libro di testo in Azerbajgian:
«Cosa intendi per “Armenianesimo”?
1. Brutalità mascherata da “povera” e “miserabile”.
2. Condannare il “genocidio Khojali”.
3. Mostrare cura e attenzione ad ogni persona.
4. Uccidere anche un bambino non ancora nato.
A) 1,4 B) 2,3 C) 1,2 D) 2,4».
Riuscite ad immaginare il livello di indottrinamento armenofobico?

«Mi sono imbattuto in queste due immagini generate dall’intelligenza artificiale su internet quasi contemporaneamente. Presumo che siano stati creati da rispettivamente nazionalisti Azeri e Armeni.
Nella prima immagine, si vede una folla enorme di Azeri entrare a “Zangezur” (la regione di Syunik di Armenia) portando bandiere azere e russe.
Ilham Aliyev ha recentemente dichiarato: “Torneremo a Zangezur, non con i carri armati, ma con veicoli civili”. Nell’immagine sono visibili, oltre alle bandiere e alle persone, anche i veicoli civili. Sembra che questo sia esattamente il modo in cui i nazionalisti Azeri immaginano l’adempimento della promessa del loro presidente. Le bandiere azere sventolano sulle pareti ad arco adornate con motivi dell’architettura azera a “Zangezur”. In altre parole, i creatori di questa immagine considerano “Zangezur” come una parte del territorio dell’Azerbajgian, che deve essere occupato. Questi Azeri credono che il territorio sovrano dell’Armenia, “Zangezur” (la regione di Syunik), appartenga all’Azerbajgian. È interessante che anche l’intelligenza artificiale riconosca che la Russia sosterrebbe la conquista della regione armena di Syunik da parte dell’Azerbajgian. Altrimenti la bandiera russa non sarebbe stata presente tra la folla azera.
Presumo che la seconda immagine sia stata creata da nazionalisti Armeni che sventolano la bandiera armena sulle mura della città di Van, in Turchia. Inoltre, la parola “Van” è scritta in armeno. Ciò può anche essere interpretato come una rivendicazione territoriale nei confronti dello Stato confinante. Naturalmente, i nazionalisti Armeni potrebbero produrre immagini di Armeni che sorseggiano il tè a Baku o che tengono una parata militare nelle strade della capitale dell’Azerbajgian.
Non ho intenzione di impedire ai nazionalisti Armeni e Azeri di fantasticare di “occupare le loro terre storiche”. Voglio semplicemente sottolineare il loro distacco dalla realtà. Tali “sogni” sono tipicamente prevalenti durante l’adolescenza di una persona. Tuttavia, man mano che le persone perseguono un’istruzione superiore e acquisiscono una comprensione più completa del mondo, devono maturare e accettare la realtà così com’è. Armenia e Azerbajgian sono stati riconosciuti a livello internazionale con confini e territori stabiliti, che non possono essere modificati. Eventuali aspirazioni espansionistiche costituiscono rivendicazioni territoriali illegali nei confronti dello Stato confinante.
Entrambe le parti mi criticheranno per aver tentato di soffocare i loro sogni. Il problema, tuttavia, è che questa mentalità ignorante perpetua un ciclo di guerre e sofferenze senza fine per entrambi i popoli. È imperativo abbandonare la pratica di affermare rivendicazioni territoriali basate sulla “giustizia storica”. Dobbiamo invece abbracciare un percorso verso la convivenza pacifica. L’inimicizia secolare deve cessare.
Vladimir Putin attualmente sta “liberando le terre storiche della Russia”. Ma si comporta in modo giusto quando distrugge un intero stato, nega il diritto di esistenza della nazione ucraina e dello stato ucraino e provoca la morte di decine di migliaia di persone su entrambi i fronti? L’orribile guerra di Putin dimostra che le persone infettate dal sogno di una “giustizia storica” e dal disprezzo del diritto internazionale portano solo sfortuna a se stessi e alle nazioni vicine.
Generali e gruppi nazionalisti armeni sognavano di bere il tè a Baku dopo la vittoria della parte armena nella guerra del 1991. Oggi, il Presidente Aliyev dell’Azerbajgian sogna di rivendicare l’”Azerbajgian occidentale” (il territorio dell’attuale Armenia) dopo la vittoria della parte azera nella guerra.
È tempo di fermarsi e iniziare a vivere come Stati pacifici. Cosa hanno guadagnato il popolo armeno e quello azero da questo conflitto durato 35 anni: sangue, decine di migliaia di morti? Oggi la sfiducia tra i nostri popoli è profonda. Basta avvelenare le menti diffondendo sentimenti aggressivi e ostili. Armeni e Azeri possono collaborare e condurre affari congiunti negli USA o nell’Unione Europea, ma iniziano ad uccidersi a vicenda quando raggiungono il confine armeno-azerbajgiano. Perché? Perché il clima politico favorisce l’animosità e la violenza. Nelle nostre nazioni, chiunque si opponga all’occupazione e alla distruzione degli Stati vicini è etichettato come “traditore e antinazionale”. Questa è una malattia che richiede un trattamento. Le élite politiche svolgono un ruolo cruciale nel preparare le due società a una pace autentica. Dobbiamo abbandonare il linguaggio dell’odio e della violenza. Dobbiamo smettere di glorificare la guerra, gli spargimenti di sangue e gli omicidi.
Suppongo che i nazionalisti Armeni e Azeri si impegneranno in un dibattito e si scambieranno accuse su chi di noi è stato più crudele, ha commesso più reati e chi è l’occupante e l’istigatore della guerra sotto questo aspetto. Non mi impegnerò in un discorso del genere. Sii guarito!» (Robert Ananyan – Nostra traduzione italiana dall’inglese).

«Una dipendente del sito web “Abzas Media” è stata arrestata. Nargiz Absalamova, dipendente del sito web “Abzas Media”, è stata arrestata. L’APA riferisce che è stata accusata secondo l’articolo 206.3.2 (contrabbando di gruppo) del codice penale. L’impiegato del servizio stampa del Ministero degli Interni, Ibrahim Amiraslanli, ha confermato all’APA la detenzione di Nargiz Absalamova e ha detto che è in corso un’indagine. Va notato che il 21 novembre il direttore di “Abzas Media” Ulvi Hasanli e il suo caporedattore Sevinj Vagifqizi, nonché il 23 novembre il vicedirettore Mahammad Kekalov, sono stati arrestati con l’accusa di contrabbando di gruppo».

In Azerbajgian è stata arrestata una terza giornalista di Abzas Media con l’accusa di contrabbando di valuta estera, perché avrebbe ricevuto finanziamenti dall’USAID. Delle recenti misure repressive contro Abzas Media Kanal 13 abbiamo riferito [QUI].

«Come giornalista Armeno, esprimo la mia incrollabile solidarietà e il fermo sostegno ai giornalisti indipendenti Ulvi Hasanli, Sevinj Vagifgez e Aziz Orujev, che stanno affrontando una implacabile persecuzione politica nel vicino Azerbajgian. Estendo inoltre il mio incrollabile sostegno all’attivista politico Muhammed Kekalov. Queste persone, insieme ad Abzas Media e Kanal 13, rappresentano un simbolo di resilienza e coraggio di fronte all’oppressione.
I reporter di Abzas Media, Nargiz Absalamova e Sahila Aslanova continuano a mantenere lo status di testimoni, un duro promemoria delle continue ingiustizie che devono affrontare. Mi addolora profondamente assistere all’incessante persecuzione dei miei colleghi Azerbajgiani da parte del regime dittatoriale di Ilham Aliyev, che cerca di mettere a tacere le loro voci e soffocare la loro ricerca della verità.
Anche l’Armenia ha attraversato periodi di oscurità, segnati dalla chiusura dei media indipendenti e dall’incarcerazione e brutalizzazione dei giornalisti liberi. Ho sperimentato personalmente la dura morsa dell’autoritarismo e comprendo pienamente le difficoltà e le sofferenze sopportate dai miei colleghi Azeri. Condivido il loro dolore e invito con tutto il cuore il mondo democratico a esercitare la massima pressione sul regime di Aliyev per porre fine a questa abominevole persecuzione della libertà di parola.
Nel 2017, durante il governo del terzo presidente dell’Armenia, stavo seguendo le azioni del gruppo Sasna Tsrer, che aveva occupato una stazione di polizia a Yerevan. Ho subito ferite a causa della brutalità della polizia e sono stato ricoverato in ospedale per circa dieci giorni. Frammenti di granate rimangono conficcati nella mia pelle, servendo come costante promemoria del mio incrollabile impegno nel sostenere i principi del giornalismo onesto e nel sostenere i miei colleghi giornalisti, ovunque si trovino.
L’Armenia è riuscita a uscire dalle grinfie del duro totalitarismo e si sta impegnando attivamente per costruire una società democratica. Come rappresentante dei media liberi, posso attestare con sicurezza il ruolo cruciale dei media indipendenti nel promuovere la democratizzazione. I media che sostengono gli ideali democratici, difendono i diritti umani e aderiscono ai valori giornalistici occidentali fungono da potente catalizzatore per il progresso democratico.
Il panorama dei media armeno sta vivendo una trasformazione positiva. Oggi, i media liberi stanno effettivamente responsabilizzando il governo e promuovendo una governance trasparente. I media armeni svolgono un ruolo fondamentale nello stimolare il dibattito pubblico sulle azioni problematiche delle forze politiche e nel galvanizzare una forte risposta pubblica ai fenomeni negativi.
In netto contrasto, l’Azerbajgian arresta e reprime sistematicamente i rappresentanti dei media indipendenti sulla base di accuse inventate. Abzas Media ha coraggiosamente intrapreso un’indagine sulle attività corrotte del Presidente azerbajgiano, Ilham Aliyev, e del suo entourage.
Diversi Paesi occidentali, tra cui gli Stati Uniti, e importanti organizzazioni per i diritti umani hanno espresso la loro disapprovazione per l’arresto dei giornalisti che hanno osato denunciare la corruzione legata al Presidente Aliyev e ai suoi subordinati. Anche l’Occidente ha sollevato serie preoccupazioni sulla legittimità delle accuse contro questi giornalisti.
In una conversazione registrata con il suo avvocato, il capo detenuto di Abzas Media, Ulvi Hasanli, ha rivelato che la polizia lo ha interrogato sulla mancanza di attenzione di Abzas Media nel glorificare le vittorie militari di Baku e sulla sua decisione di indagare invece sulla corruzione. Questo palese tentativo di controllare la narrazione e mettere a tacere le voci critiche è un segno distintivo di un regime dittatoriale, dove l’elogio del dittatore è obbligatorio e qualsiasi dissenso viene rapidamente punito.
Baku ha accusato senza fondamento diversi Paesi occidentali, compresi gli Stati Uniti, di finanziare illegalmente i media azeri e di interferire negli affari interni del Paese. Oggi, gli incaricati d’affari di Stati Uniti e Germania, insieme all’Ambasciatore francese, sono stati convocati al Ministero degli Esteri dell’Azerbajgian, dove i funzionari Azeri hanno lanciato accuse contro l’Occidente, hanno avuto accesi scambi e hanno lanciato una serie di avvertimenti.
L’Occidente deve riconoscere che le tendenze dittatoriali di Ilham Aliyev rispecchiano quelle di Vladimir Putin, che ha anche represso spietatamente i media indipendenti in Russia. A Putin vengono imposte dure sanzioni, lo stesso deve essere applicato al sanguinario dittatore Aliyev. Ai regimi dittatoriali che saccheggiano le risorse del proprio Stato non deve essere permesso di nascondere le proprie azioni in segreto e di negare la verità al proprio popolo.
È sorprendente che sia Aliyev che Putin reprimano la libertà dei media e imprigionino i giornalisti, giustificando queste azioni con il pretesto di dichiarare guerra ad un nemico straniero. Quest’ultima ondata di pressione sui media indipendenti in Azerbajgian è stata preceduta da un rapporto speciale del principale portavoce della propaganda del paese, AzTV, che sostanzialmente dichiarava il lancio di una campagna contro una “rete di spionaggio” americana in Azerbajgian. “Ora l’Azerbajgian, per consolidare i suoi successi militari, deve contrastare le politiche anti-Azerbajgiane degli Stati Uniti, che mirano a penetrare nel Caucaso meridionale”, ha affermato il rapporto della televisione statale dell’Azerbajgian.
Resto fiducioso che un giorno l’Azerbajgian abbraccerà la democrazia e garantirà il rilascio di tutti i prigionieri politici, compresi giornalisti e membri dell’opposizione. La democrazia ha il potenziale per fungere da forza unificante, promuovendo la pace e l’armonia autentiche nel Caucaso meridionale. Crediamo che questi tempi non siano lontani» (Robert Ananyan – Nostra traduzione italiana dall’inglese).

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Vescovi europei, “annunciare il Vangelo in un’Europa sempre più tentata da secolarismo e nazionalismi populisti” (SIR 30.11.23)

Si è conclusa a Malta l’Assemblea plenaria del Ccee che ha riunito dal 27 al 30 novembre i presidenti delle Conferenze episcopali europee. “I vescovi europei – si legge nel comunicato finale – hanno guardato con preoccupazione agli scenari di guerra: quella in Ucraina che è giunta al suo secondo anno, la situazione in “Nagorno Karabakh” e il conflitto in Terrasanta, ribadendo il no alla guerra e rinnovando l’appello per un cessate il fuoco definitivo, perché si prosegua con la liberazione degli ostaggi e si tengano aperti i corridoi umanitari a Gaza”.

Malta, Assemblea plenaria del Ccee (Foto Ccee)

(da Malta) “Annunciare in un’Europa sempre più tentata da secolarismo, fondamentalismo e nazionalismi populisti, la gioia del Vangelo che scaturisce dall’incontro con Cristo”. E’ l’evangelizzazione la “sfida più grande” della Chiesa nel continente europeo e a sottolinearlo sono i presidenti delle Conferenze episcopali europee nel comunicato finale diffuso oggi al termine dell’Assemblea Plenaria del Ccee. “I vescovi europei – si legge nel comunicato – hanno, anche, guardato con preoccupazione agli scenari di guerra: quella in Ucraina che è giunta al suo secondo anno, la situazione in “Nagorno Karabakh” e il conflitto in Terrasanta, ribadendo il no alla guerra e rinnovando l’appello per un cessate il fuoco definitivo, perché si prosegua con la liberazione degli ostaggi e si tengano aperti i corridoi umanitari a Gaza”. Era stato l’arcivescovo Gintaras Grušas, presidente del Ccee a delineare in apertura dei lavori alcune delle sfide del continente, mettendo in luce anche “l’impegno delle Chiese europee nella lotta agli abusi, ribadendo il dovere di contrastarli con azioni concrete ed efficaci di prevenzione”. Tra le sfide sono state indicate anche “la difesa della vita e della dignità umana, il protagonismo dei giovani, le nuove ondate migratorie, la persecuzione nascosta dei cristiani in Europa e le nuove frontiere dell’intelligenza artificiale”.

“Quello che ci preoccupano di più sono le guerre, sia in Ucraina sia in Terra Santa sia in altri posti”, racconta al Sir, il presidente del Ccee, mons. Gintaras Grušas, a conclusione dell’assemblea.“Non siamo preoccupati solo noi. Tutto il mondo sta guardando con apprensione quanto sta accadendo. Il Papa parla spesso della guerra invitando alla preghiera, alla necessità del miracolo della pace. Dal punto di vista umano, non si vede via di uscita”.Di fronte a questo “stallo” politico ma anche esistenziale, mons. Grušas ripropone oggi il messaggio di San Giovanni Paolo II: “E’ Gesù la speranza dell’Europa”. E spiega: “Se cerchiamo i risultati solo a livello umano, vediamo solo la croce che portiamo. Dobbiamo alzare gli occhi al Signore. È Lui la pace, la speranza, la consolazione, soprattutto in questo momento di sofferenza”. Guerre, crisi economica, questione migratoria. “Sono tante le sfide che abbiamo di fronte in Europa e proprio per questo dobbiamo aiutare la nostra gente a guardare in alto. È questo sguardo che ha salvato tante persone nei campi di concentramento della Seconda Guerra Mondiale in Germania e poi nei campi sovietici. Anche in quelle situazioni miserabili, c’è stato chi è riuscito ad alzare lo sguardo al cielo e avere una visione più ampia delle difficoltà di ogni giorno. Lo possiamo fare anche noi oggi”. Ma per farlo, l’Europa deve riappropriarsi di nuovo della fede cristiana. Mons. Grušas lo ammette: “L’altra preoccupazione è l’evangelizzazione del continente. Nella storia, l’Europa è stata la culla della cristianità e ha inviato missionari dappertutto. Adesso abbiamo bisogno di missionari nei nostri Paesi. In Africa, in altre parti del mondo, in Asia in particolare, la Chiesa sta crescendo mentre da noi stiamo diminuendo e questo ci chiede una missione di evangelizzazione”.

Al termine dell’Assemblea Plenaria dei presidenti delle Conferenze episcopali europee, all’unanimità, i vescovi hanno deliberato il trasferimento della sede del Ccee da San Gallo (Svizzera) a Roma nel corso del 2024. E’ quanto fa sapere il Ccee nel comunicato finale diffuso oggi, al termine dell’Assemblea plenaria che si è svolta a Malta dal 27 al 30 novembre. I vescovi hanno espresso “gratitudine alla Chiesa svizzera, e in particolare alla diocesi di san Gallo, per l’accoglienza e la generosità con cui hanno accompagnato il lavoro del Segretariato del Ccee in tutti questi anni”. I membri del Ccee hanno anche prorogato, per un altro anno, il mandato del Rev. Martin Michaliček come segretario generale del Ccee, incarico a cui è stato chiamato nel 2018. La prossima assemblea plenaria si terrà a Belgrado dal 24 al 27 giugno 2024, su invito dell’arcivescovo Ladislav Nemet, Vice Presidente del Ccee.

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Nerses Shnorhali, convegno per riscoprire il santo armeno pioniere dell’ecumenismo (VaticanNews 29.11.23)

Ricorre quest’anno l’850 mo anniversario della morte di una delle figure più illustri della Chiesa Armena, San Nerses Shnorhali, soprannome, quest’ultimo – “Shnorhali” – che alla lettera significa “pieno di grazia” o “il grazioso”. Lo avevano attribuito al santo i suoi contemporanei per le qualità ireniche degli scritti, poi divenne l’appellativo distintivo della sua straordinaria personalità umana, religiosa e mistica. Tanto che l’anniversario della morte di Nerses Shnorhali (1173) è stato inserito nel calendario Unesco 2023 degli anniversari di personaggi famosi e di eventi importanti.

Pioniere del dialogo

Pioniere nell’arte della musica e della poesia e teologo di spicco dell’Oriente Cristiano, San Nerses ha lasciato epistole, omelie e preghiere in prosa, ha composto il testo e la melodia di quasi 1200 tra inni (šarakan), odi e canti liturgici. Divenuto Catholicos (dal 1166 al 1173) con il nome di Nerses IV, fu anche una figura di rilievo internazionale nel dialogo tra le Chiese Cristiane. La sua apertura ecumenica, unita all’approccio umano e pacifista nelle controversie del tempo, è stata un modello di diplomazia efficace che può servire da insegnamento anche oggi nella soluzione dei conflitti religiosi ed etnici.

L’appuntamento a Roma

A questa importante figura il Pontificio Istituto Orientale ha dedicato un Convegno Internazionale che si svolgerà il 30 novembre e il 1° dicembre. “Plenitude of Grace, Plenitude of Humanity: St Nerses Shnorhali at the Juncture of Millennia” è il titolo dell’appuntamento che sarà inaugurato dal prefetto del Dicastero per le Chiese Orientali, il cardinale Claudio Gugerotti, insieme ad importanti personaggi della Chiesa armena e studiosi di fama internazionale.

Un San Francesco o un San Bernardo della Chiesa orientale

“È un’occasione per indagare su una personalità sfaccettata, nonché un personaggio con una grande levatura letteraria, importante per la letteratura armena”, sottolinea a Vatican News il professor Marco Bais, tra i curatori del convegno.  “Lo ricordiamo anche per la sua grande statura morale perché viene ricordato da tutta una serie di opere che ne narrano la vita e le opere, un po’ come accade per il nostro San Francesco che viene ricordato con i tratti dell’umiltà e della dedizione per i poveri in racconti e aneddoti accostati ai Fioretti dello stesso Santo”.

Anche San Nerses Shnorhali “ha avuto questi tratti di umiltà e di dedizione per i poveri” e li ha mantenuti anche una volta giunto al vertice della sua Chiesa, sottolinea Bais: “Ha saputo unire una grande finezza di analisi teologica ad una grande capacità di guida politica della sua Chiesa e per questa sua attenzione e capacità è stato paragonato all’altro grande santo medievale, San Bernardo di Chiaravalle”.

L’apertura ecumenica nell’opera e nel pensiero

Di grande valore, poi, l’apertura e la valenza ecumenica dell’opera e del pensiero di Shnorhali. “Abbiamo un’idea molto chiara – spiega il professore – di quale fosse la sua visione del rapporto che doveva esistere tra le varie Chiese e del modo in cui doveva svolgersi il dialogo. Lo sappiamo grazie alle lettere scambiate con l’imperatore di Bisanzio e con il Patriarca di Costantinopoli. Da queste lettere emerge il desiderio di attuare questo dialogo, questo confronto tra le Chiese cristiane basandosi su alcuni capisaldi quali la carità, la preghiera, perché l’unione, diceva, viene dall’Alto e quindi bisogna pregare costantemente Dio perché ce la conceda”. Allo stesso tempo il santo era convinto che “bisogna partire da un piano di parità tra gli interlocutori”, come egli stesso scrive all’imperatore, così da “poter discutere in maniera equa”.

Numerosi relatori

La spinta ecumenica sarà sicuramente uno dei temi al centro delle riflessioni dei relatori durante il convegno: “Ma – spiega Bais – parleremo anche dei suoi componimenti letterari in altri ambiti, per esempio della musica liturgica. Parleremo del contesto storico in cui è vissuto e anche del suo interesse per l’agiografia perché tradusse la vita di tanti santi”. Insomma, un convegno dalle varie sfaccettature come sfaccettata è stata l’opera, la vita e la personalità di San Nerses. Per approfondire ogni aspetto sono stati invitati diversi esperti dall’Armenia ma anche dall’Italia, dagli Stati Uniti e da diverse parti del mondo.

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Gli sforzi del popolo armeno per promuovere una cultura di pace nel rispetto dei diritti umani (InTerris 29.11.23)

Lo scorso 11 novembre abbiamo pubblicato sulla nostra testata un’intervista realizzata dal professor Daniel Pommier dal titolo L’ambasciatore dell’Azerbaigian a Interris.it: “A Roma per parlare di pace”. Riceviamo e pubblichiamo la richiesta di replica da Garen Nazarian, Ambasciatore dell’Armenia presso la Santa Sede. 

La replica dell’Ambasciatore Garen Nazarian

Spett.le Redazione, Egregio Sig. Pommier,

Ho molto apprezzato la disponibilità a presentare punti di vista diversi sugli ultimi sviluppi nel Caucaso meridionale, come evidenziato dalla vostra intervista dell’11 novembre scorso al signor Amirbayov, inviato speciale dell’Azerbaijan e vorrei, a mia volta, raccontare brevemente quanto sta facendo l’Armenia per garantire stabilità e sicurezza nella regione.

Il blocco di 10 mesi del Nagorno-Karabakh da parte dell’Azerbaijan, la crisi umanitaria, la mancanza di cibo, medicine, gas ed elettricità e, come culmine, l’offensiva militare su larga scala e l’attacco indiscriminato a civili e infrastrutture hanno portato all’esodo forzato e alla pulizia etnica dell’intera popolazione autoctona armena del Nagorno-Karabakh, costretta ad abbandonare le proprie case, le proprie chiese e un patrimonio culturale e religioso millenario.

Al momento l’Armenia deve far fronte al massiccio afflusso di oltre 100.000 rifugiati dal Nagorno-Karabakh – tra cui 30.000 bambini – che in pochi giorni hanno lasciato la terra dei loro avi per paura di persecuzioni e violenze. Il governo armeno, in collaborazione con organizzazioni e partner internazionali, ha adottato una serie di misure per rispondere alle esigenze dei rifugiati in termini di sussistenza, protezione e recupero.

Non di meno fondamentale è la conservazione dell’eredità cristiana lasciata in Nagorno-Karabakh e la sua protezione da atti vandalici e saccheggi. Già dall’autunno del 2020 la Repubblica d’Armenia continua ad allertare la comunità internazionale sulla politica di distruzione, profanazione e appropriazione del vasto patrimonio religioso e culturale all’interno e nei dintorni del Nagorno-Karabakh, messa in atto dall’Azerbaijan. Ricordiamo che le misure provvisorie giuridicamente vincolanti emesse dalla Corte internazionale di giustizia il 7 dicembre 2021 obbligano l’Azerbaijan ad “adottare tutte le misure necessarie per prevenire e punire atti di vandalismo e profanazione del patrimonio culturale armeno, inclusi ma non limitati a chiese e altri luoghi di culto, monumenti, punti di riferimento, cimiteri e manufatti”.

L’Armenia sostiene incessantemente gli sforzi internazionali per promuovere una cultura di pace e tolleranza, nel pieno rispetto e nella promozione dei diritti umani in tutta la regione. Solo con la partecipazione attiva dei partner internazionali e l’impegno dell’Azerbaijan nei confronti dei principi del diritto internazionale e di una futura convivenza, sarà possibile raggiungere la pace nella regione.

La nostra posizione sul processo di normalizzazione delle relazioni Armenia-Azerbaijan e sulla riaffermazione dell’impegno dell’Armenia nell’agenda di pace è stata ampiamente espressa nella Dichiarazione Quadrilatera adottata il mese scorso a Granada dai leader di Armenia, Francia, Germania e dal Consiglio Europeo. Infine, per il futuro della regione è importante escludere l’uso o la minaccia della forza e attuare programmi come il “Crocevia della Pace” sviluppato dal governo armeno.

Garen Nazarian, Ambasciatore dell’Armenia presso la Santa Sede

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Un webinar della Conferenza delle chiese europee si concentra sulla necessità di sicurezza e protezione per le comunità religiose (Riforma.it 29.11.23)

Nel mezzo delle crescenti tensioni e conflitti in Europa e altrove, i relatori di un webinar organizzato dalla Conferenza delle Chiese europee (Kek) hanno messo a fuoco la necessità di sicurezza e protezione per le comunità religiose e di protezione anche dei luoghi di culto che sono sotto attacco.

Il webinar si è tenuto il 23 novembre, come parte dell’iniziativa “Pathways to Peace” della Kek, in occasione del 10° anniversario della Summer School sui diritti umani, ed è stato moderato da Kieryn Wurts dell’Unione battista europea.

I relatori hanno condiviso le esperienze del progetto “Safer and Stronger Communities in Europe” (Sasce), portato avanti dalla Kek insieme ai suoi partner cristiani, musulmani ed ebrei, implementando misure per aumentare la sicurezza e la protezione dei luoghi di culto.

Condividendo esempi dall’Ucraina, dall’Artsakh, dalla Repubblica del Nagorno Karabakh, dal Kosovo, da Cipro e recentemente da Gaza, la dott.ssa Elizabeta Kitanovic, responsabile del programma Kek per l’advocacy e il dialogo, ha evidenziato la difficile situazione delle chiese e di altri luoghi religiosi che sono stati distrutti.

«Centinaia di edifici religiosi sono stati danneggiati e saccheggiati a seguito dell’invasione russa. Gli edifici religiosi sono stati sequestrati per fungere da basi militari russe, aumentando la distruzione dei siti religiosi in Ucraina, secondo il Rapporto sulla libertà religiosa internazionale».

Kitanovic ha proseguito affermando che «si tratta di una violazione dei diritti umani fondamentali e della libertà religiosa. Una tendenza che sottolinea l’importanza di progetti come Sasce».

Ron Eichhorn, ex presidente dell’Unione Buddista Europea, ha condiviso il modo in cui la Sasce ha sensibilizzato sulle minacce ai monasteri buddisti in Europa e su come prepararsi e reagire alla crisi. «Sasce ha messo in piedi una progettualità che continuerà a lungo». Eichhorn ha aggiunto che le guerre in Ucraina e Gaza stanno mostrando la crescente necessità di consapevolezza e misure di sicurezza.

Iman Atta, Ceo di “Faith Matters UK”, ha attirato l’attenzione sul conflitto in Medio Oriente e sul suo impatto sull’Europa. Ha riflettuto sui «ponti che sono stati recentemente rotti tra le comunità a causa della rabbia e del dolore» innescati dal conflitto. Ha sottolineato come l’antisemitismo, l’islamofobia e l’odio contro le chiese cristiane costituiscano una minaccia reale nell’attuale contesto. «È davvero importante per noi come comunità religiose tendere la mano gli uni agli altri. Fare piccoli passi e chiedere quale aiuto è necessario, per assicurarsi che siamo tutti al sicuro e protetti insieme».

Ophir Revach, Ceo del “Security and Crisis Center” (Sacc) dell'”European Jewish Congress”, ha parlato dell’importanza del progetto Sasce e del ruolo che ha svolto nel ridurre al minimo i rischi e nella gestione delle crisi. «È importante e cruciale per tutti noi come cittadini avere una buona cooperazione con le forze dell’ordine. La consapevolezza della sicurezza tra i membri della comunità può aiutare molto», ha affermat

UNA NUOVA SINFONIA DI VARTAN 1 E 2 DICEMBRE AL TEATRO GHIONE IN OCCASIONE SOLENNE CELEBRAZIONE IN S.PIETRO CON PAPA FRANCESO

A Roma la prima esecuzione assoluta della Settima Sinfonia di Haig Vartan

in occasione della solenne liturgia in San Pietro celebrata da Papa Francesco

per l’850° anniversario della morte di San Nerses Shnorhali

 

Venerdì 1 e sabato 2 dicembre 2023 alle 19.00 si terrà al Teatro Ghione (via delle Fornaci 37, Roma) la prima esecuzione mondiale della Settima Sinfonia “Voghp – Lamento”, scritta dal compositore svizzero-armeno Haig Vartan occasione dell’850° anniversario della morte di San Nerses Shnorhali (San Narsete il Grazioso). I due concerti, entrambi con lo stesso programma, saranno eseguiti dall’Orchestra Roma Sinfonietta diretta dall’armeno-siriano Missak Baghboudarian e dalla mezzosoprano italiana Lucia Napoli, che canterà in lingua armena.

Come le altre composizioni di Haig Vartan, questa sinfonia, si ispira sia alla grande tradizione musicale europea sia alla cultura orientale. La sua musica, posta al crocevia tra questi due mondi, combina la razionalità occidentale e il misticismo orientale, trasmettendo una grande forza spirituale.

Vartan ha composto la sua Settima Sinfonia basandosi sul poema “Lamento su Edessa” di San Nerses Shnorhali (1102-1173), che è stato il cattolico degli Armeni (ovvero il capo della Chiesa armena) e un eccezionale teologo e poeta. La prima esecuzione di questa Sinfonia avverrà proprio in concomitanza con le celebrazioni dell’anniversario di San Nerses Shnorhali, l’apice delle quali sarà la Liturgia Ecumenica presieduta da Papa Francesco nella basilica di San Pietro il prossimo 2 dicembre.

Il Vaticano nel 2023 ricorda anche con un francobollo questa famosa personalità della Chiesa armena. San Nerses Shnorhali è stato inoltre inserito nel calendario UNESCO 2022-2023, che commemora eventi storici e anniversari di personalità eminenti.

Nello stesso concerto sono in programma quattro altre composizioni di Haig Vartan e precisamente Epitaphe e Aram per violoncello solo, eseguiti dal violoncellista Luca Pincini, i Tre Lieder eseguiti dal mezzosoprano Lucia Napoli e dal pianista Antonello Maio, e il Quartetto per archi n. 4 “Gomidas”, eseguito da Alessandro Marini, Anna Chukina, Antonio Bossone e Luca Pincini.

Svizzero di origine armena Haig Vartan ha studiato composizione a Basilea, Budapest, Parigi, Sofia e Venezia. Da quaranta anni compone e tiene concerti in Europa e in Armenia. Nel 1995 ha ottenuto il premio UNESCO per la sua opera Prométhée XII. Dal 2022 ha iniziato a collaborare con l’orchestra Roma Sinfonietta.

L’elenco delle sue opere è disponibile su haigvartan.com/oeuvre/

Molti suoi concerti sono disponibili su youtube.com/user/HaigVartan/videos

 

Biglietti: euro 17,00; ridotti per over 65 e under 26 euro 13,00. Acquistabili anche su www.ticketone.it

 

Per informazioni:

Roma Sinfonietta: tel. 06 3236104 – email: romasinfonietta@libero.it

Teatro Ghione: tel. 06 6372294 – email: info@teatroghione.it

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Dopo il Nagorno-Karabakh è la volta dell’Armenia? (Oasicenter 28.11.23)

Venuto meno il tradizionale legame con Mosca, Erevan si è trovata sola di fronte a un Azerbaigian che negli ultimi anni ha raggiunto un’enorme superiorità economica, presto divenuta anche militare. Oggi è necessario che la sicurezza dell’Armenia, non più fornita dalla Russia, sia garantita in forma nuova

Ultimo aggiornamento: 28/11/2023 10:59:18

La lunga contesa tra Armenia e Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh si è conclusa nella sostanziale indifferenza della comunità internazionale, la cui attenzione principale è rivolta al perdurante conflitto russo-ucraino e alla ripresa devastante di quello israelo-palestinese. Eppure, la sorte di questa regione, che ha avuto un ruolo quanto mai importante nella storia dell’Armenia[1], meriterebbe maggiore attenzione, in primo luogo per la sua tragica irreversibilità. Abitato in larga maggioranza da armeni, ma collocato negli anni ’20 all’interno dell’Azerbaigian dalle autorità sovietiche[2], dopo il crollo dell’URSS il Nagorno-Karabakh riuscì con una guerra vittoriosa a rendersi indipendente de facto nel 1994, occupando anche alcuni territori circostanti etnicamente azeri. Si creò così una repubblica indipendente, non riconosciuta peraltro a livello internazionale, che riprese l’antica denominazione armena della regione, Artsakh[3].

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In questo conflitto si sono scontrati due principi giuridici, quello dell’integrità territoriale degli Stati e quello dell’autodeterminazione dei popoli. Confidando nella protezione di Mosca, alla cui sfera politica, economica e di sicurezza Erevan è rimasta a lungo vicina (entrando anche a far parte dell’alleanza militare a guida russa, la CSTO), gli armeni non hanno accettato una soluzione di compromesso alla quale il Gruppo di Minsk dell’OSCE ha lavorato invano per decenni. Un’intransigenza condivisa dagli azeri, che però in tutto questo tempo hanno sfruttato appieno le notevoli risorse energetiche del loro Paese per conseguire una enorme superiorità economica, presto divenuta anche militare. La questione irrisolta del Nagorno-Karabakh ha pesato notevolmente sull’Armenia, che per circa vent’anni ha visto al potere politici provenienti da questa regione contesa, prima Robert Kocharyan e poi Serzh Sargsyan[4].

 

Il forte legame con Mosca ha costituito per decenni una garanzia di sicurezza per l’Armenia nei confronti dei suoi vicini ostili: l’Azerbaigian, ma anche la Turchia, erede dell’Impero ottomano, che perpetrò nel 1915 il genocidio degli armeni, mai riconosciuto da Ankara. Il momento di svolta della decennale contesa per il Nagorno-Karabakh deve essere visto nella cosiddetta “rivoluzione di velluto” del 2018, che ha portato al potere in Armenia un nuovo leader, Nikol Pashinyan, meno legato alla tradizionale alleanza con la Russia e rivolto piuttosto verso l’Occidente[5]. La modalità stessa, «dal basso», del cambiamento politico in Armenia è stata poco apprezzata dal Cremlino. La diffidenza nei confronti del nuovo corso di Erevan può spiegare anche l’atteggiamento della Russia in occasione del conflitto scatenato il 27 settembre 2020 dall’Azerbaigian contro il Nagorno-Karabakh con il sostegno politico e militare della Turchia. Per più di un mese, infatti, Mosca non accolse le pressanti richieste di intervento provenienti da Pashinyan, ma intervenne solo il 10 novembre 2020, quando l’Azerbaigian era ormai vittorioso, imponendo un accordo che costrinse gli armeni a cedere non solo tutti i distretti azeri occupati nel corso del precedente conflitto, ma anche il 40% circa del territorio del Nagorno-Karabakh vero e proprio. Forze russe di interposizione russe vennero poste a protezione degli armeni della regione, almeno sino alla scadenza dell’accordo nel 2025. L’Armenia, inoltre, si impegnò a fornire sul suo territorio meridionale un “corridoio” di trasporto tra l’Azerbaigian e l’exclave del Nakhichevan, una regione dell’Armenia storica attribuita anch’essa negli anni ’20 del Novecento all’Azerbaigian dalle autorità sovietiche.

 

Il mancato intervento russo può essere spiegato con il fatto che l’aggressione azera non aveva colpito la repubblica d’Armenia, ma il Nagorno-Karabakh, che dal punto di vista giuridico appartiene all’Azerbaigian in seguito alla più che discutibile “scelta” di epoca sovietica. Questa giustificazione non vale però per l’inazione russa degli anni successivi, quando Baku ha impunemente attaccato più volte il territorio della repubblica d’Armenia, occupando al suo interno piccoli territori strategici senza che Mosca intervenisse a protezione dell’alleato. Il disimpegno russo si è manifestato anche quando – nel dicembre del 2022 – l’Azerbaigian ha imposto al Nagorno-Karabakh un blocco completo che ha privato per molti mesi la popolazione armena di rifornimenti alimentari, energetici e medicinali.

Di fronte al venir meno della tradizionale protezione russa, gli armeni hanno cercato nuove strade, rivolgendosi in particolare all’Unione Europea, che si è mostrata sensibile a questa richiesta di aiuto e ha inviato a marzo del 2023 una missione disarmata sul confine armeno a monitorare le azioni dell’Azerbaigian. Una novità di rilievo, ma del tutto inefficace, come ha mostrato il nuovo attacco portato da Baku nel settembre di quest’anno, non casualmente proprio nei giorni in cui aveva luogo un’improvvida esercitazione militare congiunta armeno-americana che Mosca ha evidentemente percepito come una provocazione. La resistenza degli armeni del Nagorno-Karabakh è stata pertanto spezzata senza che la Russia intervenisse[6].

In seguito a questa aggressione, condannata da alcuni Paesi occidentali (USA, Francia, Germania, non l’Italia)[7], l’intera popolazione armena ha lasciato per sempre la regione, cosa del tutto comprensibile viste le ferite prodotte dagli oltre trent’anni di conflitto con l’Azerbaigian e la completa assenza da parte di Baku di ogni garanzia di autonomia e di sicurezza per le numerose persone coinvolte in questo periodo nella gestione politica e militare della repubblica di Artsakh, ormai dissoltasi. Del resto, benché in Occidente – e in Italia in particolare – si presti poca o nessuna attenzione alla questione, l’Azerbaigian si trova agli ultimi posti di tutte le classifiche internazionali per quel che riguarda le libertà politiche e culturali. Il completo esodo della popolazione armena rende tra l’altro possibile che Baku replichi nel Nagorno-Karabakh la politica di genocidio culturale perpetrata nel Nakhichevan, dove l’intero patrimonio artistico armeno (decine di chiese e migliaia di khachkar, le croci di pietra così caratteristiche dell’arte di questo popolo) è stato distrutto negli ultimi decenni[8].

Tuttavia, per quanto doloroso sia il destino del Nagorno-Karabakh, a preoccupare oggi è la stessa sorte dell’Armenia. Stretta tra due Paesi ostili e ben più forti come la Turchia e l’Azerbaigian, l’Armenia si trova in una situazione geopolitica quanto mai difficile. Nell’incontro del 25 settembre di quest’anno, avvenuto non a caso proprio nel Nakhichevan, Aliev e Baku hanno rilanciato l’idea di creare un collegamento terrestre tra Azerbaigian e Turchia attraverso il territorio armeno. Questo punto era in effetti contemplato, sia pure in maniera poco chiara, nell’accordo che aveva posto fine al conflitto nel 2020, ma faceva parte di uno schema che comprendeva il Nagorno-Karabakh. Adesso che questa regione non esiste più, il progetto di un “corridoio” costituisce evidentemente uno sviluppo quanto mai minaccioso verso l’Armenia. Si deve in effetti tener presente che Baku propone in maniera sempre più aggressiva un discorso pseudo-storico, che rivendica come proprio gran parte del territorio armeno, definito “Azerbaigian occidentale”[9]. È evidente che la liberazione delle “terre occupate dagli armeni” potrebbe avvenire solo sterminando o scacciando questi ultimi i quali – occorre ricordarlo? – hanno già subito tale destino da parte dei Giovani Turchi nel genocidio del 1915, mai riconosciuto da Ankara[10]. In effetti l’aggressivo espansionismo di Baku verso l’Armenia ha un carattere potenzialmente genocidario, ma viene ignorato da molti Paesi, incluso il nostro, che traggono ampi vantaggi dalla collaborazione energetica con l’Azerbaigian.

A prescindere dalla valutazione della rischiosa linea politica filo-occidentale seguita negli ultimi anni dalla dirigenza di Erevan, si è senza dubbio creata una situazione nella quale la stessa esistenza della repubblica d’Armenia appare minacciata. Anche se la Russia continua per ora a mantenere una base militare al confine armeno-turco e l’Iran invita Baku a non usare la forza contro l’Armenia, questo Paese si trova oggi sostanzialmente solo di fronte a un Azerbaigian strapotente che potrebbe decidere di sfruttare la situazione favorevole potendo tra l’altro contare sul sostegno della Turchia.

Alla luce di questa situazione pericolosa sarebbe assolutamente necessario che la sicurezza dell’Armenia, non più fornita dalla Russia, venisse garantita in forma nuova. In primo luogo, da Stati Uniti ed Unione Europea, certo. Ma, nonostante gli appelli rivolti da Washington, Parigi e Berlino a Baku perché rispetti l’integrità territoriale dell’Armenia, si fatica a immaginare che in caso di aggressione questo Stato possa ricevere un sostegno occidentale paragonabile a quello che si è prodotto in difesa dell’Ucraina. L’intera comunità internazionale dovrebbe in effetti farsi carico del destino di un Paese e di un popolo molte volte duramente colpiti dalla storia. Il primo passo in questa direzione sarebbe affrontare con fermezza l’Azerbaigian, imponendogli di rispettare l’integrità territoriale dell’Armenia e preservare il grande patrimonio culturale abbandonato dagli armeni fuggiti dal Nagorno-Karabakh.

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Gli sfollati con la forza dell’Artsakh temono che l’Azerbajgian non darà loro pace nemmeno in Armenia (Korazym 28.11.23)

[Korazym.org/Blog dell’Editore, 28.11.2023 – Vik van Brantegem] – Il Servizio di Sicurezza Nazionale dell’Armenia ha riferito, che al 26 novembre 2023 un totale di 10.929 cittadini sfollati con la forza dall’Artsakh hanno lasciato la Repubblica di Armenia attraverso vari valichi di frontiera aerei e terrestri. Di questo gruppo, 4.303 persone sono tornate in Armenia. Queste informazioni sottolineano le complesse dinamiche e sfide affrontate dai cittadini dell’Artsakh in Armenia all’indomani della pulizia etnica nell’Artsakh nel settembre 2023.

È da notare che 6.626 persone non sono tornate in Armenia alla data indicata. Questa statistica mette in luce l’impatto significativo delle questioni socio-politiche che la popolazione dell’Artsakh si trova ad affrontare. È allarmante che i problemi, a partire dagli alloggi e dalla facilitazione del processo di registrazione, non siano riusciti a mantenere in Armenia il numero di persone menzionato. Nonostante l’enorme sostegno e aiuto da parte di individui e gruppi sia della diaspora che dell’Armenia, i gravi problemi che gli Armeni stanno affrontando sono troppo grandi per le iniziative private e sono sotto la responsabilità dello Stato (Fonte: Agenzia 301).

Più che le difficolta socio-economiche, che gli sfollati con la forza dell’Artsakh devono affrontare, come evidenziato dall’agenzia 301, il motivo perché un certo numero di loro ha lasciato l’Armenia, è da cercare nel timore che l’Azerbajgian non avrebbe dato loro pace nemmeno in Armenia, sapendo che solo l’Occidente al momento sta trattenendo l’Azerbajgian dall’invasione dell’”Azerbajgian occidentale” (= Armenia).

«Comunità: l’Armenia continua ad essere ostaggio della cosiddetta ideologia dell’”eccezionalismo etnico”.
La Comunità dell’Azerbajgian Occidentale ha commentato l’informazione diffusa dal Ministero della Scienza e dell’Istruzione dell’Armenia sulla compilazione di un elenco di 140 monumenti del “patrimonio culturale armeno” nel Karabakh e la sua presentazione al Ministero degli Esteri per lo svolgimento dei lavori a livello internazionale.
Le informazioni fornite dalla comunità dicono: “(…) Questo passo del governo armeno, che considera le attività della Comunità dell’Azerbajgian occidentale in Armenia legate al patrimonio culturale azerbajgiano come un attacco alla sua sovranità e integrità territoriale, è ipocrita e razzista. L’Armenia continua a vivere nel mondo delle favole che ha inventato, ostaggio della cosiddetta ideologia come “eccezionalismo etnico”. I funzionari Armeni non dovrebbero distruggere il patrimonio culturale del popolo azerbajgiano nel proprio territorio, non dovrebbero rivendicarlo in nome di altre nazioni e dovrebbero consentire alla missione conoscitiva dell’UNESCO di visitare l’Armenia».

Chiasso TV, a Web Tv del Ticino e della Svizzera in lingua italiana ha pubblicato il video Le teste tagliate ai bambini e ai soldati Armeni non fanno notizia!, con l’agghiacciante intervista di Iravaban.net alla signora Lyudmila Hairyan, sfollata con la forza dell’Artsakh e la testimonianza del giornalista ed ex deputato italiano Renato Farina, che si è occupato del continuo dramma dell’Armenia. I due video di questa puntata, sono le versioni integrali viste dal pubblico presente alla conferenza organizzata dall’Associazione “Germoglio” lo scorso giovedì 23 novembre 2023 nell’Aula Magna del Liceo diocesano in via Lucino 79 a Breganzona, Lugano, Svizzera.

«Chiesa di San Giovanni a Göygöl, Azerbajgian. La prima chiesa luterana tedesca (fondata nel 1857) nell’Azerbajgian multiculturale preserva meticolosamente la sua eredità cristiana» (Nasimi Aghaev, Ambasciatore dell’Azerbajgian in Germania).

Ecco il bugiardo seriale “diplomatico” di Aliyev in Germania sbugiardato:

«L’Ambasciatore dell’Azerbajgian in Germania, Nasimi Agayev, ha pubblicato una foto della chiesa luterana a Göygöl, nascondendo accuratamente l’assenza della croce. Molti potrebbero obiettare che l’edificio è attualmente utilizzato per uno scopo diverso, ma allora perché Agayev ha nascosto questo fatto? Non è forse perché i Tedeschi trarrebbero immediatamente dei parallelismi tra la loro chiesa e le centinaia di chiese armene da cui gli Azeri hanno rimosso le croci?» (Ararat Petrosyan, Vice Redattore Capo di Armenpress).

La conferma: «L’Azerbajgian non ha rimosso le croci da questa chiesa. Fu fatto in epoca sovietica, dopo che Stalin deportò tutti i Tedeschi dal Caucaso alla Siberia. L’edificio ora funziona come un museo, ben conservato e restaurato. A causa dell’assenza della comunità tedesca non funziona come chiesa» (Fizuli Jabrayilov).

Il cittadino della Repubblica di Artsakh, Vagif Khachatryan, rapito dalle guardie di frontiera azerbajgiane durante il suo trasferimento sotto scorta del Comitato Internazionale della Croce Rosse e successivamente condannato illegalmente a 15 anni di carcere in Azerbajgian, con accuse inventate di crimine di guerra, ha presentato ricorso contro il verdetto alla corte d’appello, ha detto il suo avvocato Azero ai media azeri.
«Ormai, conosciamo tutti a memoria i nomi e la storia familiare di ogni ostaggio Israeliano di Hamas, poiché ricevono una copertura mediatica 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Al contrario, la copertura mediatica internazionale sugli ostaggi Armeni nelle carceri azere del genocidio è ZERO. Questo malato di 68 anni è stato rapito dall’auto della Croce Rossa mentre era finalmente diretto in Armenia a sottoporsi ad un intervento al cuore, poiché il Nagorno-Karabakh era sotto blocco da mesi. È un uomo innocente, utilizzato dal regime azero per la propaganda armenofobica. Vagif Khachatryan libero» (Nara Matinian).

«Durante gli ultimissimi giorni della pulizia etnica nel Nagorno-Karabakh, Karlen, 10 anni, è stato deliberatamente colpito dalle forze armate dell’Azerbajgian mentre andava in bicicletta in una Stepanakert quasi vuota cercando di ottenere aiuto dalla Croce Rossa per il suo nonno» (Nara Matinian).

Tutto questo è all’attenzione per quei propagandisti filo-Azeri occidentali, che sostengono che gli Armeni avrebbero potuto restare in Artsakh, che nessuno li ha cacciato e che potrebbero vivere tranquillamente sotto la dittatura militare azera stabilita nell’Artsakh.

Benvenuti in Azerbajgian, la nazione che ha ricevuto punteggi record da Freedom House per quanto riguarda il livello di democrazia.

«Freedom House – NAZIONI IN TRANSITO 2023 – Azerbajgian – REGIME AUTORITARIO CONSOLIDATO 1/10 – Percentuale di democrazia 1,19/100 – Punteggio di democrazia 1.07/7 – PERCENTUALE E STATUS DELLA DEMOCRAZIA DELL’ANNO SCORSO – 1/100 Regime autoritario consolidato
Le valutazioni si basano su una scala da 1 a 7, dove 7 rappresenta il livello più alto di progresso democratico e 1 quello più basso. Il punteggio di democrazia è una media delle valutazioni per le categorie monitorate in un dato anno.
La percentuale di democrazia, introdotta nel 2020, è una traduzione del punteggio di democrazia su una scala da 0 a 100, dove o significa meno democratico e 100 significa più democratico».

«Il potere nel regime autoritario dell’Azerbajgian rimane fortemente concentrato nelle mani di Ilham Aliyev, Presidente dal 2003, e della sua famiglia allargata. La corruzione è dilagante e l’opposizione politica formale è stata indebolita da anni di persecuzione. Negli ultimi anni le autorità hanno attuato una vasta repressione delle libertà civili, lasciando poco spazio all’espressione indipendente o all’attivismo» (Freedom House).

Aziz Orujev durante suo arresto. Sua figlia è riluttante a lasciare andare suo padre.

«Ancora un altro giornalista indipendente, Aziz Orujev, è stato arrestato in Azerbajgian davanti alla sua bambina. Un’immagine che dice più di mille parole sull’autoritarismo» (Rayhan Demytrie, giornalista della BBC che si occupa del Caucaso meridionale e dell’Asia centrale).

Un altro giornalista arrestato in Azerbajgian
JAMnews, 27 novembre 2023

(Nostra traduzione italiana dall’inglese)

Il capo di un’altra organo di stampa indipendente, Aziz Orujev, del canale Internet Kanal 13, è stato arrestato in Azerbajgian. La polizia ha condotto perquisizioni nella residenza di Orujev e nell’ufficio del canale.

Le accuse specifiche contro il giornalista non sono ancora chiare. Tuttavia, il suo arresto coincide con la pubblicazione di sovvenzioni illegali da parte di organizzazioni europee e americane presumibilmente introdotte nel Paese con il contrabbando, nonché con l’arresto della direzione della pubblicazione Internet Abzas Media.

Il 27 novembre la polizia ha effettuato un’irruzione nell’abitazione di Aziz Orujev, direttore esecutivo del canale YouTube Kanal 13. Secondo sua moglie Lamiya Orujeva, la perquisizione è stata condotta su ordine del tribunale e alla presenza dell’avvocato Bakhruz Bayramov. “Attualmente ci sono 8 agenti di polizia a casa nostra. Solo uno ha la faccia scoperta; tutti gli altri indossano passamontagna. Non riveleranno i motivi della ricerca o cosa stanno cercando. Dopo porteranno via Aziz. Non hanno nemmeno specificato dove lo avrebbero portato esattamente”, ha detto Lamiya Orujeva.

L’avvocato Bahruz Bayramov ha dichiarato che la perquisizione è stata condotta sulla base di un ordine del tribunale. “Aziz Orujev ha acquistato alcuni anni fa un appezzamento di terreno a Baku nella zona chiamata ‘Sezione 20’ e presumibilmente vi ha costruito una casa illegale. Così hanno giustificato il motivo della perquisizione. Ma dopo la perquisizione della sua abitazione è stato perquisito anche il suo ufficio”.

Il direttore di Kanal 13, Aziz Orujev, ha precedenti penali per crimini economici. Nel 2017 ha ricevuto una pena detentiva di 6 anni, successivamente commutata nel 2018, che ha portato al suo rilascio sulla parola. Negli ultimi anni, il canale ha operato nel formato di un canale YouTube.

Arrestati il direttore, il vice assistente e il caporedattore della pubblicazione Internet indipendente Abzas Media: Ulvi Hasanov, Sevinj Vagifgizi, Mahammad Kekalov.

La settimana scorsa sono stati arrestati il direttore, il vice assistente e il caporedattore della pubblicazione Internet indipendente Abzas Media. Tutti e tre sono accusati ai sensi dell’articolo 206.3.2 (contrabbando da parte di un gruppo di persone per associazione a delinquere) del codice penale dell’Azerbajgian. Secondo la decisione del tribunale, sono stati tutti sottoposti a quattro mesi di arresto preliminare.

Il 27 novembre, la Corte d’appello di Baku ha confermato la detenzione del caporedattore Sevinj Vagifgizi e del direttore Ulvi Hasanli. L’avvocato nominato dallo Stato per il vicedirettore Mahammad Kekalov non ha presentato ricorso contro l’arresto del suo cliente.

La madre di Sevinj Vagifgizi, Ofelia Maharramova, ha affermato che sua figlia è innocente ed è detenuta con accuse inventate. Ha messo in dubbio la fondatezza delle affermazioni dell’accusa riguardo al ritrovamento di una grossa somma di denaro nella redazione, sottolineando l’assenza delle impronte digitali di Sevigno sulle banconote. Secondo Maharramova, a Vagifgizi è vietato comunicare telefonicamente con la sua famiglia. Maharramova ha detto che sua figlia era a conoscenza della possibilità di essere arrestata a Baku e le era stato consigliato di non tornare. Vagifgizi ha insistito per continuare il suo lavoro giornalistico nonostante i rischi previsti.

L’avvocato Zibeyda Sadigova ha riferito che anche Ulvi Hasanli nega le accuse e, come Vagifgizi, gli viene negata la possibilità di comunicazioni telefoniche e di incontri con i familiari. Gli avvocati intendono presentare una denuncia separata sulla questione. Vagifgizi ha anche presentato una denuncia per violazione della presunzione di innocenza da parte dell’agenzia Report, che ha dipinto Vagifgizi e Hasanli come autori di un crimine, nonostante le indagini in corso. Secondo l’avvocato Fariz Namazli, la corte d’appello non ha affrontato questa denuncia.

Dopo il Nagorno-Karabakh è la volta dell’Armenia?
di Aldo Ferrari
Fondazione Oasis, 28 novembre 2023

Venuto meno il tradizionale legame con Mosca, Yerevan si è trovata sola di fronte a un Azerbajgian che negli ultimi anni ha raggiunto un’enorme superiorità economica, presto divenuta anche militare. Oggi è necessario che la sicurezza dell’Armenia, non più fornita dalla Russia, sia garantita in forma nuova.

La lunga contesa tra Armenia e Azerbajgian per il Nagorno-Karabakh si è conclusa nella sostanziale indifferenza della comunità internazionale, la cui attenzione principale è rivolta al perdurante conflitto russo-ucraino e alla ripresa devastante di quello israelo-palestinese. Eppure, la sorte di questa regione, che ha avuto un ruolo quanto mai importante nella storia dell’Armenia [1], meriterebbe maggiore attenzione, in primo luogo per la sua tragica irreversibilità. Abitato in larga maggioranza da Armeni, ma collocato negli anni ’20 all’interno dell’Azerbajgian dalle autorità sovietiche [2], dopo il crollo dell’URSS il Nagorno-Karabakh riuscì con una guerra vittoriosa a rendersi indipendente de facto nel 1994, occupando anche alcuni territori circostanti etnicamente azeri. Si creò così una repubblica indipendente, non riconosciuta peraltro a livello internazionale, che riprese l’antica denominazione armena della regione, Artsakh [3].

In questo conflitto si sono scontrati due principi giuridici, quello dell’integrità territoriale degli Stati e quello dell’autodeterminazione dei popoli. Confidando nella protezione di Mosca, alla cui sfera politica, economica e di sicurezza Yerevan è rimasta a lungo vicina (entrando anche a far parte dell’alleanza militare a guida russa, la CSTO), gli armeni non hanno accettato una soluzione di compromesso alla quale il Gruppo di Minsk dell’OSCE ha lavorato invano per decenni. Un’intransigenza condivisa dagli Azeri, che però in tutto questo tempo hanno sfruttato appieno le notevoli risorse energetiche del loro Paese per conseguire una enorme superiorità economica, presto divenuta anche militare. La questione irrisolta del Nagorno-Karabakh ha pesato notevolmente sull’Armenia, che per circa vent’anni ha visto al potere politici provenienti da questa regione contesa, prima Robert Kocharyan e poi Serzh Sargsyan.

Il forte legame con Mosca ha costituito per decenni una garanzia di sicurezza per l’Armenia nei confronti dei suoi vicini ostili: l’Azerbajgian, ma anche la Turchia, erede dell’Impero ottomano, che perpetrò nel 1915 il genocidio degli Armeni, mai riconosciuto da Ankara. Il momento di svolta della decennale contesa per il Nagorno-Karabakh deve essere visto nella cosiddetta “rivoluzione di velluto” del 2018, che ha portato al potere in Armenia un nuovo leader, Nikol Pashinyan, meno legato alla tradizionale alleanza con la Russia e rivolto piuttosto verso l’Occidente [5]. La modalità stessa, «dal basso», del cambiamento politico in Armenia è stata poco apprezzata dal Cremlino. La diffidenza nei confronti del nuovo corso di Yerevan può spiegare anche l’atteggiamento della Russia in occasione del conflitto scatenato il 27 settembre 2020 dall’Azerbajgian contro il Nagorno-Karabakh con il sostegno politico e militare della Turchia. Per più di un mese, infatti, Mosca non accolse le pressanti richieste di intervento provenienti da Pashinyan, ma intervenne solo il 9 novembre 2020, quando l’Azerbajgian era ormai vittorioso, imponendo un accordo che costrinse gli Armeni a cedere non solo tutti i distretti azeri occupati nel corso del precedente conflitto, ma anche il 40% circa del territorio del Nagorno-Karabakh vero e proprio. Forze di interposizione russe vennero poste a protezione degli Armeni della regione, almeno sino alla scadenza dell’accordo nel 2025. L’Armenia, inoltre, si impegnò a fornire sul suo territorio meridionale un “corridoio” di trasporto tra l’Azerbajgian e l’exclave del Nakhichevan, una regione dell’Armenia storica attribuita anch’essa negli anni ’20 del Novecento all’Azerbajgian dalle autorità sovietiche.

Il mancato intervento russo può essere spiegato con il fatto che l’aggressione azera non aveva colpito la Repubblica di Armenia, ma il Nagorno-Karabakh, che dal punto di vista giuridico appartiene all’Azerbajgian in seguito alla più che discutibile “scelta” di epoca sovietica. Questa giustificazione non vale però per l’inazione russa degli anni successivi, quando Baku ha impunemente attaccato più volte il territorio della Repubblica di Armenia, occupando al suo interno piccoli territori strategici senza che Mosca intervenisse a protezione dell’alleato. Il disimpegno russo si è manifestato anche quando – nel dicembre del 2022 – l’Azerbajgian ha imposto al Nagorno-Karabakh un blocco completo che ha privato per molti mesi la popolazione armena di rifornimenti alimentari, energetici e medicinali.

Di fronte al venir meno della tradizionale protezione russa, gli Armeni hanno cercato nuove strade, rivolgendosi in particolare all’Unione Europea, che si è mostrata sensibile a questa richiesta di aiuto e ha inviato a marzo del 2023 una missione disarmata sul confine armeno a monitorare le azioni dell’Azerbajgian. Una novità di rilievo, ma del tutto inefficace, come ha mostrato il nuovo attacco portato da Baku nel settembre di quest’anno, non casualmente proprio nei giorni in cui aveva luogo un’improvvida esercitazione militare congiunta armeno-americana che Mosca ha evidentemente percepito come una provocazione. La resistenza degli Armeni del Nagorno-Karabakh è stata pertanto spezzata senza che la Russia intervenisse [6].

In seguito a questa aggressione, condannata da alcuni Paesi occidentali (USA, Francia, Germania, non l’Italia) [7], l’intera popolazione armena ha lasciato per sempre la regione, cosa del tutto comprensibile viste le ferite prodotte dagli oltre trent’anni di conflitto con l’Azerbajgian e la completa assenza da parte di Baku di ogni garanzia di autonomia e di sicurezza per le numerose persone coinvolte in questo periodo nella gestione politica e militare della repubblica di Artsakh, ormai dissoltasi. Del resto, benché in Occidente – e in Italia in particolare – si presti poca o nessuna attenzione alla questione, l’Azerbajgian si trova agli ultimi posti di tutte le classifiche internazionali per quel che riguarda le libertà politiche e culturali. Il completo esodo della popolazione armena rende tra l’altro possibile che Baku replichi nel Nagorno-Karabakh la politica di genocidio culturale perpetrata nel Nakhichevan, dove l’intero patrimonio artistico armeno (decine di chiese e migliaia di khachkar, le croci di pietra così caratteristiche dell’arte di questo popolo) è stato distrutto negli ultimi decenni [8].

Tuttavia, per quanto doloroso sia il destino del Nagorno-Karabakh, a preoccupare oggi è la stessa sorte dell’Armenia. Stretta tra due Paesi ostili e ben più forti come la Turchia e l’Azerbaigian, l’Armenia si trova in una situazione geopolitica quanto mai difficile. Nell’incontro del 25 settembre di quest’anno, avvenuto non a caso proprio nel Nakhichevan, Aliev e Baku hanno rilanciato l’idea di creare un collegamento terrestre tra Azerbajgian e Turchia attraverso il territorio armeno. Questo punto era in effetti contemplato, sia pure in maniera poco chiara, nell’accordo che aveva posto fine al conflitto nel 2020, ma faceva parte di uno schema che comprendeva il Nagorno-Karabakh. Adesso che questa regione non esiste più, il progetto di un “corridoio” costituisce evidentemente uno sviluppo quanto mai minaccioso verso l’Armenia. Si deve in effetti tener presente che Baku propone in maniera sempre più aggressiva un discorso pseudo-storico, che rivendica come proprio gran parte del territorio armeno, definito “Azerbajgian occidentale” [9]. È evidente che la liberazione delle “terre occupate dagli Armeni” potrebbe avvenire solo sterminando o scacciando questi ultimi i quali – occorre ricordarlo? – hanno già subito tale destino da parte dei Giovani Turchi nel genocidio del 1915, mai riconosciuto da Ankara [10]. In effetti l’aggressivo espansionismo di Baku verso l’Armenia ha un carattere potenzialmente genocidario, ma viene ignorato da molti Paesi, incluso il nostro, che traggono ampi vantaggi dalla collaborazione energetica con l’Azerbajgian.

A prescindere dalla valutazione della rischiosa linea politica filo-occidentale seguita negli ultimi anni dalla dirigenza di Yerevan, si è senza dubbio creata una situazione nella quale la stessa esistenza della Repubblica di Armenia appare minacciata. Anche se la Russia continua per ora a mantenere una base militare al confine armeno-turco e l’Iran invita Baku a non usare la forza contro l’Armenia, questo Paese si trova oggi sostanzialmente solo di fronte a un Azerbajgian strapotente che potrebbe decidere di sfruttare la situazione favorevole potendo tra l’altro contare sul sostegno della Turchia.

Alla luce di questa situazione pericolosa sarebbe assolutamente necessario che la sicurezza dell’Armenia, non più fornita dalla Russia, venisse garantita in forma nuova. In primo luogo, da Stati Uniti ed Unione Europea, certo. Ma, nonostante gli appelli rivolti da Washington, Parigi e Berlino a Baku perché rispetti l’integrità territoriale dell’Armenia, si fatica a immaginare che in caso di aggressione questo Stato possa ricevere un sostegno occidentale paragonabile a quello che si è prodotto in difesa dell’Ucraina. L’intera comunità internazionale dovrebbe in effetti farsi carico del destino di un Paese e di un popolo molte volte duramente colpiti dalla storia. Il primo passo in questa direzione sarebbe affrontare con fermezza l’Azerbajgian, imponendogli di rispettare l’integrità territoriale dell’Armenia e preservare il grande patrimonio culturale abbandonato dagli armeni fuggiti dal Nagorno-Karabakh.

[1] Soprattutto nei secoli XVII-XVIII questa regione, in cui si è conservata a lungo una forma di autonomia politica, ha cercato senza successo di ricreare un regno nazionale con l’appoggio della Russia. Su questo aspetto rimando al mio studio In cerca di un regno. Profezia, nobiltà e monarchia in Armenia tra Settecento e Ottocento, Mimesis, Milano 2011.
[2] Benché il contrasto tra Armeni e Azeri sia essenzialmente territoriale, si deve ricordare che i primi sono cristiani sin dall’inizio del IV secolo, mentre i secondi sono musulmani, prevalentemente sciiti.
[3] Su questo conflitto si vedano soprattutto Thomas De Waal, Black Garden. Armenia and Azerbaijan through Peace and War, New York University Press, New York 2003 e Laurence Broers, Armenia and Azerbaijan: Anatomy of a Rivalry, Edinburgh University Press, Edinburgh 2019.
[4] Aldo Ferrari, Giusto Traina, Storia degli armeni, Il Mulino, Bologna 2020, pp. 186-194.
[5] Per un quadro, molto favorevole a questo cambiamento politico, si veda Stepan Grigoryan, Armenian Velvet Revolution, Edit Print, Yerevan 2018.
[6] Si veda in particolare l’articolo di Thomas De Waal, The End of Nagorno-Karabakh. How Western Inaction Enabled Azerbaijan and Russia, «Foreign Affairs», September 26, 2023 [QUI].
[7] L’atteggiamento del nostro Paese nei confronti del conflitto tra Armenia e AzerbaJgian appare davvero inaccettabile. Oltre al silenzio pressoché completo sul blocco del Nagorno-Karabakh e il violento attacco azero alla regione, va anche segnalata la consistente vendita di armamenti a Baku. Si veda al riguardo Antonio Mazzeo, Armenia-Azerbaijan. Tajani si propone mediatore ma l’Italia sta con Baku [QUI].
[8] Segnalo a questo riguardo il recente volume di Antonia Arslan e Aldo Ferrari (a cura di), Un genocidio culturale dei nostri giorni. Nakhichevan: la distruzione della cultura e della storia armena, Guerini e Associati, Milano 2023.
[9] Laurence Broers, Augmented Azerbaijan? The return of Azerbaijani irredentism, «Eurasianet», 5 agosto 2021 [QUI].
[10] Tra l’ormai enorme bibliografia disponibile segnalo il volume di uno studioso Turco che da decenni vive negli Stati Uniti: Taner Akçam, Nazionalismo turco e genocidio armeno. Dall’Impero ottomano alla Repubblica, Guerini e Associati, Milano 2005.

«Gli Stati Uniti incontreranno la loro agenzia in Azerbajgian in questo hotel – JW MARRIOTT ABSHERON – L’Ambasciata degli Stati Uniti in Azerbajgian terrà un incontro con un gruppo di laureati azeri che hanno studiato in America. “Qafqazinfo” ha raccolto alcuni spunti interessanti relativi all’incontro che avrà luogo il 27 novembre presso il famoso hotel “JW Marriott Absheron” di Baku. Il punto è che il nome dell’evento è il cosiddetto “incontro con i laureati”. In realtà si tratta dell’unione della rete di agenzie americane che operano in Azerbajgian. È chiaro che si è fatta sentire la tensione politica tra l’Azerbajgian e gli Stati Uniti» (Afqazinfo.az).

I media statali azeri, che prima avevano diffusi voci secondo cui un evento dell’Ambasciata americana a Baku per gli ex alunni Azeri delle università americane era una copertura per qualcosa di più sinistro, poi hanno detto che l’annullamento dell’evento significava che si è trattato sicuramente di un incontro di spionaggio e non di un evento inoquo.

«Il rinvio dell’incontro a tempo indeterminato dopo questa notizia solleva un grande interrogativo: Se l’intento di questa “misura” era veramente puro, se non era legato alle recenti tensioni nelle relazioni USA-Azerbajgian, se non aveva alcun carattere istruttivo, perché un incontro così ordinario è stato rinviato? Considerando che negli Stati Uniti non esiste alcuna emergenza, abbiamo trovato la risposta alla domanda… – L’incontro con l’agenzia americana a Baku è stato rinviato».

Un’autocrazia mediocre in piena mostra in Azerbajgian, dove gli ex studenti che hanno ricevuto (generosi) borse di studio dagli Stati Uniti, vengono etichettati come “agenti” di “cooperazione segreta”. È pure molto meschino mostrare il nome della giovane impiegata azera dell’Ambasciata, per intimidire.

«È importante sottolineare che non c’è nulla di nuovo in questo nuovo attacco di isteria anti-americana in Azerbaigian. Aliyev ha da tempo posto fine alla presenza di tutte le principali organizzazioni statunitensi, come Radio Liberty, IRI, NDI, OSI ecc. Baku non è un alleato degli Stati Uniti. Sostenere l’Azerbaigian non è nell’interesse naturale degli Stati Uniti» (Eldar Mamedov).

«ALMENO 27 voli provenienti da Turchia e Israele, principali fornitori di armi di Baku, si sono diretti dal 30 settembre (dopo l’occupazione del Nagorno-Karabakh) verso l’Azerbajgian. Alcuni aerei specificamente militari, altri provenienti da basi aeree militari, tutti sospettati di trasportare merci militari» (Nagorno Karabakh Observer).

«Il Segretario di Stato americano, Anthony Blinken, ha avuto una conversazione telefonica con il Primo Ministro armeno, Nikol Pashinyan. Secondo Washington, si è discusso del sostegno degli Stati Uniti agli sforzi per raggiungere un accordo di pace duraturo e dignitoso tra Armenia e Azerbajgian. Il Segretario di Stato ha riaffermato il continuo sostegno degli Stati Uniti alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Armenia e ha sottolineato gli sforzi per aumentare la cooperazione bilaterale con l’Armenia. “Stiamo lavorando per sostenere la sua visione per un futuro prospero e democratico”, ha detto Blinken, secondo il Portavoce del Dipartimento di Stato, Matthew Miller.
Secondo Yerevan, Pashinyan e Blinken hanno discusso questioni relative all’agenda della regione e alle relazioni bilaterali, riferendosi al processo di normalizzazione delle relazioni Armenia-Azerbajgian. L’ufficio del Primo Ministro armeno ha riferito che le parti hanno discusso anche dei problemi umanitari di oltre 100.000 sfollati forzati dal Nagorno-Karabakh, delle misure adottate dal governo armeno per affrontarli e hanno sottolineato l’importanza del sostegno della comunità internazionale.
In una conversazione telefonica con il Presidente dell’Azderbajgian, Ilham Aliyev, il Segretario di Stato americano ha sottolineato che sono consapevoli della sofferenza causata dal lungo conflitto sia agli Azerbajgiani che agli Armeni e ha sottolineato i benefici che la pace porterà alla regione. Miller ha notato che Blinken ha discusso delle relazioni permanenti degli Stati Uniti con l’Azerbajgian, ha menzionato gli ultimi punti problematici nelle relazioni, e ha parlato delle possibilità di rafforzare la cooperazione, soprattutto riguardo al processo di pace e dell’importanza del coinvolgimento ad alto livello.
È evidente che gli Stati Uniti continuano i loro sforzi affinché Armenia e Azerbajgian firmino un trattato di pace. Nonostante i passi isterici anti-occidentali dell’Azerbajgian, gli Stati Uniti continuano ad affermare che il trattato di pace sarà firmato in formati occidentali. Ciò consentirà a Washington di controllare pienamente l’attuazione dell’accordo. In effetti, sarà importante sia per l’Armenia che per l’Azerbajgian, perché entrambe le parti temono che l’accordo non venga rispettato. Gli Stati Uniti sono il centro che può effettivamente garantire l’attuazione dell’accordo di pace. Se l’Azerbajgian vuole una vera pace, dovrebbe raggiungere rapidamente un accordo con l’Armenia sulle questioni della demarcazione dei confini, dello sblocco delle strade, e poi firmare il trattato di pace nel formato di Washington.
Gli Stati Uniti hanno chiaramente detto all’Azerbajgian che le relazioni tra i due Stati non saranno normali finché non saranno risolte le relazioni con l’Armenia. È nell’interesse a lungo termine dell’Azerbajgian intrattenere relazioni normali con l’Occidente ed evitare la minaccia di sanzioni. Ciò è possibile solo se il contratto viene firmato su piattaforme occidentali. La Russia non può fungere da garante e oggi non è serio parlare di concludere un accordo sulla piattaforma di Mosca.
Si possono tenere incontri bilaterali tra Armenia e Azerbajgian ai fini di negoziati sostanziali, accordi sulla demarcazione dei confini e questioni relative al blocco. Bisogna però firmare il contratto a Washington. Si spera che gli Stati Uniti continuino a impegnarsi con la stessa determinazione e a guidare le parti verso la pace sotto gli auspici di Washington» (Roberto Ananyan – Nostra traduzione italiana dall’inglese).

Foto di copertina: la bellezza dell’Artsakh/Nagorno-Karabakh (Foto di Marut Vanyan).

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Gli spettri e le illusioni della Pax Europaea (Huffingtonpost 28.11.23)

L’idea di Europa è un concetto instabile, una configurazione geografica, sociale, culturale e politica le cui parti costitutive mutano costantemente al variare del discorso, della voce che lo pronuncia e dei suoi intenti. L’Europa è quella dei 27 stati dell’Unione Europea, ma è anche la “grande Europa” dei 47 membri del Consiglio d’Europa. È un giardino dove tutto funziona, ma anche un’impenetrabile fortezza. Ed è anche il luogo della Pax Europaea, la pace così intensamente voluta dopo le atrocità delle guerre mondiali. Eppure l’idea di un’Europa pacificata sembra infestata da fantasmi che turbano il suo sonno e rovinano il suo sogno di pace.

Fantasma è una parola ricca di significati e suggestioni. Sono fantasmi gli spettri di coloro che non ci sono più. Morti spesso di morte violenta, i fantasmi tornano a tormentare i vivi accusandoli della loro sofferenza. Ma un fantasma è anche un simulacro ingannatore, il prodotto fantastico della nostra immaginazione. E l’Europa è tormentata, purtroppo, sia da spettri che da illusioni.

Anno dopo anno, la pace su scala globale continua a deteriorare mentre un quarto della popolazione mondiale vive in paesi colpiti da conflitti violenti. E l’Europa non fa eccezione. Le oltre 10.000 vittime civili in Ucraina non ci consentono di illuderci che l’Europa sia “in pace”. Ci sono poi le migliaia di vittime delle guerre balcaniche degli anni ‘90 a metterci in guardia ogni qualvolta le mai risolte tensioni rischiano di sfociare in un conflitto violento, come accaduto nei mesi scorsi a Mitrovica, quando gli scontri interetnici tra serbi e albanesi del Kosovo hanno sfiorato una pericolosa escalation. Senza dimenticare che l’ attacco su larga scala da parte dell’Azerbaijan, lo scorso settembre, oltre ad aver sancito la fine del Nagorno Karabakh armeno e aver causato la morte di 200 persone, la fuga di più di 100 mila persone in Armenia e una grave crisi umanitaria, ci ha fatto ricordare quanto sia precaria la pace nel Caucaso.

Ma, fantasmi sono anche le grandi illusioni dell’Europa “in pace” che non vuole vedere tutte le “guerre” che la abitano. E forse la più grande illusione della Pax Europaea è proprio la distinzione tra pace e guerra. La pace non è solo l’assenza di conflitti violenti (pace negativa), ma è un ordine sociale nel quale ciascuno possa realizzare i propri diritti umani (pace positiva). La pace è dunque istruzione, lavoro e salute, è dignità, uguaglianza, inclusione e giustizia. Ma come possiamo illuderci di vivere in pace mentre il Mare Nostrum è ormai la tomba di migliaia di persone in fuga da povertà e violenza? E che dire del continuo incremento della la violenza di genere  e dei crimini di odio, motivati da lgbtqifobia, antisemitismo, islamofobia, antigipsismo, razzismo e abilismo? I media ospitano discorsi che incitano all’odio e propagano narrative violente e divisive. Il tutto mentre la corsa al riarmo ha fatto incrementare i bilanci per le spese militari in moltissimi paesi europei.

Sono questi alcuni degli spettri e delle illusioni che tormentano il sonno dell’Europa. Ma se questo sonno è così inquieto, perchè l’Europa non si sveglia? La pace non è solo diritto, è responsabilità. Si potrebbe cominciare da una presa di coscienza che la promozione della pace comincia da noi, non solo dalla nostra società, ma proprio dalle nostre relazioni quotidiane. Bisognerebbe riprendere possesso del senso critico che spesso teniamo per comodità assopito, impegnare le nostre energie in un dialogo costruttivo con l’altro anche quando farlo è faticoso,  elaborare un linguaggio che non sia intrinsecamente violento e discriminatorio, e approcciarsi in maniera vigile e consapevole ai mezzi di informazione. E poi aprirci alle storie di voci ed esperienze lontane dalla nostra. Fare, insomma, della nostra empatia e capacità di immedesimarci nell’altro una potente forza motrice per il progresso dei diritti umani e della pace. Un’ultima cosa che, infine, potrebbe aiutarci a contrastare gli spettri e le illusioni della pace è la capacità di scrollarsi di dosso quella stagnante sensazione di impotenza che così spesso ci coglie in un era in cui sappiamo tanto ma abbiamo la sensazione di poter fare poco se non nulla per cambiare la realtà. Dobbiamo smettere di considerarci passivi fruitori dei racconti di un mondo in guerra e diventare dei veri agenti di pace.

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